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numero_14

Lo stato dà, lo stato toglie. La risacca dei diritti civili

Il momento dell’insediamento del presidente degli Stati Uniti, con i suoi rituali moltiplicati all’infinito dai mass media di tutto il mondo, è uno dei più importanti nella politica statunitense: serve per alimentare la mitologia del potere centrale e caratterizzare la politica degli anni a venire, sfruttando l’entusiasmo della campagna elettorale vittoriosa. E l’attuale presidente, che più ancora dei suoi predecessori prospera nella manipolazione dell’immagine, non ha perso l’occasione per sfruttare il momento al massimo. Durante le primissime fasi della sua nuova carica egli ha emesso decine di executive order, ovvero atti di prerogativa presidenziale ed immediatamente esecutivi. Normalmente emanati in numero ridotto, è già chiaro che questa presidenza potrebbe battere ogni precedente record. Gli executive order di cui stiamo parlando sono stati usati per legiferare a tappeto su una serie di questioni chiave della campagna elettorale e dare immediata attuazione ai temi cari alle lobby ultra-conservatrici che hanno sostenuto la campagna elettorale. Ma non solo: questa impronta ideologica forte si sta già riflettendo nel settore privato, autorizzando molte aziende a rivedere in senso antifemminista e reazionario quel poco di politiche “inclusive” che adottavano.

Gli exectuive order vanno dalla concessione di grazie alle persone coinvolte nei fatti del 6 gennaio 2021, al rafforzamento della pena di morte, dall’accelerazione dell’estrazione di idrocarburi, all’aumento dei poteri dell’esercito a diverse altre materie. Alcuni riguardano direttamente le questioni di genere. L’ordine intitolato “Difesa delle donne dall’estremismo dell’ideologia gender e ripristino della verità biologica nel Governo Federale” revoca il riconoscimento delle persone trans: già durante il discorso di insediamento Trump aveva dichiarato che “Da oggi sarà politica ufficiale del governo … che esistono solo due generi: maschile e femminile”. Non sorprende che la rubrica di questo atto cerchi di camuffarlo da difesa paternalistica delle donne (ovviamente solo quelle cis-etero si presume). Come in molti altri provvedimenti il piano legale e quello morale si confondono completamente, con l’impiego di termini come “buon senso” e “natura”, senza alcun riguardo per la situazione materiale nel paese, dove milioni di persone vivono la loro vita sulla base di un ordinamento giuridico che per quanto manchevole tuttavia concedeva certi diritti, ora gettati nel caos. Ma già creare una situazione di vaghezza normativa permetterà l’esercizio di arbitrii polizieschi, come sta già succedendo a molte persone migranti o non-americane. Vale ricordare che oltre al “buon senso” e alla “natura”, i costanti riferimenti ad un generico “Dio”, che è quello degli evangelici, sono tra le fonti principali dell’ideologia dietro queste norme.

Un gruppo di tre executive order invece si occupa di rescindere le politiche c.d. “DEI” (diversity equity and inclusion), ovvero    un complesso di politiche di “discriminazione attiva” volto a cercare di compensare la sottorappresentazione di gruppi tradizionalmente discriminati in alcune carriere od istituzioni. Questa pratica viene definita “immorale”, oltre illegale e inefficiente, (Trump aveva anche cercato di attribuire un recente incidente aereo alle “assunzioni politicamente corrette”) ed alimenta il mito delle schiere di profittatori che rubano i posti spettanti agli americani onesti, ovverosia conformi all’immagine propagandistica della destra. Viene vietato anche l’insegnamento dell’uguaglianza nelle scuole primarie e medie. Il provvedimento al momento si trova parzialmente bloccato in tribunale per un ricorso.

La calda accoglienza di questo vendicativo provvedimento da parte de* elettr* repubblicani fa sospettare che queste persone non si rendano conto di come la revoca di questi benefici li coinvolgerà direttamente, nell’illusione di far parte di un mitico “noi” in perenne lotta contro un “loro” su cui si proiettano tutti i disvalori tradizionali, e dando l’avallo a politiche classiste i cui risultati saranno quelli di aumentare il già incredibile divario tra ricchi e poveri nella società statunitense. D’altronde il “cattivismo” trumpiano è  una postura demagogica esclusivamente calibrata per creare consenso da parte di una base di votanti che va in ogni modo distratta dalla situazione reale dell’economia, e contemporaneamente per tirare sul ghiaccio l’opposizione su un tema estremamente impopolare. Ricordiamo che la base giuridica per l’aborto libero e sicuro negli Stati Uniti è già stata revocata, e che l’amministrazione Biden si è rifiutata o non ha potuto legiferare per garantirlo definitivamente.

Rientra in questa “guerra culturale” la sentenza è stata emessa dalla corte Suprema del Regno Unito nell’ambito di un procedimento promosso da “For Women Scotland” un gruppo di “protezione dei diritti delle donne”, che curiosamente usa come simbolo uno specchio di Venere con due “X”, solo una delle combinazioni cromosomiche che possono portare ad un corpo femminile “dalla nascita”. La nota scrittrice di successo JK Rowling ha contribuito pubblicamente a sponsorizzare questa causa legale, costata £250.000, ed ha altrettanto pubblicamente esultato per l’esito pubblicando una foto a bordo del suo yacht. Al momento su questa decisione pende un ricorso presso la Corte Europea dei Diritti Umani, promosso peraltro dalla prima giudice apertamente trans d’Inghilterra.

Il gruppo che ha agito questa causa presso la corte suprema chiedeva di abrogare una norma di legge che riservava il 50% dei posti nei comitati pubblici alle donne, perché includeva le donne trans. La sentenza rende un’interpretazione letteralista, per cui “donna” significa donna biologica, e quindi esclude le donne trans dalla classe di “donna” per quanto riguarda i benefici previsti dalle leggi contro la discriminazione. Il risultato è che questi benefici saranno limitati alle donne cisgenere e – paradossalmente ma coerentemente – agli uomini trans. Alcune linee guida governative dell’Equality and Human Rights Commission (EHRC) non hanno perso tempo a conformarsi a questa decisione, estendendone gli effetti anche oltre la portata intesa dalla corte, generando grande caos e incertezza sia nelle persone che in molte istituzioni. Il dibattito si incentra sui bagni, spogliatoi e altri spazi riservati, ma è già entrata in vigore l’esclusione delle donne trans dallo sport femminile.

L’applicazione di queste nuove norme implica accertamenti invasivi ed imbarazzanti non solo per le persone trans, che già vedono fortemente limitata la loro libertà di transitare nello spazio pubblico, ma rinforza l’imposizione per tutte le soggettività “donne”, comunque intese, di femminilizzarsi accuratamente per reggere lo sguardo normativo patriarcale. Si sa che peli, voce, muscoli, forme del corpo sono estremamente variabili nei diversi soggetti e nelle diverse età e che il solo dato materiale è un fondamento estremamente illusorio per l’attribuzione di generi.

Confrontiamo la situazione con quella italiana.

In Italia la linea adottata dal governo Meloni è quella già vista della ricostruzione dei neofascisti come amministratori responsabili e di Meloni come “uomo di stato” affidabile tramite dichiarazioni superficialmente rassicuranti, mentre non mancano i provvedimenti repressivi sulle questioni di genere, come la circolare del Ministero dell’Interno che a Marzo 2023 ha chiesto ai comuni di interrompere il riconoscimento e le registrazioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali, l’istituzione della GPA come reato universale, vecchio cavallo di battaglia della destra, ed altri. come È se il governo non trovasse strategico impegnarsi direttamente su questi fronti in questa fase, preferendo criminalizzare il dissenso tutto con un inasprimento senza precedenti delle norme penali. L’Italia rimane così formalmente nel campo dell’Europa dei diritti civili, forse per non assomigliare troppo a quel Putin che fino a qualche anno fa fu uno dei riferimenti politici dei partiti dell’attuale maggioranza. Ma l’attuale governo sembra preferire muoversi sul piano amministrativo e del diniego silenzioso dei servizi, piuttosto che legiferare apertamente contro i diritti: basti pensare ai casi della triptorelina e gli attacchi all’ospedale Careggi, la stessa circolare diretta alle anagrafi di cui sopra, atti difficilmente emendabili presso la magistratura amministrativa. Nel solo Friuli Venezia Giulia, in passato considerato un’eccellenza nella chirurgia di riassegnazione di genere, gli interventi sono sospesi di fatto da prima della pandemia. D’altronde in Italia godono di ottima salute istituzioni ed associazioni catto-fasciste dispostissime a portare avanti il campo della reazione. Tra queste Arcilesbica nazionale da ormai diversi anni mantiene tenacemente una posizione anti-trans, e queerfobica, (definisce la transessualità “un sogno, un’illusione, etc…”), e pur rivendicando un’identità politica anti patriarcale e anticlericale, ha concordato pubblicamente con le posizioni di Giorgia Meloni sul tema, incassando anche l’interesse incuriosito de “la nuova Bussola Quotidiana” e di Pro Vita e Famiglia. Le richieste concrete di Arcilesbica nazionale, oltre ai diritti per le lesbiche, sono soprattutto rivolte a chiedere linee guida più stringenti nei protocolli per la transizione ed altre norme anti trans. Non stupisce quindi l’esultanza per la sentenza della Corte Suprema Britannica, ritenendo evidentemente lo sgomento delle molte persone trans (tra cui molte lesbiche) e di molt* altr* come giustizia finalmente resa contro frange pericolose ed una vittoria per le donne “vere”.

Ma è proprio vero che “donna si nasce”?

Molti dei diritti contro i quali si sta muovendo oggi l’internazionale autoritaria erano stati concessi in fasi precedenti grazie anche a lotte di base, e benché abbiano concretamente migliorato la vita e la sicurezza delle persone LGBT, poggiavano sulla base dello sfruttamento capitalistico delle differenze. Come tutti i diritti concessi, sono soggetti a revoca al cambiare del vento politico, e anche le numerose iniziative di “inclusione” all’interno delle aziende sembrano avere i giorni contati visto che il grande capitale non ha nessun vantaggio a non conformarsi alla nuova temperie. È prevedibile che si possa assistere a breve ad un’inversione di tendenza in senso restrittivo nel pinkwashing aziendale.

Ci troviamo quindi di fronte all’erosione di una serie di diritti che in ogni caso erano concessi da un potere apparentemente benevolo ma in realtà inaffidabile ed opportunista. I nuovi conservatori, pur millantando di partire da dati molto concreti ed ovvi – la “biologia”, il “buon senso” – invocano il potere magico-costitutivo della parola normante e devono necessariamente ricorrere alla prescrizione normativa per produrre il sistema patriarcale, negando una realtà già esistente in cui come soggettività non-cisetero pratichiamo i nostri pochi diritti. Se il binarismo di genere fosse così ovvio ed autoevidente non servirebbero questi megalitici dispositivi normativi per riprodurlo continuamente. Lungi dall’essere affermazioni tecniche, neutre, apolitiche, essi costituiscono un piano ben preciso di affermazione di eterosessualità come norma, con buona pace delle attiviste lesbiche che hanno partecipato a questa campagna transfobica, evidentemente illuse di poter addomesticare il potere statale sotto la copertura della tutela paternalistica delle donne come soggetto unicamente passivo e vittima. Non dimentichiamo le persone intersex che scardinano ogni pretesa di fondamento irrevocabilmente biologico del genere, e subiscono ancora tra le più brutali violenze medicali.

Fa sempre tristezza vedere gruppi che in nome della difesa del corpo femminile invocano la repressione di stato proprio sui corpi sessuati, con lo spauracchio di fantomatiche situazioni di pericolo che nella realtà non si creano mai (gli uomini cisgender sono ancora statisticamente di gran lunga la più grande minaccia alla sicurezza), anche a costo di creare vere, concrete e frequenti situazioni di pericolo e disagio per le persone trans, che – nonostante magistrati, clero e attivits* escludenti – esistono. E fa tristezza l’esultanza per una sentenza raggiunta anche grazie alla sponsorizzazione di una miliardaria che ha fatto del discorso TERF un suo puntiglio personale, e che manifesta pienamente la divisione strumentale al capitale per distrarre dall’appropriazione patriarcale del lavoro e dell’identità stessa delle persone.

L’accanimento dei governi sulle persone non conformi, rivestito dei toni dello scandalo e spacciato come operazione di pulizia morale, è funzionale alla distrazione dall’impoverimento generalizzato delle classi subalterne, dal furto di risorse e dalla corsa alle armi. Al di là della retorica e dell’inefficienza dei governi, esiste una dimostrata correlazione tra l’erosione o anche solo la messa in dubbio della tutela delle minoranze ed un’accresciuta minaccia fisica per le persone, l’aumento dei suicidi, il peggioramento dell’impiegabilità e della qualità della vita e dell’accesso ai servizi. Impegniamoci per offrire accoglienza, visibilità e complicità alle persone che sono a rischio di perdere i loro diritti in un’ottica di solidarietà di classe e continuiamo a puntare il dito contro la falsa alternativa tra libertà e benessere economico.

Se la crudeltà eletta a sistema è la loro legalità, avremo sempre dalla nostra parte la multiforme ingovernabile imprevedibile realtà dei generi e della vita.

Julissa

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Dal basso e senza permesso. Riscrivere l’aborto, riscrivere il presente

Alle origini

Il Movimento per la Vita (MpV) prende forma a Firenze nel 1975, in pieno fermento sul tema dell’aborto. Nasce attorno a un gruppo di giovani cattolici, “Iniziativa e collegamento”, che lancia una raccolta firme con il documento Dichiarazione in difesa del diritto alla vita. Il MpV si sviluppa inizialmente senza appoggi partitici, ma con il sostegno di volontari legati al mondo ecclesiale, ed è guidato da figure come Carlo Casini. È in questo contesto che viene fondato il primo Centro di aiuto alla vita, segnando l’inizio di un’attività strutturata e persistente sul territorio. Dopo il disastro di Seveso, che accende i riflettori mediatici sul tema, l’aborto entra stabilmente nel discorso pubblico e in particolare l’attività del movimento si intensifica proprio contemporaneamente all’ammorbidirsi delle posizioni della DC nel 1977. Con l’avvicinarsi del dibattito parlamentare e il progressivo ammorbidimento della linea della Democrazia Cristiana, il Movimento intensifica il proprio impegno e avanza una propria proposta di legge su “accoglienza della vita umana e tutela sociale della maternità” nella quale era prevista «la costituzione di centri di accoglienza e difesa della vita umana», con lo scopo di rimuovere le cause sociali, psicologiche ed economiche dell’aborto.

Il 22 maggio 1978 infine viene approvata la legge 194 che soli due anni dopo si trova di fronte alla sfida di ben due referendum, uno da parte del MpV e uno da parte del Partito Radicale. Con il referendum all’orizzonte, il Movimento formula due proposte: una “massimale”, che punta all’abrogazione totale della legge sull’aborto, e una “minimale”, che consente solo l’interruzione terapeutica di gravidanza, previa decisione medica. La Corte Costituzionale esclude la prima, provocando la reazione critica della Chiesa ma trovando il consenso di molti intellettuali cattolici, che rivendicano la legittimità del dissenso interno alla dottrina. La CEI, pur ribadendo la contrarietà all’aborto, finisce per accettare un compromesso di tipo politico: meglio la proposta minimale del Movimento che la legge vigente, e meglio ancora la 194 rispetto all’alternativa radicale.

Dopo la sconfitta al referendum del 1981, il Movimento per la Vita rivede la propria strategia. Comprende che l’opposizione assoluta non paga in una società ormai favorevole alla legge e decide di operare all’interno delle possibilità offerte dalla normativa, tra cui l’art.2, che permette a consultori e ospedali di avvalersi della possibilità di collaborare con organizzazioni che si occupano di “aiuto alla maternità”, puntando pertanto sull’azione sociale dei Centri di aiuto alla vita, non a caso in forte espansione proprio in quegli anni. A metà degli anni Novanta, Carlo Casini e il Movimento rilanciano un dialogo più proficuo con la politica chiedendo al governo un impegno concreto a favore del diritto alla vita e della famiglia, sulla scia dell’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, che aveva condannato l’aborto come negazione del diritto fondamentale alla vita e chiamato per un maggiore impegno e attivismo cristiano sul tema.

Dal Nuovo Millennio: cosa cambia

Gli anni Duemila segnano una svolta nella retorica di coloro che ormai sono chiamati pro-life, sempre più integrata nei discorsi politici globali. Un episodio emblematico arriva dagli Stati Uniti: il 22 gennaio 2002, pochi mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il presidente George W. Bush proclama la “Giornata nazionale della santità della vita”, ribadendo un legame sempre più esplicito tra sicurezza, identità nazionale e difesa della vita sin dal concepimento. In quegli stessi anni, anche in Italia il fronte anti-abortista si riorganizza, dando vita a una galassia di movimenti che evolve rispetto al passato: accanto al Movimento per la Vita – che nel frattempo conta oltre 600 sedi e circa 20mila iscritti – emergono nuove sigle e alleanze trasversali, capaci di unire gesuiti, membri di Comunione e Liberazione e dell’Opus Dei, religiosi, politici di partiti di centrodestra e centrosinistra, fino a formazioni neofasciste come Forza Nuova.

Il focus non è più solo la legge 194, ma si estende alla bioetica e alla difesa dell’embrione, soprattutto in relazione alla fecondazione assistita. Cambia anche il linguaggio: termini come “genocidio” o “crimine contro l’umanità” entrano nel lessico pro-life, mentre la condanna dell’aborto si appoggia a presunte basi “scientifiche”, come il riferimento alla sofferenza fetale o alle tecnologie di imaging prenatale.

Questo nuovo attivismo si manifesta in modo visibile al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona nel 2019, un evento che riunisce esponenti e finanziatori di un fronte internazionale sempre più coordinato. Tra gli sponsor figurano Toni Brandi, fondatore di ProVita (nata nel 2012), il gruppo spagnolo ultraconservatore CitizenGo e personalità di spicco della destra religiosa americana. Tra questi Brian Brown, presidente dell’Howard Center for Family, Religion and Society e vicino a Donald Trump, ma anche Allan Carlson, già membro dell’amministrazione Reagan. Il caso Verona conferma la piena transnazionalizzazione del discorso antiabortista: un’alleanza globale capace di connettere movimenti locali, ideologie religiose e attori politici di varia provenienza sotto una comune battaglia “in difesa della vita”.

Rinnovato dal nuovo clima internazionale delineato dalla sentenza Dobbs contro Jackson – una vera e propria vittoria antiabortista – che ha eliminato il diritto all’aborto riconosciuto a livello federale dal 1973, anche in Italia il nuovo governo Meloni ha riconosciuto una serie di ulteriori “privilegi” ai gruppi pro-life.

Il 23 aprile scorso il Senato ha approvato un emendamento al Decreto legge 19/2024. Questo emendamento consente di finanziare, attraverso i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), le associazioni antiabortiste affinché operino all’interno dei consultori. Le Regioni potranno infatti «avvalersi della collaborazione di soggetti del terzo settore con comprovata esperienza nel sostegno alla maternità» per organizzare i servizi consultoriali. In pratica, ciò apre le porte ai gruppi contrari all’aborto. Non è una novità assoluta, ma ora questa possibilità gode di un appoggio politico ufficiale, sancito per iscritto.

La presenza di associazioni antiabortiste nei consultori, dunque, non contrasta formalmente con i frequenti richiami di Giorgia Meloni al rispetto della legge 194, che in Italia disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza e che da tempo è oggetto di critiche da parte del movimento transfemminista. L’articolo 2 della legge stabilisce infatti che «i consultori, sulla base di specifici regolamenti o convenzioni, possono avvalersi della collaborazione volontaria di formazioni sociali di base e associazioni di volontariato idonee, anche per il sostegno alla maternità difficile dopo il parto». È in base a questo articolo che, nel tempo, i gruppi antiabortisti hanno potuto trovare spazio nei consultori, spesso sotto diverse denominazioni. Oggi, però, il sostegno governativo è palese: cambiano i finanziamenti e soprattutto chi decide quali associazioni potranno operare nei consultori — non più l’équipe multidisciplinare interna, ma direttamente le Regioni.

Di conseguenza, questi spazi dedicati alla salute subiranno una decisione imposta dall’alto. È prevedibile, inoltre, che aumenteranno le disparità territoriali, con differenze significative nell’accesso e nella qualità dei servizi offerti da una Regione all’altra, a seconda degli orientamenti politici locali.

Un presente/futuro inquietante

Negli ultimi due anni, il fronte anti-abortista italiano ha trovato nuovo slancio, favorito da un clima politico nazionale e internazionale che ne legittima narrazioni e iniziative. Alcune proposte legislative e prese di posizione istituzionali mostrano una strategia sottile ma efficace: dalla proposta di attribuire personalità giuridica al feto, al riconoscimento del “doppio omicidio” nei casi di femminicidio di donne incinte, fino alla recente proposta di adozione degli embrioni avanzata dalla ministra Eugenia Roccella. Questi interventi, pur presentati come misure di tutela, implicano tutti una ridefinizione dello statuto giuridico dell’embrione o del feto, con il rischio concreto di minare trasversalmente il diritto all’aborto. È proprio questo il punto: nessuna di queste iniziative tocca formalmente la legge 194, coerentemente con quanto dichiarato più volte anche dal governo in carica. Eppure, agendo ai margini del dispositivo legislativo, queste proposte finiscono per indebolirne l’efficacia e metterne in discussione i presupposti.

D’altra parte, è la 194 stessa – con il suo impianto compromissorio, i margini interpretativi e l’ambiguità tra diritto e tutela – ad aver aperto spazi di ambivalenza che oggi vengono sfruttati per colpire l’autodeterminazione senza abrogare nulla. In questo scenario, il futuro che si delinea non è quello di un attacco frontale, ma di un’erosione sistematica e silenziosa, in cui il diritto all’aborto resta formalmente intatto ma progressivamente svuotato di senso e di applicabilità.

Questa strategia non è isolata: anche a livello internazionale si assiste a una simile dinamica di riarticolazione normativa e culturale. Negli Stati Uniti, dopo la sentenza Dobbs contro Jackson molti Stati hanno introdotto divieti totali o restrizioni severe sull’aborto. Tuttavia, anche lì, accanto alla repressione diretta, si moltiplicano le misure indirette: criminalizzazione delle donne e dei medici, restrizioni all’uso della pillola abortiva, sorveglianza digitale. In entrambi i contesti, si delinea un presente/futuro inquietante in cui l’aborto resta formalmente possibile – negli Stati Uniti non in tutti gli Stati – ma sempre più difficile da praticare. Si tratta di un’offensiva che unisce nazioni diverse in una comune strategia di controllo delle capacità riproduttive, agendo non tanto con divieti assoluti ma con un lento e meticoloso svuotamento del diritto.

La risposta è e sarà sempre la stessa: la risposta è dal basso!

In un contesto in cui il diritto all’aborto viene eroso con strumenti normativi indiretti, stretto tra proposte legislative insidiose e narrazioni paternalistiche, la risposta più radicale e necessaria continua a venire dal basso. È da qui che nasce Facciamo da noi – un festival sull’aborto, che si terrà il 9, 10 e 11 maggio a Pisa negli spazi di Exploit e della Casa della donna, organizzato dalla nostra collettiva Obiezione Respinta (OBRES). Siamo un gruppo nato dal basso e da un’esperienza concreta di mutualismo – la mappatura degli obiettori e l’accompagnamento all’IVG – che nel corso degli anni è cresciuto, così come il lavoro per la costruzione di nuove pratiche per garantire un aborto libero, sicuro, gratuito, trasformandosi in un vero laboratorio politico transfemminista, capace di creare reti, pratiche e immaginari oltre l’emergenza.

In particolare, il 10 maggio alle ore 18, la tavola rotonda ospitata a Exploit vedrà dialogare alcune tra le realtà più attive nella lotta internazionale per un aborto libero, sicuro e gratuito: Shout Your Abortion dagli Stati Uniti, Socorristas en Red dall’Argentina, Le Planning Familial dalla Francia e l’Ad’iyah Collective dal Regno Unito. Un momento di scambio fondamentale per riconoscere che l’attacco ai corpi riproduttivi è globale, ma globale può e deve essere anche la risposta. Dall’Argentina agli USA, dalla Francia all’Italia, l’aborto non è solo un diritto: è una pratica politica che afferma autonomia, crea alleanze e immagina mondi radicalmente diversi. In un presente segnato da regressioni istituzionali, incontrarsi, raccontarsi e organizzarsi rimane l’unico antidoto possibile. Perché lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo: lo facciamo da noi!

Obiezione Respinta

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“Il Brozzi”. In ricordo di Giovanni “Gianni” Bernocchi

Con dolore comunichiamo la scomparsa del compagno Gianni Bernocchi “il Brozzi”, grande sostenitore di Umanità Nova, di cui ha assicurato per anni la diffusione in tutta Firenze.

 

Gianni di Brozzi ci ha lasciati

Apprendiamo con dolore la morte di Gianni Bernocchi – conosciuto da tutti come “Gianni di Brozzi”.

Negli anni ’70, a Firenze, aveva fatto parte del gruppo “Durruti” ed in seguito del gruppo “Autogestione”.

A partire dagli anni ’80 aveva diffuso con costanza tutta la stampa anarchica.

Dopo la morte dei suoi genitori aveva conosciuto mille difficoltà e si era ritrovato ospite di uno stabilimento per anziani.

I compagni che lo hanno conosciuto lo ricordano con affetto e simpatia.

Gianni Carrozza

 

Di seguito quanto scritto da alcunx compagnx fiorentinx.

 

Le parole per definire il percorso di Gianni nell’anarchia e il dispiacere per il fatto che non c’è più riempirebbero un numero intero.

Gianni era nato il 16 gennaio 1952 da Misora e Renzo, due partigiani comunisti, nel quartiere fiorentino di Brozzi – all’epoca un borgo in mezzo a campi e strade sterrate – da cui il soprannome con cui era conosciutissimo.

Si appassiona presto all’idea anarchica e lo incontriamo nei primissimi anni ottanta come uno dei più instancabili animatori della sede del M.A.F. (Movimento Anarchico Fiorentino) in vicolo del Panìco 2. E da sempre e finché ha potuto ha macinato chilometri per partecipare e organizzare iniziative in sede o fuori, per diffondere la stampa.

Gianni, ineffabile, lo potevi trovare di notte a pennellare “ANARCHIA” con lettere alte 3 metri sulle sponde dell’Arno o ad attaccare manifesti nei luoghi più disparati o a tenere aperta la sede anche con la neve suonando i dischi anarchici a tutto volume fino anche, senza parlare una parola di inglese, arrivare a una manifestazione antinucleare nel mezzo dell’Irlanda.

Il suo fuoco sacro era la stampa e, tra la produzione anarchica tutta, aveva un amore viscerale per Umanità Nova, per “il giornale”. Nei cortei, nelle feste, nelle sedi, nelle librerie o in lontane edicole, in tutti i centri sociali occupati, Gianni e il giornale sono stati per decenni un binomio inscindibile (Grazie!).

Gianni era dotato di una tenacia e (spesso) di una ingenuità disarmanti nel fare propaganda o nel tentare di coinvolgerti nelle attività, e se per qualcuno sarà stato anche facile annoverare la sua Anarchia in un pensiero “non al denaro non all’amore né al cielo”, era davvero difficile non volergli bene: e dopo che era andato in pensione aveva ancora più tempo per tempestarti di telefonate…

Negli ultimi anni era solito passare le estati a Piegaro, paese della campagna perugina, in una casetta ereditata dai genitori. Là aveva investito tutte le sue risorse e risparmi per dare vita, prima in un locale in affitto poi in uno acquistato, all’ Archivio anarchico di Piegaro (con questo nome esiste una pagina FB alla quale potete inviare foto o ricordi). Qui aveva raccolto libri, riviste, ritratti, busti in ceramica di Bakunin, coinvolto persone del posto. Una Storia tutta sua della quale andava orgoglioso e dove anche sapeva essere caoticamente ospitale e generoso.

Gianni conviveva da sempre con patologie assai impegnative. Nel settembre del 2022 lo coglie un grave malore in casa a Brozzi, viene ricoverato d’urgenza e di seguito trasferito in una RSA. Da qui ha continuato a tenersi informato del movimento e del giornale fino a che ha potuto usare il telefono. Ci ha lasciato in una notte tra quel 25 aprile e quel Primo Maggio che chissà quante volte abbiamo passato insieme.

Ciao, Gianni.

Consuelo, Maurizio e Francesca

 

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La trappola del referendum. L’astuta mossa della burocrazia sindacale

CGIL e UIL hanno raccolto le firme necessarie per cinque referendum, e il governo ha fissato le date dell’8 e del 9 giugno per le votazioni.

Se vincerà il “sì” alcune norme vessatorie riguardo ai licenziamenti e al lavoro precario verranno abolite, la responsabilità sull’applicazione della normativa sulla sicurezza si estenderà all’azienda committente, in caso di appalti, e i cittadini stranieri potranno chiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni e non dopo 10.

Se vincerà il “sì”. E questo è l’aspetto più pericoloso della questione.

Karl Marx scrisse il capitolo sulla giornata lavorativa de “Il Capitale” per dimostrare la necessità che la classe operaia si organizzasse in partito politico e attraverso i suoi rappresentanti desse battaglia in Parlamento per imporre leggi ad essa favorevoli. Nonostante questa impostazione ideologica, nel sesto paragrafo di quel capitolo è costretto ad affermare che “queste disposizioni minuziose, che regolano con tanta uniformità militare, al suono della campana, periodi, limiti, pause del lavoro, non erano affatto prodotti di arzigogoli parlamentari: si erano sviluppate a poco a poco dalla situazione, come leggi naturali del modo moderno di produzione. La loro formulazione, il loro riconoscimento ufficiale, la loro proclamazione da parte dello Stato, erano il risultato di lunghe lotte di classe”.

Ora, non è possibile aggirare la questione: se il movimento operaio avesse la forza di imporre questi diritti, costringendo le assemblee rappresentative a ratificarli con delle leggi, non avrebbe bisogno del referendum. Viceversa, se il movimento operaio non ha la forza di imporre i propri diritti con la forza della lotta di classe, come è possibile che questi diritti vengano riconosciuti in una consultazione elettorale dove a votare, oltre a capitalisti e operai, ci sono bottegai e preti, militari e speculatori?

Si dirà “ma se vincono i “no”, potremo sfruttare l’organizzazione creata attorno ai referendum per dare battaglia ai capitalisti”. Certamente, solo che in caso di vittoria del “no”, il movimento operaio non si troverebbe a combattere solo contro l’interesse dei capitalisti, ma, come direbbe l’ineffabile presidente del consiglio, contro la “volontà della nazione”.

E se vinceranno i “sì” dovremo comunque lottare: i più anziani si ricordano le lotte non sempre vittoriose (e non sempre appoggiate dalla trinità sindacale) per il reintegro dei licenziati, nonostante gli articoli 18 e le sentenze dei tribunali. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda le norme sul lavoro precario. Del resto, basta pensare alle vicende del referendum sull’acqua pubblica, di pochi anni fa, per rendersi conto dell’importanza che le istituzioni danno alla volontà popolare, quando va contro gli interessi dei privilegiati. E il referendum sul nucleare? Il referendum sul nucleare fu preceduto da mesi di blocchi e occupazioni, con un movimento che diveniva sempre più di massa. Il referendum fu un escamotage del governo di allora per non arrendersi apertamente davanti alla piazza, ma in realtà fu solo una resa del governo. Di fronte alla mobilitazione popolare minacciosa, il governo cede o reprime; quella volta non poteva reprimere un movimento tanto forte e cedette.

Il referendum sulla cittadinanza è in pratica un referendum sulla lunghezza della corda che tiene la carota. Destra e sinistra condividono l’idea paternalista che il “buon selvaggio” deve dimostrare di essere degno di ricevere la cittadinanza italiana, solo che gli uni pensano che siano necessari dieci anni, gli altri pensano che ne bastino cinque. La soluzione a una gestione burocratica che rende illegale la residenza in Italia fondandosi su dei cavilli sarebbe l’eliminazione pura e semplice dei visti di soggiorno per tutte le persone in cammino, e l’equiparazione di ogni essere umano al “cittadino”, ma è una misura troppo semplice e rivoluzionaria persino per i parlamentari sinistri.

Perché allora CGIL e UIL si sono impegnate in una battaglia tanto incerta e dall’esito poco promettente? La ragione principale sta nel fatto che anche i sindacati concertativi vedono nell’astensionismo il principale nemico.

La platea dell’astensione è composta principalmente dalle classi sfruttate e dai ceti popolari, e l’astensione è il primo partito in questi stessi settori sociali. Questo è un problema per la sinistra e per i sindacati di Stato, perché la disaffezione al voto toglie legittimità alle istituzioni. Ricordiamoci che CGIL, CISL e UIL non traggono legittimità, come i sindacati prefascisti, dalla libera associazione delle leghe dei lavoratori, ma dal ruolo di liquidatori e prosecutori dei sindacati fascisti, assegnato dal governo di allora. Dal 1943 ad oggi la burocrazia sindacale ha rafforzato i rapporti con l’apparato statale, in campo previdenziale e fiscale; una perdita di legittimità di questo apparato si ripercuoterebbe su quella burocrazia.

Quello che conta nel referendum non è la vittoria del “sì” o del “no”, ma riuscire a coinvolgere nel percorso elettorale le minoranze più attive, in modo da fidelizzarle in vista delle prossime elezioni. In questo senso, per i promotori del referendum, la partecipazione è un elemento decisivo. Non tanto per il raggiungimento del quorum, quanto per la formazione di una nuova leva di attivisti elettorali. Questa mossa può dare alla burocrazia sindacale carte da giocare nel confronto con le liste elettorali di riferimento.

La questione referendum non può essere analizzata senza tener conto del ruolo della burocrazia sindacale, che ne è la vera protagonista e la sola beneficiaria, in ogni caso, potendo gettare nella trattativa sulla composizione del futuro campo largo il peso degli attivisti reclutati per la campagna referendaria. In questo senso la legge sul salario minimo è un importante momento di passaggio dal sostegno al referendum al sostegno alle liste che mettono la legge nel proprio programma.

La burocrazia sindacale ha l’interesse di perpetuarsi come ceto e ovviamente ampliare i privilegi di cui gode. L’autorganizzazione del movimento operaio è il principale nemico della burocrazia, perché nega il suo ruolo di mediazione.

La partecipazione ai referendum, la partecipazione alle iniziative a favore dei referendum sono quindi delle trappole, sia per le minoranze radicali sia per la classe nel suo complesso.

Tiziano Antonelli

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Senza lotta non si va da nessuna parte

Il referendum è sicuramente uno strumento collocato all’interno di un percorso istituzionale e, tra i vari limiti, ha quello di essere solo abrogativo, permettendo esclusivamente di negare una legge esistente o parte di essa per modificarne il senso. Ma comunque esiste una differenza importante rispetto alle altre procedure dell’istituto elettorale: non si eleggono rappresentanti ai quali delegare il potere di legiferare e governare, ma si esprime il proprio parere su un problema specifico, pur nei limiti evidenziati. Questo aspetto, non secondario, è motivo di dibattito e spesso di divergenze all’interno del movimento libertario e anarchico, tra chi rifiuta sempre di partecipare, in quanto strumento proprio del percorso istituzionale, e chi, per le caratteristiche del referendum di esprimersi direttamente su un problema, decide di volta in volta se sia opportuno partecipare.

Vanno aggiunte altre considerazioni.

A volte gli esiti dei referendum vinti vengono scarsamente rispettati. A volte i referendum vengono utilizzati solo a scopo di propaganda sapendo già che non raggiungeranno il quorum. Oppure vengono utilizzati come sostituzione della stessa lotta, risultando fuorvianti in quanto si chiede di pronunciarsi ad una opinione pubblica eterogenea su questioni che riguardano ad esempio specifiche situazioni di lavoro. Come conseguenza di ciò l’eventuale esito negativo del voto referendario può affossare ancora di più una rivendicazione di diritti negati soprattutto in ambito lavorativo. Un caso negativo che vogliamo ricordare fu la bocciatura del referendum promossa dal PCI di Berlinguer, che si opponeva alla decisione del governo Craxi, di ridurre la copertura della scala mobile. Come conseguenza Cgil, Cisl, Uil dopo non molto tempo andarono a sottoscrivere l’accordo per l’abolizione dell’intero istituto della scala mobile, decretando così che il salario non deve aumentare in automatico ma va contrattato.

Sono state sottoscritte promesse fumose mai mantenute. Abbiamo visto spesso come è andata a finire.

Un referendum vinto di cui invece abbiamo giovato è stato quello dell’uscita dal nucleare, ma in quel caso oltre al voto vi era stato il sostegno di una forte mobilitazione contro le centrali nucleari, diffusasi anche in conseguenza di incidenti nucleari che si erano verificati e di una crescita di consapevolezza diffusa sui rischi del nucleare. Oggi si fa di tutto, da parte dei governi, per ripristinare il nucleare civile con la favoletta che attualmente sarebbe sicuro, anche se non è ancora stato risolto il problema della sistemazione delle scorie nucleari di cui nessuno si vuol fare carico.

Ma veniamo ai referendum previsti nelle giornate dell’8 e 9 giugno. In totale sono 5 quesiti, di cui i primi 4 proposti dalla Cgil e il quinto da +Europa, a cui si sono aggiunti Radicali, Rifondazione, PSI.
Il primo quesito (Licenziamenti e contratto a tutela crescenti) riguarda la cancellazione di parte del Jobs Act, la riforma del diritto del lavoro introdotta dal governo Renzi, con la definitiva cancellazione dell’art. 18, e con una disciplina che consente all’azienda una detassazione per le nuove assunzioni, mentre toglie ai lavoratori il diritto al reintegro automatico in caso di licenziamento illegittimo, prevedendo solo un percorso definito di “tutele crescenti”, che vuol dire un risarcimento economico di 2 mensilità ogni anno, da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità. Gli unici casi di reintegro ammessi sono quelli relativi ai licenziamenti disciplinari non convalidati dal giudice o quelli per motivi discriminatori (sesso, religione, opinioni politiche). Ma basta licenziare badando ad escludere tali motivazioni per escludere automaticamente anche la possibilità di reintegro. Se in questo referendum vince il Sì verrebbero annullate le norme attuali e si tornerebbe alla situazione precedente al 2015, con maggiori possibilità di reintegro. Diciamo maggiori e non piene possibilità, in quanto già la legge Fornero aveva profondamente ridotto l’efficienza dell’art. 18 introducendo il licenziamento per motivi economici, come nel caso di ristrutturazioni o taglio dei rami di azienda, casi in cui è difficile dimostrare il contrario da un punto di vista legislativo. E tutto ciò era stato fatto passare con la complicità da parte di Cgil, Cisl, Uil.
Il secondo quesito (Indennità per il licenziamento nelle piccole imprese) riguarda le indennità previste per i lavoratori licenziati nelle imprese con meno di 15 dipendenti. La legge attuale prevede l’indennità, in base agli anni lavorati, da un minimo di 2 ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione. Se vince il Sì viene annullato il limite previsto ed è il giudice che stabilisce le mensilità di indennizzo caso per caso, nell’ipotesi che il risarcimento sia superiore a quello attuale. Va precisato che comunque sotto i 15 dipendenti i lavoratori non hanno le tutele previste dallo Statuto dei Lavoratori.

Il terzo quesito (Contratti a termine) interviene sulla normativa dei contratti a termine. Attualmente si possono stipulare contratti a termine fino a 12 mesi senza obbligo di giustificazione. Il referendum vuole ripristinare le causali per i contratti a termine da parte dell’azienda chiamata a giustificarne le motivazioni tecniche, organizzative o produttive, ponendo un vincolo che, se non dimostrato, in caso di ricorso al giudice obbligherebbe a procedere all’assunzione a tempo indeterminato. È da rilevare che sull’abuso che le aziende fanno nell’utilizzo dei contratti a termine, come forma di precarizzazione del lavoro, occorrerebbero norme più stringenti nel definirne i tempi e il conseguente obbligo di assunzione a tempo indeterminato.

Il quarto quesito (Responsabilità solidale negli appalti) rivendica la responsabilità anche dell’azienda committente sugli infortuni nel lavoro in ambito di appalti e sub-appalti dove, come sappiamo bene, questi accadono maggiormente. L’azienda committente sarebbe quindi chiamata ad una maggior vigilanza circa le condizioni di lavoro e il rispetto delle norme infortunistiche presso l’appalto convenzionato. Ma il punto vero è proprio la natura stessa dell’appalto, un sistema largamente utilizzato nell’esternalizzazione di parti del ciclo produttivo, con regole che riducono di fatto le tutele e i diritti dei dipendenti. Per prima cosa non dovrebbero essere consentite le esternalizzazioni stesse e comunque non dovrebbero basarsi su gare di appalti che scadono e che vengono rinnovate sulla sola base del minor costo offerto al committente. Ciò mette i lavoratori in condizioni di precarietà continua, e i bassi costi con cui si vincono le gare si ripercuotono nel peggioramento delle condizioni subite dai dipendenti. Dovrebbero essere vincolanti le condizioni contrattuali di lavoro e il rispetto dei diritti acquisiti, ma non è così, e di tutto ciò sono responsabili Cgil, Cisl, Uil sottomessi alla logica del profitto padronale.

Il quinto quesito (Cittadinanza italiana per stranieri) vuole ridurre il tempo necessario per ottenere il diritto a richiedere la cittadinanza italiana da parte di immigrati extracomunitari. Attualmente è previsto un periodo di 10 anni di residenza continuativa in Italia; il quesito propone di ridurre a 5 anni il periodo minimo per la richiesta della cittadinanza, con beneficio per la persona stessa e per i figli.

Proviamo a tirare le fila.

Sicuramente i referendum proposti, se dovessero vincere, malgrado tutto, renderebbero meno peggiori le condizioni dei soggetti interessati. Alla obiezione sulla difficoltà di raggiungere il quorum viene risposto che se c’è comunque un orientamento favorevole questo faciliterebbe il percorso per raggiungere gli obbiettivi.

Ma vanno fatte anche alcune considerazioni. Innanzitutto se si chiude la stalla quando i buoi sono usciti ci sono delle responsabilità oggettive e sono di chi ha determinato questa situazione. La realtà vera è che senza una lotta seria, concreta, radicale non si va da nessuna parte.

Inoltre va ribadito che la logica referendaria è fuorviante, utile solo a fini propagandistici, perché sottopone dei quesiti che riguardano specifiche condizioni lavorative alla scelta di un’opinione pubblica eterogenea con il rischio di ricadute negative. Infine, pur non essendo quello del percorso referendario il nostro terreno, la cosa ci vede comunque coinvolti. Nel bene o nel male ne usciranno degli orientamenti che ci riguardano tutti. Ciascuno ne tragga le proprie conseguenze, anche confrontandosi all’interno del proprio gruppo, dell’associazione di cui si fa parte, della propria sezione sindacale, al fine di arrivare ad orientamenti di maggior condivisione.

Enrico Moroni

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Bilancio n. 14/2025

ENTRATE

PAGAMENTO COPIE
PADOVA A.Gilari €1.465,50; CARRARA Gruppo Germinal e FAI Reggiana: diffusione al corteo del I° maggio €270,00; BOLOGNA Circolo Berneri €25,00
Totale €1.760,50

ABBONAMENTI
PERUGIA A.Tosi (pdf) €25,00; PIADENA F.Feroldi (pdf) €25,00; ALTAGNANA L.Lazzoni; (cartaceo) €55,00; VOGHERA D.Ferro (cartaceo+gadget) €65,00; SELVAZZANO DENTRO D.DeMartini (cartaceo) €55,00; BOLZANO Biblioteca C.Battisti (cartaceo) €55,00; TAVERNERIO A.Beretta (cartaceo) €55,00; BOLOGNA E.Bonfiglioli (pdf) €25,00
Totale €360,00

ABBONAMENTI SOSTENITORI
MEDESANO L.Giulivi €80,00
Totale €80,00

SOTTOSCRIZIONI
ALTAGNANA L.Lazzoni (cartaceo) €5,00; MEDESANO L.Giulivi€20,00; TAVERNERIO A.Beretta €10,00; BOLOGNA E.Bonfiglioli €50,00
Totale 85,00 €

TOTALE ENTRATE €2.285,50

USCITE
Stampa n° 13 -€611,00;

Spedizione n° 13 -€371,53;

Fattura fedex
marzo 2025 -€675,22;

Spese tecniche maggio 2025 -€21,00

TOTALE USCITE -€1.678,75

saldo n. 14 €606,75
saldo precedente €16.915,78
SALDO FINALE €17.522,53

IN CASSA AL 02/05/2025 €19.176,37
Da Pagare
Stampa n° 14 -€611,00; Spedizione n° 14 -€372,10

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Decreti anti-cannabis. Continua la guerra eterna dei fascisti contro l’erba proibita

La filosofia del ‘muoviti velocemente e rompi le cose’ che ispira il nuovo capitalismo digitale della Silicon Valley – dagli anni Ottanta con i computer user friendly della Apple costruiti in cantina, fino ad arrivare allo sviluppo a catena dell’Intelligenza Artificiale di oggi – è sicuramente una delle chiavi per comprendere le azioni della nuova amministrazione Trump, che non casualmente ha inaugurato la sua seconda presidenza circondato dai nuovi oligarchi digitali che grazie ad esenzioni fiscali e commesse governative sono diventati gli uomini più ricchi del mondo. Incurante degli ordini dei tribunali federali e delle disposizioni della stessa Corte Suprema (composta peraltro da sei giudici repubblicani su nove), Trump continua a deportare immigranti (comprese decine di bambini nati negli Usa e cittadini statunitensi), chiude agenzie federali istituite dal Congresso, taglia i fondi a scuole e università, trasforma istituti scientifici e culturali in megafoni di regime, in attesa dello scontro con gli Stati che probabilmente arriverà presto e che trasformerà per sempre gli Stati Uniti (dove comunque, mentre il consenso del gangster in chief cala a picco, le manifestazioni contro le sue politiche nell’ultimo mese hanno radunato milioni di persone, con numeri che salgono di settimana in settimana).

La filosofia del ‘muoviti velocemente e rompi le cose’ ha ispirato evidentemente anche Giorgia Meloni quando all’inizio d’aprile ha deciso di trasformare il disegno di legge 1660, meglio noto come Pacchetto Sicurezza, ormai giunto quasi al termine del suo iter parlamentare, in un decreto legge. L’iniziale proposta di legge, approvata dalla Camera a tempo di record all’inizio dell’autunno, grazie alla crescita delle mobilitazioni contro la legge “fascistissima” e alle critiche giunte anche a livello internazionale, era da alcuni mesi in seconda lettura al Senato, in attesa di essere approvata forse all’inizio dell’estate. Le proteste avevano spinto persino Mattarella a far avere dagli uffici giuridici del Quirinale al governo dei punti critici – che la maggioranza ha dovuto correggere – in relazione alla “stretta” sulle detenute madri e al divieto ai migranti irregolari di detenere delle “sim” telefoniche. Così, però, il disegno di legge è diventato decreto e le sue norme, che riguardano diversi ambiti (dal carcere alle manifestazioni, fino alla cannabis light e ai servizi segreti), sono già entrate in vigore, mentre il Parlamento ha ancora poco meno di due mesi di tempo per convertire il decreto in legge.

La fretta di “rompere le cose” potrebbe però complicare le cose al Governo Meloni. Proprio la trasformazione in decreto legge, in un appello di oltre duecento giuristi diffuso di recente, è stata definita “il primo dei gravissimi profili di incostituzionalità” del decreto, un “vero e proprio vulnus causato alla funzione legislativa delle Camere, attraverso un plateale colpo di mano senza che vi fosse alcuna straordinarietà, né alcun reale presupposto di necessità e di urgenza, come la Costituzione impone”; e già a Foggia, pochi giorni dopo l’entrata in vigore delle nuove norme, è stata la Procura della Repubblica a chiedere al Tribunale di sollevare la legittimità costituzionale nel caso di alcuni imputati chiamati a rispondere di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali nei confronti di due agenti di polizia.
Un’altra delle norme contenute nel Decreto Colpo Di Stato che rischia di far saltare i piani della Banda Meloni è quella sulla cannabis light, finita dentro per motivi che sfuggono ad ogni razionalità che non sia il furore liberticida di fascisti e leghisti. Se da un lato si può capire infatti che un governo impopolare (forte del 60% dei seggi in Parlamento solo grazie alla sciagurata legge elettorale maggioritaria che glieli ha assegnati col 43% dei voti) e buono solo a far porcherie nascondendosi col vittimismo, abbia bisogno di norme contro le manifestazioni e le proteste per difendersi dalla rabbia che certo verrà, è più difficile comprendere perché all’interno di queste norme ci sia finita la cannabis light, priva di THC, il cui commercio è regolato dalle normative europee. Tutte le organizzazioni degli agricoltori (compresa Coldiretti che è quella più vicina alla destra) avevano protestato per le norme contro la canapa che è uno dei settori in crescita dell’agricoltura nazionale. Venerdì 26 aprile, addirittura la Commissione Agricoltura della Conferenza delle Regioni (che comprende anche le 14 regioni di destra) ha approvato all’unanimità un ordine del giorno che chiede al governo di apportare pesanti modifiche (se non di eliminare del tutto) l’art. 18 che mette fuori legge coltivazione, trasformazione e vendita di infiorescenze di canapa a basso tasso di THC, colpendo “un settore, che conta 3 mila aziende e 30 mila addetti”. Pochi giorni prima, invece, la Commissione Europea aveva risposto ad una mail di un’associazione di canapai “dicendo che, dato che il governo non ha fatto la segnalazione al Tris (l’ente europeo che si occupa della “prevenzione degli ostacoli tecnici al commercio”), possiamo andare in un tribunale ordinario e chiedere che la legge venga disapplicata”. Il risultato è che, per ora, a qualche settimana dall’entrata in vigore del decreto, i cannabis shop continuano ad essere aperti, non ci sono notizie di denunce e sequestri e la cannabis light continua ad essere esposta in vendita anche dai tabaccai.

I più ottimisti pensano che la norma potrebbe in qualche modo essere ritirata sia per le difficoltà tecniche sia per rendere meno forte la mobilitazione contro il Decreto Sicurezza che sta diffondendosi in varie città e che culminerà nella manifestazione nazionale del 31 maggio.
Certo è che la furia anticannabis non ha limiti, come dimostra la vicenda del cosiddetto “Nuovo Codice Della Strada”, entrato in vigore a dicembre come decreto legge. Per legittimare “l’emergenza”, in quell’occasione il Ministro Salvini si giustificò con l’aumento delle morti per incidenti stradali tra i pedoni e tra i ciclisti. L’aumento delle morti sull’asfalto di pedoni e ciclisti è dovuto, però, al fatto che le strade urbane in questi stessi anni hanno visto l’aumento della circolazione di mezzi pesanti come i SUV e i camioncini per la consegna delle spese on line, che per il fatto di essere pesanti producono più danni alle loro vittime. Di limitazioni ai mezzi pesanti nelle strade urbane, nel “nuovo Codice” non c’è però traccia e tanto meno di norme per tutelare pedoni e ciclisti (anzi… viene, ad esempio, resa molto più difficile l’istituzione di nuove piste ciclabili). Ci sono, invece, nuove norme che colpiscono chi si trova al volante dopo aver assunto sostanze proibite, che stabiliscono che basta un test positivo (peraltro non ben specificato) per configurare una responsabilità penale, anche se non vi è stato alcun segno di alterazione psicofisica al momento del fatto. Il governo ha infatti eliminato ogni riferimento allo “stato di alterazione”, che nel vecchio impianto normativo era condizione imprescindibile per contestare la guida sotto effetto di droghe. Ora, invece, l’eventuale presenza di tracce di sostanze stupefacenti o psicotrope – anche a distanza di giorni – è sufficiente per far scattare sanzioni che possono arrivare fino a 6.000 euro di multa, un anno di arresto e due anni di sospensione della patente. Per intenderci: nel sangue il THC rimane fino a 7 giorni nei consumatori occasionali e fino a 3 settimane in quelli abituali, nella saliva fino a 72 ore con una singola assunzione e fino a 8 giorni nei consumatori abituali, nelle urine può rimanere anche 60 giorni. Pure questa decisione è stata rinviata alla Corte Costituzionale dal Tribunale di Pordenone dopo il caso di una donna risultata positiva a oppiacei per aver assunto codeina a scopo terapeutico nei giorni precedenti. I giudici hanno sospeso il giudizio e rinviato la questione alla Consulta per il fatto che eliminando il requisito dell’alterazione psicofisica, “il reato di guida sotto l’effetto di droghe si è trasformato da reato di pericolo concreto a reato di pericolo astratto” (per cui non potrebbero essere previste sanzioni così severe), in cui non è più necessaria la prova che l’assunzione abbia inciso sulla capacità di condurre il veicolo. La nuova norma voluta dal governo è stata peraltro giustificata dal fatto che i guidatori che risultavano positivi ai test, nella maggior parte dei casi non venivano sanzionati perché venivano trovati dalle successive visite mediche “non in stato di alterazione psicofisica” e quindi… in grado di guidare!

Le nuove norme anticannabis (anche per la cialtroneria tecnico-giuridica con cui son state fatte) sono l’ulteriore dimostrazione del sadismo profondo che anima fascisti e leghisti, portatori di ideologie nefaste che Erich Fromm sintetizzava nell’avidità di sofferenze umane. Oggi più che mai, per noi “è ora di organizzarsi”.

Robertino

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31 maggio La Spezia “Restiamo Umani”

Invitiamo tutti i compagni e le compagne, i coordinamenti, le assemblee antimilitariste e tutte le realtà che lottano contro tutte le guerre, contro l’industria bellica, la corsa al riarmo e alla militarizzazione della società e delle coscienze a partecipare alla manifestazione di La Spezia il 31 maggio. Come Coordinamento antimilitarista Carrara abbiamo risposto all’appello lanciato da Freedom Flottilla La Spezia e Massa Carrara a dicembre per organizzare appunto nella città ligure una manifestazione contro il genocidio in Palestina. Sono seguite svariate assemblee e da subito si sono sviluppati più argomenti che sono confluiti in una piattaforma condivisa che allargava il focus iniziale su Gaza, su tutte le guerre e sull’industria bellica. La storia della città è fortemente legata all’industria bellica e alla Marina militare. La Spezia dai 15000 abitanti del 1861 si sviluppò attorno all’Arsenale, voluto da Cavour, arrivando già nel 1930 ad un incremento demografico che portò la città a 115000 abitanti. Nel dopoguerra l’Arsenale spezzino contava 12000 dipendenti civili, nel 2023 ne contava meno di 400. Nel 2022 il Genio della Marina ha avviato un progetto per l’adeguamento della base agli standard Nato, progetto che rientra nel programma Basi blu, investimenti che riguardano esclusivamente infrastrutture portuali militari. Nel 2003 fu avviata un’indagine su una presunta discarica di sostanze tossiche nell’area dell’Arsenale, ma il procedimento si concluse senza riscontrare responsabilità penali. Rischi sono legati al transito e all’attracco di sottomarini nucleari. Un piano di emergenza in caso di incidente non è mai stato comunicato alle autorità civili ed alla popolazione. OtoMelara, ultra centenaria industria spezzina di sistemi di difesa navale e terrestre costola del gruppo Leonardo, ha ampliato la produzione con due nuovi progetti: un carro armato e un blindato, sviluppato assieme al 50 per cento con Rheinmetall, colosso tedesco. A La Spezia si producono cannoni navali per le marine di mezzo mondo, siluri e veicoli blindati.

A Luni sorgerà un grande centro di formazione ed addestramento piloti delle forze armate italiane e straniere, la realizzazione sarà affidata ad un’azienda leader del complesso militare industriale israeliana. Comsubin gruppo operativo incursori forze speciali della Marina militare che fra gruppo operativo, gruppo scuole, gruppo navale speciale e quartiere generale, hanno tolto l’accesso al mare che rimaneva agli spezzini. È per tutto questo che essere tanti e tante in piazza il 31 Maggio a La Spezia è particolarmente significativo e importante.

Coordinamento antimilitarista Carrara

nell’immagine: performance antimilitarista, Trieste – marzo 2018

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May Day USA

Centinaia di migliaia di persone in tutti gli Stati Uniti si sono radunate, si sono impegnate nella disobbedienza civile o hanno scioperato il 1° maggio, Giornata Internazionale dei Lavoratori, unendosi a centinaia di milioni in tutto il mondo. Complessivamente, le azioni organizzate dalla coalizione May Day Strong sono state più di 1.300 in tutti i 50 stati in oltre 1.000 città e paesi, fino a sabato 3 maggio. Il grido unificante era “I lavoratori prima dei miliardari”.

A Filadelfia, 5.000 persone si sono radunate al municipio e in seguito si sono impegnate nella disobbedienza civile bloccando l’ingresso dell’autostrada principale, il che ha portato all’arresto dei membri del UNITE HERE Local 274 dei lavoratori degli hotel, della Teamsters Local 623 e di altri membri del sindacato e solidali della comunità.

In California, quasi 60.000 lavoratori del sistema universitario californiano hanno scioperato.

Centinaia di infermieri hanno scioperato in Louisiana per un nuovo contratto.

Un migliaio di membri della United Auto Workers hanno scioperato alla Lockheed Martin, il più grande appaltatore della difesa del paese, in Florida e Colorado.

In Tennessee, centinaia di persone si sono radunate a sostegno dei lavoratori della Volkswagen che lottano per un primo contratto.

A Chicago, tra le 7.000 e le 10.000 persone sono scese in piazza per denunciare le mosse dell’amministrazione Trump, dagli attacchi ai servizi sociali e ai programmi federali alle detenzioni illegali di immigrati e attivisti palestinesi ai licenziamenti di dipendenti federali. Hanno chiesto la fine del finanziamento del genocidio israeliano e un finanziamento maggiore per le scuole pubbliche e per la giustizia ambientale.

A St. Louis, nel Missouri, la nuova organizzazione anti-Trump 50501 ha tenuto una manifestazione del Primo Maggio per protestare contro l’amministrazione al Gateway Arch National Park.

A Iowa City, 600 lavoratori immigrati che indossavano uniformi da cantiere, preti cattolici, sostenitori della comunità e funzionari eletti locali hanno marciato sotto la bandiera di “Aquí Estamos [Eccoci qui]: marcia per la dignità e la giustizia degli immigrati” e hanno proceduto per le strade della città fino a una manifestazione pubblica. I partecipanti hanno chiesto di sciogliere la task force ICE 287(g) in Iowa, fermare la profilazione razziale e le deportazioni e difendere le famiglie di immigrati e i lavoratori.

Il sindacato degli insegnanti di Baltimora, la NAACP di Baltimora e la Federazione americana dei dipendenti statali, di contea e municipali si sono radunati a McKeldin Square nel centro di Baltimora. Il Maryland ospita 160.000 lavoratori federali, che rappresentano il 6% di tutti i posti di lavoro nello stato. La Springfield Education Association si è radunata nel centro di Springfield, nel Massachusetts.

New York City ha ospitato due raduni a Union Square e Foley Square. Hanno attirato folle di 6.000 persone in totale. Tra i contingenti più numerosi c’erano gruppi per i diritti degli immigrati come Workers’ Justice Project, Make the Road NY, Desis Rising Up and Moving e insegnanti sindacali, metalmeccanici, operai, pittori, infermieri, addetti alle consegne, lavoratori al dettaglio, lavoratori delle telecomunicazioni, lavoratori alberghieri e lavoratori federali.

Avis Everhard

 

nell’immagine: May day poster 2025 (particolare)

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