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El Salvador: le parole per dirlo

Storie di donne salvadoregne, dalla guerra civile alle lotte femministe, pensando alla nostre lotte di liberazione e di resistenza

Alba Marisol Galindo è una donna salvadoregna di 75 anni, una figura chiave nella storia recente di El Salvador. Partecipò attivamente alla guerriglia durante il conflitto armato degli anni Ottanta, nel 2019 è stata una delle fondatrici della Asociación de Mujeres Veteranas de la Guerra.

(Foto tratta dall’articolo apparso su Alharaca, https://www.alharaca.sv/derechos-de-las-mujeres/marisol-galindo-las-mujeres-no-solo-luchamos-en-la-guerra-tambien-construimos-la-paz/)

Le sue parole ci aiutano a ripercorrere la storia di un paese dilaniato da una guerra civile e da un periodo di pace senza pace reale e giustizia sociale.

Innanzitutto, un riferimento preciso al ruolo della nuova esperienza di fede calata nella realtà: “Quando ero adolescente, studiavo in un collegio cattolico diretto da suore; loro, poco alla volta, presero coscienza delle ingiustizie, della mancanza di opportunità e della mancata soddisfazione delle molte necessità della popolazione più povera. Questa sensibilità, combinata con l’ambiente circostante, fece sì che iniziassi un cammino di partecipazione attiva in quegli anni di fermento sociale. Così, mi incorporai nelle lotte studentesche e delle cooperative contadine, grazie anche allo studio intrapreso nel ramo del Lavoro Sociale”(1).

Per comprendere ciò che successe in El Salvador prima e durante la guerra civile, è necessario sottolineare l’intreccio tra fede e politica, a partire dalla Conferenza Episcopale di Medellín del 1968, considerata come l’inizio della cosiddetta Teologia della Liberazione in America Latina.

Un Gesù storico che porta dalla conversione religiosa alla conversione nella politica: El Salvador non sarà esente da questo movimento e nasceranno vere e proprie organizzazioni che coniugano Fede e Politica, riconoscendo il peccato nella storia quotidiana e prima di tutto nel sistema capitalista oppressore.

Poi per Alba ecco l’immergersi nel cosiddetto Frente de masa, parallelo all’azione di guerriglia vera e propria.

Mi impegnavo ad organizzare riunioni con differenti settori della società civile, formando collettivi e gruppi di studenti, contadini, sindacalisti e appartenenti alle comunità religiose, tanto cattoliche come battiste. Promuovevamo circoli di studio, in cui si rifletteva insieme sulla realtà nazionale. Realizzavamo alla luce del sole settimanali per informare e creare coscienza, completando queste attività con manifestazioni, distribuzione di volantini, scritte nelle strade e piccoli comizi. In questi ultimi, con un megafono, denunciavamo le situazioni di ingiustizia e le problematiche politiche del momento. Svolgevamo queste attività soprattutto nella capitale, ma anche in altre città, da Suchitoto a San Vicente, da Santa Ana a Aguilares”.

La capacità della guerriglia salvadoregna di resistere per dodici anni (1980-1992) non si potrebbe comprendere senza tener conto dell’appoggio popolare: la creazione nel 1985 della UNTS, Unión Nacional de Trabajadores Salvadoreños, sarà il coronamento delle lotte della società civile, che hanno attraversato i diversi settori: studenti, contadini, comunità di base, maestri, dirigenti sindacali, attivisti e attiviste del gruppi sorti in difesa dei Diritti Umani.

Un aspetto troppo spesso poco studiato è l’essere madre nella guerriglia

Quando scelsi di entrare nella guerriglia vera e propria, ero già madre di tre figli, due maschi e una femmina. Dalla fine del 1980, i miei figli furono affidati alla mia famiglia, due alla nonna e uno alla zia; la più piccola nacque nel 1979 e ho potuto tenerla con me soltanto per undici giorni. Recentemente la Colectiva feminista ha sviluppato un progetto proprio sull’esperienza delle donne madri clandestine, costrette ad abbandonare i propri figli. Il libro Maternidades Interrumpidas, edito alla fine del 2024, racconta la storia di 68 madri guerrigliere e dei loro figli, alcuni dei quali sono cresciuti credendo che le loro madri erano altre persone”.

Una esperienza di sofferenze, una ferita troppe volte individuale, senza un confronto collettivo, in una guerra di liberazione che ha coinvolto quattromila donne in armi.

Gli Accordi di Pace del 1992 non contemplavano le donne.

“Dopo la firma degli Accordi, noi donne ci trovammo di fronte alla necessità di costruire realmente la pace, perché una cosa è firmare un accordo di pace e altra cosa è costruire una società di pace. Si parla molto di quanto sia difficile per le donne guadagnare uno spazio in strutture di potere dominate dagli uomini. Anche se qualcuna di noi è riuscita ad essere dirigente e partecipare agli organismi più importanti, tutto questo si inserisce sempre in un sistema basato su un autoritarismo patriarcale”.

Già, il patriarcato. Non si può dimenticare che durante la guerra civile la piattaforma politica del movimento sociale di opposizione non includeva nemmeno un punto sui diritti delle donne, completamente trascurate. D’altra parte, era coerente con la visione dell’intera società, quella salvadoregna, profondamente machista, in cui non giungevano ancora gli echi delle lotte femministe in altre parti del mondo.

“Io ero abbastanza soddisfatta degli Accordi di Pace, però come dirigente donna anche io avevo una visione patriarcale. Quella parte di coscienza che allora ci mancava nacque dopo, con il tempo. Io non credo che il patriarcato possa sparire completamente in una volta sola; sarà invece il risultato di una lotta costante, nella quale bisogna avanzare centimetro dopo centimetro, conquistando diritti e stabilendo nuovi modelli culturali nella società. Per me, la cosa più difficile è cambiare questi modelli. Adesso capisco che durante la guerra e subito dopo c’era un grande vuoto, però penso che si trattava di una omissione dovuta al nostro non sapere”.

Fortunatamente, poco alla volta, grazie ad una  apertura politica più generale, iniziarono a nascere organizzazioni come Las Dignas, Las Mélidas e ill Movimiento Salvadoreño de Mujeres,  a cui seguiranno altre realtà più affini ai movimenti femministi contemporanei.

Ed oggi, tra le altre, esiste anche la Asociación de Veteranas de la Guerra Civil de El Salvador, di cui Alba fa parte attivamente.

“L’associazione nasce come risposta alla mancanza di rappresentatività delle veterane in spazi dominati da uomini e all’assenza di risposte da parte del Governo alle nostre necessità specifiche, come la salute, le pensioni e il riconoscimento politico del nostro ruolo durante la Guerra civile. Il fatto di aver dedicato 15/20 anni alla lotta non ci ha lasciato nelle migliori condizioni per affrontare l’ultima tappa della nostra vita, specialmente senza una sicurezza sociale adeguata. Quando ci riuniamo in queste associazioni di donne veterane, quando ci riattiviamo grazie ai dibattiti, l’organizzazione e la costruzione di nuove iniziative, continuiamo a riaffermare che tutte noi donne, un vero e proprio  contingente,  apportammo un gran contributo al nostro paese e niente può rinchiuderci o ridimensionarci. Sappiamo benissimo che il nostro ruolo non è più quello che avevamo durante la guerra, quando eravamo in prima fila, anche con le armi. Oggi, sono altre le generazioni che hanno la responsabilità di essere creative e trovare le forme per incidere per i cambiamenti necessari”.

Vero, perché in El Salvador sono state promulgate alcune leggi, teoricamente capaci di aprire il cammino finalmente verso l’uguaglianza e nuove opportunità paritarie per le donne, come ad esempio la Ley Especial Integral para una Vida Libre de Violencia para las Mujeres (LEIV) o la Ley de Igualdad, Equidad y Erradicación de la Discriminación contra las Mujeres

Ma il problema è, come dice Alba, che “queste leggi sono inscatolate”.

Ciò significa, conclude Alba, “che se le donne non si organizzano, se le nuove generazioni non scendono in piazza per esigere il rispetto dei loro diritti, queste leggi continueranno a rimanere sulla carta o correranno il rischio di essere cancellate, come già sta capitando con altre leggi che erano state promulgate a favore della società salvadoregna (vedi la legge che proibiva le miniere)”.

Bè, se guardiamo alcune delle foto scattate durante l’ultima grande manifestazione dell’8 marzo a San Salvador, possiamo pensare che anche lì, nel Pulgarcito de America (2)le ragazze, le donne, le identità diverse e gli uomini consapevoli vogliono davvero cambiare, per lo meno ci credono.(3)

di Maria Teresa Messidoro (*)

  1. Questa, come le altre frasi di Alba Galindo riportate nel mio post sono una mia libera traduzione dall’articolo Marisol Galindo: “Las mujeres no solo luchamos en la guerra, también construimos la paz”, che potete leggere qui https://www.alharaca.sv/derechos-de-las-mujeres/marisol-galindo-las-mujeres-no-solo-luchamos-en-la-guerra-tambien-construimos-la-paz/
  2. Il Pollicino d’America è il nomignolo con cui è definito El Salvador, piccolo paese latinoamericano appena grande come il Piemonte.
  3. Le foto mostrate qui sono gentile concessione di attiviste e attivisti internazionalistə che vivono attualmente in El Salvador.

La Bottega del Barbieri

5 giorni 12 ore ago