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Liste di attesa infinite, visite negate: così si nega il diritto alla salute in Italia

“È da mesi che provo a prenotare una visita senza riuscirci: non solo non hanno date disponibili per quest’anno, ma non hanno neanche ricevuto le liste d’attesa per il prossimo”. P. e sua moglie sono invalidi e soffrono di una malattia cronica. Da qualche anno, a lui è stato diagnosticato anche il diabete. “Periodicamente devo fare un controllo oculistico per monitorare lo sviluppo della malattia. Ovviamente se pagassi potrei ottenere un appuntamento in tempi brevi, ma sia io che mia moglie siamo disoccupati e non possiamo permetterci di passare al privato”. 

Quella del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) sembra una cronaca di una morte annunciata, tra sovraffollamento nei reparti, crisi dei pronto soccorso, liste di attesa infinite, mancanza di personale sanitario. A livello nazionale mancano circa 4.500 medici e 10mila infermieri. La questione si è aggravata ulteriormente dopo la pandemia da Covid-19: nel 2020 sono state annullate oltre 144 milioni di visite specialistiche, otto milioni di sedute di riabilitazione e 20 milioni di prestazioni diagnostiche. Sono saltati un milione e 300 mila ricoveri, di cui 500mila urgenti. Nel frattempo, il governo continua a non investire abbastanza sulla sanità, tanto che la nostra spesa sanitaria pubblica è inferiore di oltre 52 miliardi di euro rispetto alla media dei Paesi Ocse. 

Tutto questo ha comportato un aumento dei tempi di attesa, perfino per i pazienti con malattie rare o croniche, o anche con patologie gravi come i tumori, che quindi necessitano di cure indispensabili senza poter aspettare. Così si crea un grande spartiacque: chi può permettersi di pagare si rivolge al privato, chi non ha la disponibilità economica resta al palo. V. ha provato – senza riuscirci – a prenotare un’ecografia direttamente in un ospedale pubblico, ma non c’era neanche un posto nei tempi richiesti: “Mi hanno detto esplicitamente che a pagamento la disponibilità è immediata, altrimenti devo ricominciare la trafila: farmi fare una nuova ricetta, chiamare il numero verde, e tornare allo sportello, sperando che a quel punto si sia liberato un posto”, dice esausta. “Forse per loro è un gioco, nemmeno nei paesi del sud del mondo i pazienti vengono trattati così. Ma non si vergognano a prendere in giro le persone?”.

La presa di parola pubblica di tre giornaliste 

Nell’ultimo periodo tre giornaliste hanno preso posizione su questo tema, scegliendo di rendere pubblica la propria esperienza e raccontando così l’odissea che tutti i cittadini con patologie si trovano ad affrontare quotidianamente. A febbraio Francesca Cicculli di IrpiMedia ha scritto in un articolo pubblicato su Prismag:

Dal 2020 frequento il reparto di allergologia di un ospedale romano per la mia terapia farmacologica mensile. Ma non ho un’allergia, ho una malattia autoimmune rara. Con la pandemia, il reparto di reumatologia dove ero in cura dal 2012 ha fatto posto a un centro Covid-19. Da allora siamo ospitati da un altro reparto; intanto, il Covid-19 sembra scomparso. Si può parlare con i medici solo a giorni alterni, quando il reparto non è riservato agli allergologi. Una volta ho avuto una stomatite acuta. Inutili tutti i farmaci consigliati dal medico di base e dal dentista. Era una reazione all’immunosoppressore che assumo ogni settimana. La cura è arrivata dalla mia reumatologa dopo giorni di chiamate, e-mail e tentativi falliti di accedere al pronto soccorso con la febbre alta.

A inizio aprile, anche la reporter di guerra Francesca Mannocchi ha raccontato su Instagram il tortuoso percorso di una persona che come lei ha la sclerosi multipla, che ogni sei mesi deve fare la terapia di Ocrelizumab e deve ripetere una lunga serie di analisi e la risonanza magnetica per verificare se la malattia è ferma oppure no. “Siccome pago le tasse e vivo in un paese in cui le cure sono garantite a tutti per Costituzione – scrive Mannocchi – chiamo il Cup della mia regione per avere un appuntamento. Per giorni il messaggio pre-registrato mi dice che le linee sono intasate e dunque suggerisce di richiamare ‘in un altro momento’. Oggi, finalmente, rispondono. La prima risonanza magnetica disponibile è a luglio 2025 a Frosinone, in un'altra provincia, a 90 chilometri da casa mia. Per le due strutture dove di solito faccio le risonanze non c'è proprio disponibilità e non si sa per quanto”. Mannocchi a quel punto telefona alla clinica dove aveva già svolto altre risonanze, per chiedere di prenotare un controllo e pagarlo privatamente: il costo è di 680 euro. “C'è posto dopodomani, mi hanno risposto con la cortesia che si riserva a chi paga – racconta –. E quindi ho preso appuntamento. Perché ne ho bisogno, perché è urgente, perché ho la fortuna di potermelo permettere”. 

Il mese dopo la giornalista Leila Belhadj Mohamed ha scritto su X: “Quando Francesca Mannocchi ha raccontato il problema di prenotare una risonanza, ricordo che in molti negavano il problema. Bene: mia mamma deve fare quattro risonanze senza contrasto con urgenza a dieci giorni per iniziare la radioterapia. Primo posto disponibile: ottobre. Mia mamma ha un tumore”.

La povertà sanitaria e il peso delle disuguaglianze territoriali

Su questa nave che sembra essere sul punto di affondare, neanche chi ha patologie gravi si riesce a mettere in salvo. “Devo prenotare una risonanza magnetica, ma in ospedale mi hanno detto che non ci sono più posti disponibili per quest’anno”, racconta G., che ha scoperto di avere un melanoma sospetto. “È un abuso, l’appuntamento mi spetta di diritto. Se non riesco a fare questo esame non ho scelta, devo per forza rivolgermi al privato”. 

Non tutti i territori, poi, offrono le stesse possibilità. Ad oggi sono solo 13 le regioni che rispettano i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e che quindi garantiscono le prestazioni che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto per legge a fornire ai cittadini. Il risultato è che chi abita in una zona con servizi scadenti si sposta – quando può – dove le cure sono migliori. “Non c’era posto per una visita neurochirurgica, né con il pubblico né con il privato. Alla fine mi sono arresa e ho preso un appuntamento a pagamento fuori regione”. Dopo una delicata operazione alla schiena, L. doveva svolgere una serie di controlli. Aveva il busto e non poteva guidare: nel referto di dimissioni si parlava di un riposo di almeno 45 giorni. “Oltre ai costi del dottore, bisogna calcolare quelli della benzina e dell’autostrada. Per non parlare della fatica di viaggiare per 150 chilometri, per una visita che per legge sarebbe dovuta essere garantita”. 

Non solo: chi vive in città ha più opportunità di ricevere cure di qualità rispetto a chi vive in un piccolo paese, e l'accesso tempestivo ai servizi sanitari può essere difficile per i pazienti che abitano in comunità montane o rurali. “Io vivo in un posto dove non arriva neanche il postino”, racconta S., 49 anni, che per la sclerosi multipla è costretta ad andare a Napoli ogni mese per fare la terapia. “Sono meno di cinquanta chilometri da casa mia, ma con i mezzi pubblici ci metto quasi due ore: per la mia patologia non posso stare seduta così tanto. Un accompagnamento privato costa 120 euro ogni volta, e io questi soldi non ce li ho”. S. ha chiesto aiuto all’associazione Emergency, che offre cure gratuite all’estero e in Italia, che la accompagna gratuitamente. “Se non ci fossero stati loro, sarebbe stata una tragedia. Le persone vengono abbandonate. A partire da me”.

A essere maggiormente colpite dalla crisi della sanità pubblica sono insomma le persone più svantaggiate, che non possono permettersi di pagare visite e terapie di tasca propria, né di stipulare costose assicurazioni. Nel 2023 la spesa sanitaria direttamente a carico delle famiglie ha superato i 40 miliardi di euro, con una crescita quasi del 2% rispetto all’anno precedente – e la soddisfazione degli operatori privati che nel frattempo incassano. Il risultato è che sempre più persone rinunciano alle cure: sono state quasi 4,5 milioni nel 2023. Di queste, 2,5 milioni non si sono curate per motivi economici. Nel 2024, oltre 460mila persone hanno chiesto di ricevere farmaci o cure gratuite perché non se li potevano permettere: un aumento dell’8% rispetto all’anno precedente.

M., 48 anni, nel 2020 ha contratto il Covid-19 e da allora soffre di una patologia cronica ancora non riconosciuta: il long covid, che comporta una serie di disturbi che persistono o si presentano settimane dopo l’eliminazione del virus. Uno dei postumi invalidanti per M. è il dolore neuropatico cronico, che non le permette nemmeno di lavorare. “Dal 2021 non sono più riuscita a rientrare al lavoro in modo costante. In più la spesa sanitaria in questi anni mi ha impoverita, ho pagato oltre 25mila euro”. Dopo tre anni di battaglie, M. ha ottenuto l’invalidità del 60%. L’anno scorso ha perso anche suo marito. “Per riuscire a calmare il dolore e poter stare in piedi, dovrei spendere ogni mese circa 350 euro tra farmaci, integratori, visite specialistiche, scarpe ortopediche, ma non posso permettermelo. Tra affitto, bollette, spese sanitarie, riesco appena a mangiare grazie alla pensione di reversibilità di mio marito”.

Un sistema sanitario per pochi

C. è una donna di 30 anni, nata e cresciuta a Roma, che soffre di diverse patologie croniche: gastrite ed esofagite, duodenite e colite eosinofilia. Ha già avuto due ulcere, e oggi ha necessità di effettuare due esami in sedazione profonda con biopsie. “Ho richiesto la prenotazione delle prestazioni all’apposito numero telefonico del Cup, ma non è stata trovata alcuna disponibilità nei tempi richiesti (10 giorni - urgenza breve)”, scrive in una segnalazione inviata a Cittadinanzattiva, organizzazione che promuove l’attivismo dei cittadini e ne tutela i diritti. “L'operatore mi ha indicato che sarei stata ricontattata dalla Asl di appartenenza per verificare la disponibilità in tutto il Lazio: quando mi hanno richiamato mi hanno detto che era impossibile fare gli esami prima del mese di aprile 2026”.

Per rispondere a mancanze come queste, nel quartiere Quarticciolo di Roma esiste l’Ambulatorio Popolare Roma Est, con uno sportello salute che si occupa di dare supporto e fare orientamento socio-sanitario, e anche un ambulatorio medico dove è possibile fare la visita di medicina generale ad accesso libero. “Da molto tempo stiamo assistendo a un allungamento dei tempi di attesa”, spiega Andrea, medico volontario all’Ambulatorio. “Ci sono prestazioni che vengono erogate con un ritardo anche di un anno, dopo che insorgono nuove patologie o si acutizzano quelle già esistenti. Il problema maggiore sono gli esami strumentali, come le ecografie e le risonanze magnetiche”.

In pochi lo sanno, ma esiste una norma – il decreto legislativo 124 del 1998 – che impone alla Asl il pagamento della prestazione intra moenia, se il tempo dell’erogazione nel sistema pubblico supera il limite previsto dalla ricetta. “Sulla base di questo decreto, abbiamo aiutato molte persone a far valere i propri diritti”, spiega Andrea. “Insieme al paziente mandiamo una PEC aggregando tutte le carte necessarie, e come per magia l’Asl dopo pochi giorni risponde dicendo che si è liberato un posto”. Andrea lavora in un ospedale pubblico, e racconta che spesso nelle agende del giorno dei medici si trovano visite “incastrate” all’ultimo momento: se la prassi è che ci sia una visita ogni 15 minuti, ad esempio, qualche volta se ne trova una ogni 7 minuti. “Noi operatori sanitari siamo sempre meno e lavoriamo con una pressione sempre maggiore. Ed ecco allora che c’è il rischio di burnout”.

Le barriere burocratiche

Oltre agli ostacoli economici, esistono anche altri tipi di barriere nell’accesso alle cure: barriere linguistiche, tecnologiche, ma soprattutto legate ai documenti. Migranti, senza dimora, ma anche le seconde generazioni nate in Italia e ancora senza cittadinanza, sembrano avere un posto di serie B nella nostra sanità. Il più grande scoglio è quello della residenza: senza di essa non si può richiedere un medico di base o un pediatra, e sono precluse molte prestazioni anche essenziali.

“Da un po’ sentivo un dolore al seno, ma cercavo di non pensarci. Poi un giorno non ce l’ho fatta più e sono andata al pronto soccorso”. R., ucraina, è arrivata in Italia otto anni fa per lavorare e mandare soldi alla sua famiglia rimasta nel suo paese. Nessuno la voleva assumere regolarmente, e così ha accettato di fare la badante in nero: non avendo un contratto, non poteva ottenere il permesso di soggiorno né il codice fiscale, e così di fatto non aveva accesso al Servizio Sanitario Nazionale. A 50 anni, però, per la prima volta ha avuto bisogno di curarsi. “Mi hanno detto che era un tumore. La mia testa era nel pallone, ho pensato: e adesso?”.  In ospedale le hanno detto di rivolgersi al suo medico curante, ma lei non ne aveva mai avuto uno. R. allora si è rivolta ad Emergency, e così è riuscita a ottenere un codice Stp – che sta per Straniero Temporaneamente Presente – e ha avuto accesso alle prestazioni sanitarie essenziali. Un mese dopo, si è operata. Per i trattamenti successivi, però, sorgono nuovi problemi. “Mi volevano far pagare la chemioterapia”, racconta. “Addirittura mi hanno chiesto: ‘Ma ha pensato di tornare a casa sua?’ Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra”.  

I cosiddetti “non iscritti” al Servizio Sanitario Nazionale possono comunque usufruire dell’assistenza sanitaria attraverso alcuni codici  - il già citato Stp e il codice Eni (Europei Non Iscritti). Questi strumenti, però, permettono di ricevere solo le prestazioni essenziali. E, a volte, nemmeno quelle.

Immagine in anteprima via msdsalute.it

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