La ricorrenza del Primo Maggio, festa dei lavoratori e delle lavoratrici, permette un momento di riflessione sulla situazione nel mondo del lavoro in Italia.
Durante questi ultimi anni, il governo e vari osservatori hanno posto l’accento sulla buona performance del mercato del lavoro in Italia. Secondo le serie storiche pubblicate da ISTAT, il tasso di occupazione ha toccato il 63 per cento, mentre il tasso di disoccupazione scende al 5,9 per cento. Anche il numero di contratti a tempo determinato ha una maggior incidenza rispetto a quelli a tempo indeterminato. Questi indicatori sembrano restituire una situazione positiva, ma è necessaria cautela.
Infatti, preme sottolineare come la situazione a cui assistiamo in Italia è tutt’altro che un’eccezione: in buona parte dei paesi occidentali il mercato del lavoro è in una fase di espansione. Questo ci suggerisce due ulteriori riflessioni: come già osservato, la crescita dell’occupazione non è causata (almeno non del tutto) dalle politiche messe in atto dal governo Meloni.
Inoltre i dati sulla dinamica salariale e sulla povertà lavorativa nel nostro paese restituiscono un quadro con più ombre che luci. Questi dati suggeriscono che le problematiche strutturali che attanagliano il nostro paese sono tutt’altro che scomparse. Da decenni, infatti, il nostro paese vive una situazione critica per quel che riguarda la performance economica di lungo periodo, la crescita salariale e la sua capacità di generare ricchezza diffusa.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il lavoro in Italia: tra stipendi bassi e bassissimi
Per avere un quadro della situazione più ampio, una delle prime fonti è il rapporto sui salari pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Nel rapporto, si legge che i salari reali, cioè quelli al netto dell’inflazione, sono in drastico calo almeno dopo la crisi del 2008, facendo dell’Italia il paese fanalino di coda tra i paesi avanzati. Secondo le stime dell’ILO, si parla di un calo del 8,7 per cento. Allo stesso tempo, ampliando l’orizzonte temporale, gli stipendi nel nostro paese sono rimasti praticamente invariati rispetto agli anni ‘90. Per avere un metro di paragone, in paesi come Francia e Germania la crescita è invece stata in doppia cifra.
Come ha spiegato Pagella Politica, la questione riguarda l’andamento dei salari nel tempo rispetto a valori storici di riferimento, non tanto il loro valore assoluto attuale. Per questo sarebbe scorretto derivare, da quanto scritto sopra, che in Italia abbiamo i salari più bassi d’Europa, come fatto nel dibattito politico. Tuttavia, pur non essendo gli ultimi in Europa, i dati rilevano che la mediana delle retribuzioni lorde orarie in Italia è inferiore rispetto alla media dei paesi europei e dell’eurozona. Anche considerando i valori netti, cioè quelli in cui si tiene conto della tassazione, e quelli a parità di potere d’acquisto la situazione non cambia: l’Italia resta dietro la media e in particolare dietro a paesi come Francia e Germania.
Considerando invece le dinamiche più recenti, contraddistinte da anni di elevata inflazione, la situazione migliora solo parzialmente. È vero, come certificano le stime ILO, che i salari reali nel 2024 sono cresciuti, complice anche il rallentamento dell’inflazione. Questo aumento, pur essendo segnale positivo, deve essere visto in un contesto più ampio: i salari reali sono comunque più bassi rispetto al valore del 2015.
A pagare di più il peso di questa tendenza sono i lavoratori a basso reddito. L’inflazione infatti colpisce il consumo. Le fasce a più basso reddito dedicano una percentuale più consistente del loro reddito all’acquisto di beni. Anche qui è importante tenere presente che non si tratta di valori assoluti: una famiglia ad alto reddito può spendere di più a fare la spesa, ma questo costo, considerato al netto della propria capacità di spesa, è inferiore rispetto a una famiglia povera che spende buona parte dei propri guadagni per soddisfare i bisogni essenziali.
Un aspetto importante è anche la retribuzione fissata dai contratti collettivi nazionali. Come riporta l’ILO:
Le retribuzioni contrattuali orarie nominali calcolate su una media dei CCNL sono aumentate del 15 per cento negli ultimi 10 anni. In termini reali, le retribuzioni hanno tuttavia subito una perdita di oltre 5 punti percentuali e prodotto un calo del potere d’acquisto dei lavoratori.
In Italia infatti gli aumenti salariali derivano spesso dalla firma dei contratti collettivi nazionali. Questi coinvolgono i sindacati e le associazioni datoriali e dovrebbero, in linea teorica, garantire un livello adeguato dei salari, come avviene nei paesi nordici. In Italia però si è assistito a vari problemi. In primo luogo, appunto, c’è la perdita di potere dei maggiori sindacati (CGIL, CISL e UIL) che si riflette anche in una mobilitazione meno incisiva.
Ma si è assistito anche a una proliferazione delle tipologie contrattuali. Tra il 2012 e il 2021 il numero di contratti collettivi è aumentato dell’80 per cento, rispondendo non alla necessità di ulteriori tutele o di nuove figure professionali, quanto a meccanismi di pressione su salari e condizioni lavorative, come fa notare Fulvio Fammoni della Fondazione Di Vittorio.
Spesso, infine, i contratti collettivi richiedono tempo per le negoziazioni, tanto che una parte considerevole di questi sono scaduti e quindi ricalcano retribuzioni ormai vetuste.
Recentemente si è posto l’accento anche sulla povertà lavorativa. Si parla, quindi, di quei lavoratori il cui reddito è inferiore al 60 per cento della mediana, al netto dei trasferimenti sociali. Secondo le stime di Eurostat, in Italia il 10,2 per cento dei lavoratori occupati per almeno metà anno nel 2024 è classificabile come povero, in aumento rispetto al 9,9 del 2023. Per avere un confronto, in Germania questo valore è del 3,7 per cento. In Italia la situazione è particolarmente preoccupante per i lavoratori autonomi, in cui la percentuale arriva al 17,2 per cento, con un aumento significativo rispetto all’anno precedente. Proprio il nostro paese presenta un elevato numero di lavoratori autonomi, con fenomeni come false partite IVA o gig economy. Il dato quindi non desta particolare clamore, ma dovrebbe rafforzare l’attenzione, da parte della politica, su questi fenomeni.
L’ossessione per il cuneo fiscale
Nella discussione sulla crisi salariale a cui si assiste in Italia, uno dei temi che torna con più forza nell’agenda politica è il taglio del cuneo fiscale. Questo è definito come la differenza tra il costo del lavoro sostenuto da un’azienda per un dipendente e il salario netto che quest’ultimo riceve. Come tale, include le imposte sul reddito e i contributi previdenziali e assistenziali.
In particolare nel corso degli ultimi anni, per far fronte all’erosione dei salari reali dovuta all’inflazione, i governi Draghi e poi Meloni hanno tagliato il cuneo fiscale per garantire un maggior reddito ai lavoratori, pur non riuscendo a tener dietro all’inflazione. Nonostante ciò, un intervento sul cuneo nel breve periodo per situazioni emergenziali è comprensibile, anche se criticabile, come fatto dai due economisti Tito Boeri e Roberto Perotti su La Repubblica.
Sarebbe invece superficiale ritenere che il cuneo fiscale sia il principale problema del mercato del lavoro italiano. Come fa notare Leonzio Rizzo, professore di Scienze delle Finanze presso l’Università di Ferrara, se è vero che il cuneo fiscale è elevato in Italia, anche altri paesi come Francia e Germania presentano valori simili. Se quindi è condivisibile uno spostamento del carico fiscale dal lavoro alla rendita, non bisogna illudersi che questo basti per intaccare il principale male italiano: la bassa produttività.
Il taglio del cuneo fiscale, infatti, porta a maggiori risorse nelle tasche dei lavoratori, aumentando quindi il salario netto. Ma, per quanto non si possano escludere del tutto, non ha significativi effetti sulle scelte delle imprese per quel che riguarda l’innovazione e l’accumulazione di capitale umano, che sono tra le principali cause dell’aumento della produttività. Al contrario, un aumento persistente di questa, secondo quanto predice la teoria economica, porta le aziende a essere più efficienti, a impiegare lavoratori con più competenze e quindi salari lordi più elevati.
Ma perché, se come abbiamo visto, un taglio del cuneo fiscale ha pochi effetti sul problema della produttività italiana, la politica ne sembra così ossessionata?
Uno dei possibili motivi risiede nel ritorno politico che ha una strategia di questo tipo. Abbiamo visto che il problema, dal punto di vista economico, è che il taglio del cuneo fiscale interviene sul salario netto e non su quello lordo. Ma, per un lavoratore o una lavoratrice, il salario lordo appare, nell’immediato, meno importante di quello netto: per dirla in maniera più semplice, un taglio del cuneo fiscale porta a più soldi in tasca agli elettori e alle elettrici nel breve periodo. Questo può influenzare poi il comportamento elettorale, favorendo il governo in carica.
Un esempio proviene proprio dal nostro paese. Nel 2014 infatti ad agire sul cuneo fiscale fu infatti il Governo Renzi con il noto Bonus 80 euro. Secondo Silvia Vannutelli della Northwestern University, questa politica ha portato a un aumento dei voti nelle successive elezioni.
Al contrario, una strategia che punti ad aumentare i salari lordi, e quindi che agisce sulla produttività e sui suoi determinanti, avrebbe degli effetti di più lungo periodo che non sarebbero spendibili dal punto di vista elettorale nell’immediato, riducendo così la propensione di un governo ad attuare politiche di questo tipo. Non solo: sul breve periodo avrebbe dei costi. Sarebbe infatti necessario intervenire su problemi come la dimensione d’impresa o su settori a basso valore aggiunto, come il turismo, indirizzando invece le risorse (il come è tutto un altro discorso), che porterebbero alla chiusura di imprese poco produttive e quindi a un malcontento che si rifletterebbe sul consenso del governo in carica.
Lo spazio per una strategia di sinistra
Agire sui salari netti è una strategia efficace per mantenere o guadagnare consenso quando si è al governo. Ad esempio, la promessa elettorale di tagliare il cuneo fiscale non avrebbe la stessa attrattiva: nel primo caso, infatti, gli elettori si ritrovano più soldi in busta paga, mentre nel secondo devono o fidarsi ciecamente o comprendere la policy che il partito o la coalizione implementerà per garantirgli un maggior salario netto.
Per questo motivo una strategia di sinistra che rincorra il governo Meloni sul taglio del cuneo fiscale rischia di non essere efficace. La questione salariale che abbiamo illustrato nel primo paragrafo permette però una base per ricostruire un discorso di sinistra che riesca a intercettare il malcontento degli elettori.
Questo va visto assieme a tre fattori cruciali dal punto di vista politico. Il primo riguarda il consenso dei partiti di governo come Lega e Fratelli d’Italia. Come rileva uno studio della fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung, gli elettori di questi due partiti hanno idee più di sinistra rispetto alle proposte effettivamente contenute all’interno dei programmi. Il motivo dietro al successo di questi partiti populisti si basa sulla cosiddetta “formula vincente” che coniuga posizioni di sinistra sul piano economico con posizioni più conservatrici dal punto di vista dei diritti civili. Questo, ovviamente, durante la campagna elettorale. Una volta arrivati al governo il substrato di destra dei partiti populista riemerge. Perché, quindi, questa domanda di politiche di sinistra viene colmata da partiti populisti di destra?
Un secondo aspetto si basa proprio su questo: nel corso degli anni, il bacino elettorale della sinistra è coinciso sempre di più con la classe borghese riflessiva. Soprattutto nel nostro paese, i partiti afferenti all’area progressista ricevono i voti sia di coloro che hanno un titolo di studio più alto sia di chi ha un maggior reddito. Tra i motivi che spiegano questa disaffezione nei confronti dei partiti di sinistra c’è l’abbandono di politiche di predistribuzione a favore di politiche di tipo redistributivo.
Per questo motivo, come già suggerito dal Premio Nobel per l’Economia Daron Acemoglu ma anche da altri membri dell’accademia, la strategia dei partiti di sinistra per questa nuova epoca passa da un ritorno alla radici socialdemocratiche e in particolare sulla creazione di “good jobs”, che in italiano può essere tradotto con “buoni posti di lavoro”.
Uno strumento potrebbe essere il salario minimo. Su questa proposta l’opposizione al governo Meloni ha cercato di concentrare la propria azione, ma si è poi persa in discorsi futili di alchimie elettorali per le prossime elezioni. Il salario minimo risponde alle esigenze di molti lavoratori che si vedono pagati troppo poco, anche se sotto un contratto collettivo nazionale. Ma permetterebbe, tra le altre cose, di agire sugli incentivi nel mercato del lavoro: l’introduzione di un salario minimo porrebbe un freno alla speculazione sui bassi salari, spingendo fuori dal mercato le aziende poco produttive che non riescono a pagarlo e allo stesso tempo premiando le aziende produttive che investono o hanno investito in innovazione e capitale umano.
Per quanto estremamente spendibile dal punto di vista elettorale, il salario minimo va inserito in un piano più ampio per contrastare il calo della produttività e la stazionarietà dei salari in Italia. Ridare, cioè, un’idea di futuro come promessa e non più come minaccia, che è invece la strategia dei partiti di destra.
Il futuro salariale del paese
Finora, tuttavia, le proposte della sinistra sono scarseggiate: il fronte dell’opposizione al governo Meloni sembra più interessato da una parte a rincorrere l’agenda dettata dalla premier, errore non di poco conto; dall’altra, appunto, a cercare possibili alleanze per le prossime elezioni. Un tema che deve non essere particolarmente sentito dall’elettorato. C’è poi da aggiungere che spesso l’elettorato non valuta i partiti in base ai contenuti e ai programmi.
Uno degli elementi cruciali nelle dinamiche di opinione è la credibilità di chi porta avanti queste idee. In Italia questa caratteristica è stata il traino principale delle fortune politiche degli ultimi anni: a guadagnare dal punto di vista elettorale sono stati perlopiù nuovi partiti o propositi di “rottamazione” che promettevano una rottura totale con la vecchia politica del partito, ovvero partiti o correnti che non avevano avuto responsabilità di governo.
Un secondo aspetto è poi la costruzione del linguaggio con cui si portano avanti le piattaforme politiche. Come già suggeriva il più noto teorico del populismo, Ernesto Laclau, l’aspetto discorsivo rappresenta il fulcro di una proposta che riesca a tenere conto dell’eterogeneità della società. Che questo si basi su parole d’ordine o sul carisma di un leader poco importa.
Poiché la destra non ha alcuna intenzione di intaccare il problema salariale, ci si chiede quindi se la sinistra abbia non solo la volontà di costruire una proposta coerente per risolvere i problemi strutturali che causano la situazione in cui ci troviamo, ma se abbia poi la credibilità per trovare un elettorato ricettivo.
Se sul primo aspetto si è fatto poco, appunto, la battaglia sul salario minimo sarà sulla credibilità che ci sarà da lavorare. Il principale partito di opposizione, il Partito Democratico, appare dilaniato da lotte intestine che tengono banco sui giornali ma lasciano completamente indifferenti l’elettorato. Senza unità e arretramento di una certa classe dirigente sarà difficile fornire un’alternativa credibile al governo Meloni in grado di essere votata da quelle categorie che, da tempo, hanno smesso di guardare a sinistra.
(Immagine anteprima via Flickr)