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La lotta dei ricercatori contro il precariato nelle università

“Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere”, diceva Dario Fo. Lo abbiamo visto nelle ultime settimane negli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump ha ridotto drasticamente i fondi per la ricerca e fermato numerosi progetti, oltre ad aver aumentato le pressioni nei confronti di diverse prestigiose università. Il governo chiede di avere maggiore ingerenza nei programmi accademici, nei criteri di ammissione e assunzione, nella direzione della ricerca e nell’amministrazione dei campus. Pena la minaccia di tagliare i fondi federali. A fine marzo la Columbia University di New York aveva ceduto a queste richieste, suscitando preoccupazioni in tutto il mondo accademico. Un mese dopo l’Università di Harvard si è opposta, affermando che non modificherà i propri programmi o le politiche di ammissione: il governo ha così deciso di sospendere finanziamenti per 2,2 miliardi di dollari.

L’incertezza sul futuro del mondo accademico statunitense spinge molti ricercatori a cercare opportunità altrove: secondo un sondaggio di Nature, il 75% degli scienziati che lavorano negli USA sta valutando la possibilità di lasciare il paese. E così molte università all’estero stanno approfittando di questa situazione per attrarre i cosiddetti “cervelli in fuga”. Dall’altro lato dell’Atlantico, in Europa, si sta discutendo dell’adozione di un European Research Area Act, che mira a riconoscere la libertà della ricerca scientifica come fondamento dell’Unione e a uniformare gli standard di finanziamento e tutela, portando la spesa pubblica in ricerca e università al 3% del Pil. 

In Italia il manifesto ReBrain Europe, presentato dal fisico Roberto Battiston e dal filosofo della scienza Silvano Tagliagambe, si propone di accogliere i ricercatori che se ne vanno dagli Stati Uniti. “Se l’America volta le spalle alla scienza, l’Europa può e deve aprirle le porte”, scrivono i firmatari, oggi più di mille, che chiedono all’Unione Europea, ai governi nazionali e alle istituzioni accademiche e di ricerca di “promuovere l’arrivo e l’inserimento di ricercatori in fuga da contesti ostili alla scienza” come “investimento sul futuro”. Ma l’Italia sarebbe davvero pronta a farlo? Il nostro paese è attualmente uno di quelli che investe meno sulla ricerca, riservando all’università solo l’1,5 per cento della spesa pubblica contro il 2,1 della Francia, il 2,2 della Spagna, il 2,6 della Germania e il 4,8 della Danimarca. 

La crisi dell’università italiana

Il mondo della ricerca in Italia risente di problemi cronici: assenza di tutele per i lavoratori e le lavoratrici, cronica instabilità occupazionale, ricorso sistematico a tipologie di contratto parasubordinato o a termine, bassi stipendi, mancanza di prospettive professionali. Nello specifico, chi svolge attività di ricerca nel nostro paese è escluso dalle tutele minime previste dalla normativa generale in materia di lavoro e garantite a livello europeo e OCSE: diritto alla maternità e alla malattia, congedi per motivi familiari, copertura pensionistica in regime pubblico, protezione dai licenziamenti illegittimi, livelli retributivi dignitosi. Almeno il 40% di chi lavora nella ricerca in Italia non ha avuto finora un vero e proprio contratto di lavoro. I precari erano il 18 per cento nel 2010, sono arrivati al 42 per cento nel 2024.

Il 12 maggio si terrà un grande sciopero dell’università italiana contro il disegno di legge 1240/2024, meglio noto come riforma Bernini, che rischia di peggiorare ulteriormente lo stato di precarietà dei ricercatori. Lo sciopero arriva dopo che il 20 marzo si è tenuta una giornata di mobilitazione nazionale per l’università pubblica, e dopo che in varie città – Padova, Torino, Pisa, Bologna, Roma, Milano, Firenze, Napoli e altre città – sono nate diverse Assemblee Precarie Universitarie che hanno messo insieme studenti, dottorandi, ricercatori e professori. 

“Io lavoro nel mondo della ricerca da quasi dieci anni, e non ha messo da parte quasi nulla per la mia pensione”, si lamenta Matteo, 34 anni, assegnista di ricerca al Dipartimento di fisica dell’Università di Bologna. “Il mondo della ricerca ti obbliga a spostarti da un’università all’altra, non è pensabile fare la carriera accademica sempre nello stesso posto. Il problema è che, per come è strutturato il settore, questo rischia di diventare un pellegrinaggio senza fine, dove non hai realmente la scelta di dove andrai a vivere: se riesci a trovare una posizione permanente la accetti, a prescindere di quale sia la città, e devi modulare tutta la tua vita in funzione di questo”. E infatti oggi Matteo abita a Roma con sua moglie, e due settimane al mese va a Bologna per lavorare. “Dormo in albergo: visti i prezzi degli affitti mi conviene, gli hotel costano meno rispetto alle case. Vivo con la valigia sempre fatta, ci si abitua, ma non è il massimo”. 

“In università c’è un sistema di sfruttamento molto radicato”, continua Roberto, 36 anni, che dopo il dottorato in medicina molecolare e sette anni di post-doc ha deciso di lasciare il mondo accademico. “Ai ricercatori è chiesto di accettare una serie di ingiustizie, per amore della ricerca. E poi a un certo punto l’università ti sputa via. Io mi ero già preparato in anticipo. Ho capito a un certo punto che non sarei riuscito a diventare professore in tempi utili, magari sarei arrivato a 45 anni senza avere ancora una posizione strutturata. Così sono passato al privato”.

Il precariato che investe il mondo della ricerca

La riforma Bernini è sotto attacco perché starebbe cercando di reintrodurre e mimetizzare – sotto nuove etichette e con minori garanzie – modelli para-contrattuali già noti e superati, come l’assegno di ricerca, affiancati da ulteriori forme paracontrattuali a tutele decrescenti. È la cosiddetta riforma del preruolo, che introdurrebbe sei nuove figure precarie, giustificando questa scelta con la sua presunta maggiore “economicità”.  “La carenza di fondi non è una condizione oggettiva, bensì il risultato di una deliberata decisione politica”, commenta l’Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca (ADI). “La mancata volontà di investire in modo strutturale nell’università pubblica si traduce, da un lato, nella conservazione di un sistema che si regge su forza lavoro sottopagata, demansionata e priva di tutele – coerentemente con una tradizione che ha storicamente svalutato il lavoro intellettuale – e, dall’altro, nel consolidamento di un’accademia sempre più chiusa e ridotta, inaccessibile a chi non dispone delle risorse economiche per sopportare anche oltre un decennio di precarietà”.

L’unico strumento che può segnare un primo avanzamento verso il raggiungimento di standard dignitosi per il lavoro dei ricercatori è il contratto di ricerca, promosso dal governo Draghi con la legge 79/2022 per intercettare i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Il PNRR ha stanziato risorse vincolate all’attivazione di forme contrattuali innovative e più garantite per il personale di ricerca. E infatti il contratto riconosce ai ricercatori diritti fino ad oggi non garantiti: malattia, ferie, tredicesima, piena indennità di disoccupazione, più contributi previdenziali. Ma il Governo italiano ha sospeso l’attuazione di quel contratto.

È partita così una mobilitazione plurale, che va dalle proteste nelle piazze al confronto nelle sedi istituzionali. L’ADI ha presentato un esposto alla Commissione Europea, denunciando che l’Italia non sta rispettando gli obblighi del PNRR sull’università, e anzi rischia di ostacolare il percorso per stabilizzare i suoi lavoratori chiesto dall’Europa. Un secondo esposto è arrivato dal sindacato Flc-Cgil. Questo intervento coordinato ha avuto i suoi frutti, e così lo scorso febbraio la riforma del preruolo è stata sospesa. Con la delibera 13 marzo 2025, anche la Corte dei Conti ha riconosciuto la coerenza del contratto di ricerca con il quadro normativo e finanziario vigente.

I tagli alla ricerca non si fermano

Le risorse del PNRR però non bastano: con i 37,5 milioni di euro stanziati dal Piano, infatti, potranno essere stipulati solo quattrocento contratti in tutta Italia, circa cinque per ogni ateneo. Un numero largamente insufficiente per coprire la domanda. Quello che mancano sono le risorse statali: l’ADI ha calcolato che basterebbero 300 milioni di euro l’anno per garantire la piena attuazione del contratto di ricerca a tutti gli assegnisti già presenti nelle università italiane. E invece, al posto di stanziare risorse, il governo procede con i tagli al sistema universitario, i più drastici degli ultimi quindici anni. Le ultime leggi di bilancio hanno ridotto il fondo di finanziamento ordinario delle università di cinquecento milioni di euro nel 2024 e di settecento milioni nel triennio 2025-2027. 

Secondo il Piano straordinario per l’università elaborato da FLC-CGIL, a impedire qualsiasi reale prospettiva di stabilizzazione sarebbe il blocco dei piani di assunzione straordinari. L’analisi mostra che sarebbero necessari almeno 25mila posti da ricercatore a tempo determinato di tipo B (ora RTT) entro il 2027 per iniziare un processo di riassorbimento del precariato storico. Solo un piano di reclutamento ciclico, ordinato e pluriennale potrà garantire la copertura integrale del turnover determinato dai pensionamenti, l’abbassamento dell’età media del corpo docente e il riequilibrio del rapporto docenti/studenti, attualmente attestato su un valore tra i più sfavorevoli nel contesto europeo (1 docente ogni 20 studenti).

“Si tratta di un modello di in-accesso alla carriera accademica fondato sullo sfruttamento protratto di una vasta platea di giovani altamente qualificati – dottori e dottoresse di ricerca, assegnisti, ricercatori a tempo determinato, adjunct professor, borsisti post-lauream – destinati a rimanere per decenni in una condizione di subordinazione e subalternità priva di diritti, spesso sino alla soglia dei cinquant’anni, nonostante curriculum di eccellenza”, conclude l’ADI, che ribadisce: “La ricerca è lavoro, e chi lavora ha diritto a un contratto dignitoso, fondato sul rispetto della persona e conforme ai principi costituzionali e internazionali in materia di lavoro”.

Immagine in anteprima via Scomodo

14 ore 57 minuti ago