
Quando un autista di pullman viene ucciso da una banda di violenti, come Raffaele Marianella a Rieti, o un tifoso perde la vita in una rissa tra ultras, come nel caso di Claris a Bergamo, la stampa e l’opinione pubblica si affrettano a definire i responsabili con un termine che, nel corso degli anni, ha perso ogni significato originario: ultrà. Una parola che, dietro una patina di folclore sportivo, nasconde una realtà fatta di violenza, ignoranza e, troppo spesso, collusione con la criminalità organizzata.
Ma la soluzione non è solo reprimere. È educare.
Gli episodi recenti dimostrano che la violenza del tifo organizzato non è un fenomeno marginale, ma una piaga strutturale:
Rieti, ottobre 2025: L’uccisione dell’autista Raffaele Marianella, aggredito da una banda di violenti dopo una partita di basket, è solo l’ultimo episodio di una lunga scia di sangue. Già un anno prima, a Treviso, ultras a volto coperto avevano assaltato il bus dei tifosi di Mestre, prendendoli a bastonate
Milano, 2024-2025: L’inchiesta “Doppia Curva” ha svelato un sistema di corruzione, estorsioni e accordi illeciti tra le tifoserie di Inter e Milan, con legami diretti con la ’ndrangheta. Tra gli arrestati, anche un consigliere regionale del centrodestra, dimostrando che il legame tra violenza ultrà e potere non è un’eccezione, ma una regola
Bergamo, 2025: La morte del tifoso atalantino Claris, ucciso in una rissa tra ultras, ha riaperto il dibattito sulla cultura del tifo deviato. Il caso ha evidenziato come la violenza non sia più un fenomeno marginale, ma una piaga che coinvolge giovani e meno giovani, spesso legati a dinamiche criminali
La complicità della stampa e della politica
La stampa italiana, a tutti i livelli, ha scelto di omologarsi. Invece di denunciare senza mezzi termini la gravità di questi episodi, preferisce rifugiarsi dietro un termine che, con il tempo, ha perso ogni carica critica. Ultrà suona quasi come una categoria sociologica, un fenomeno da analizzare con distacco, invece che come ciò che è: un insieme di individui violenti, spesso legati a frange estremiste, che agiscono al di fuori di ogni regola civile.
Anche la politica ha le sue responsabilità. L’inchiesta milanese ha coinvolto esponenti del centrodestra, dimostrando che il legame tra tifo organizzato e potere non è un’eccezione, ma una regola. Quando un “divertimento” si trasforma in tragedia, non possiamo più permetterci di giustificare tutto come “ragazzate”. Le vittime non sono numeri: sono padri, figli, lavoratori. Persone.
La soluzione: educazione, responsabilità e impegno collettivo
1. Educazione diffusa: smontare la cultura della violenza
La violenza del tifo organizzato non si combatte con Daspo e arresti. Serve un’educazione diffusa, che parta dalle scuole, dalle famiglie e dalle comunità locali. Bisogna smontare la retorica che trasforma la violenza in “passione” e l’odio in “identità”. Le società sportive, le istituzioni e i media devono promuovere una
, non sull’aggressività.2. Il ruolo della stampa: chiamare le cose con il loro nome
La stampa deve assumersi le proprie responsabilità. Usare termini come ultrà per descrivere criminali, razzisti o assassini significa normalizzare l’ "innormalizzabile". È ora di chiamare le cose con il loro nome: ignoranti, delinquenti, assassini. Solo così si può iniziare a smantellare la retorica che avvolge questi gruppi e restituire dignità alle vittime e alla verità.
3. Le società sportive: non solo business, ma responsabilità sociale
Le società sportive non possono limitarsi a vendere magliette e biglietti. Devono assumersi la responsabilità di educare i propri tifosi, promuovendo iniziative che valorizzino il tifo sano e condannino senza appello la violenza. Devono collaborare con le istituzioni per creare spazi di dialogo, prevenzione e inclusione, soprattutto tra i giovani.
4. Prevenzione e comunità:
La prevenzione non può essere calata dall’alto. Deve coinvolgere chi vive lo sport ogni giorno: tifosi, volontari, educatori, associazioni. Solo attraverso un impegno collettivo si può costruire una cultura dello sport che sia davvero civile e inclusiva.
Un appello alla responsabilità di tutti
Non servono leggi più severe. Serve una presa di coscienza collettiva. Lo sport dovrebbe essere un momento di aggregazione, non un pretesto per la violenza. I media devono smettere di essere complici di questa narrazione distorta. Le società sportive devono assumersi le proprie responsabilità. E noi, come società, dobbiamo pretendere che chi commette reati venga chiamato per ciò che è: non un ultrà, ma un criminale.
Solo così potremo iniziare a costruire una cultura dello sport – e della convivenza – che sia davvero civile.