Educare al sentire: il grido dei giovani che ci riguarda tutti
Quello che sta accadendo oggi, giovani sempre più piccoli che uccidono, accoltellano, violentano, oppure si tolgono la vita, non è un incidente della storia. È un grido. Un grido che ci riguarda. Tutti.
È l’epoca? Sì, anche. Viviamo immersi in un tempo accelerato, compulsivo, saturo di immagini e povero di linguaggio interiore. Le emozioni si consumano come stories da 24 ore, non si elaborano, non si abitano. La tecnologia ha reso tutto immediato, compresi i sentimenti, ma non ha insegnato a riconoscerli, né a reggerli.
Chi cresce oggi è sommerso da messaggi contraddittori. Si può avere tutto, subito, eppure si è soli; si è costantemente connessi, ma disconnessi da sé. L’identità si costruisce per specchi e like, ma si sgretola al primo rifiuto. Questo crea adolescenti fragili e narcisisti insieme, incapaci di gestire il “no”, l’abbandono, la frustrazione. E quando non si sa nominare il dolore, si agisce. Contro l’altro o contro se stessi.
È l’educazione sentimentale? Sì, profondamente.
Per anni si è parlato di educazione civica, di competenze digitali, perfino di educazione finanziaria, ma si è dimenticata l’educazione al sentire. Ai sentimenti reali. Quelli che fanno male, quelli che sporcano, quelli che non si possono mettere in un post.
Noi adulti non insegniamo più a distinguere tra amore e possesso, tra desiderio e sopraffazione. Non educhiamo i ragazzi alla cura dell’altro, alla reciprocità, alla responsabilità emotiva. E così crescono nell’idea, falsissima, che amare significhi “avere” e che essere lasciati equivalga a perdere potere. E il potere, nella loro testa, va difeso anche con la violenza.
È la scuola? Anche.
La scuola è diventata il luogo delle competenze, non della formazione umana. Si corre per stare nei tempi, si valutano prestazioni. I docenti, spesso stanchi, precari, lasciati soli, non hanno più il tempo (o il mandato) per accorgersi di chi sta cadendo nel vuoto.
È che è stata tolta, alla scuola, la possibilità di essere un presidio affettivo, una palestra di cittadinanza emotiva. E abbiamo lasciato che il disagio si gonfiasse nel fare. A volte troppo e male.
Sono anni che predico l’insegnante di sostegno per la classe. Diciotto ore piene di supporto per studenti e docenti. Sarebbe necessario.
Sono i genitori? Sì, ma non da soli.
Molti genitori sono confusi, impauriti, spaesati. Alcuni sono adolescenti mai cresciuti, che hanno figli senza avere sé stessi. Altri sono troppo soli, troppo stanchi, troppo occupati a sopravvivere. Oppure troppo presenti, troppo controllanti, troppo invischiati.
Abbiamo smarrito il confine tra protezione e controllo, tra guida e imposizione e i ragazzi, privi di adulti autorevoli (non autoritari), cercano riferimenti altrove. Nella rete, nei coetanei, nei modelli tossici.
È stato il Covid? Anche. Ma non solo.
La pandemia ha fatto da detonatore. Ha isolato, ha interrotto il corpo a corpo della vita, ha bloccato il contatto, la scuola, la socialità, ha cronicizzato la solitudine, ma sarebbe riduttivo dire che tutto è iniziato lì. Il Covid ha solo accelerato un processo già in atto, la desertificazione emotiva.
Quindi non è una sola cosa. È una rete che si è spezzata. Una rete fatta di parole non dette, di adulti assenti, di modelli culturali distorti, di silenzi complici.
E adesso raccogliamo i frantumi. Giovani, ma anche adulti, che non sanno amare senza annientare, né soffrire senza scomparire. Ci serve un nuovo umanesimo.
Ci serve una rivoluzione dolce ma radicale, che riporti la parola educare al suo significato originario: “tirare fuori”. Non performance, ma presenza. Non risultati, ma relazioni. Altrimenti tutto sarà sempre più buio, più triste, più assurdo.
Ma come ci si può appendere all’oscurità? Dobbiamo guardarla in faccia, senza girare la testa dall’altra parte. Se vogliamo davvero comprendere perché accadono tragedie come quella di Martina, non possiamo limitarci a commuoverci il giorno dopo. Bisogna mettersi in ascolto, anche del dolore che fa paura.
Qual è la soluzione? mi chiedo dopo questo tortuoso ragionamento. E mi rispondo che non ce ne può essere una sola. Non è un interruttore da accendere.
È un intreccio di piccoli gesti, cambiamenti culturali profondi, prese di coscienza collettive. A dirla così, sembrerebbe generico. Un “se se vabbè”, me lo risponderei da sola.
Eppure ci sono direzioni chiare e tutte passano per l’educazione. Non quella nozionistica, non quella delle prove Invalsi. Parlo di educazione sentimentale, etica, relazionale.
La soluzione è ritornare al sentire. Rieducare al linguaggio delle emozioni, fin da bambini. Insegnare a riconoscere la rabbia, la gelosia, la frustrazione, il desiderio, il rifiuto e dare strumenti per non farsene travolgere. Questo significa lavorare sull’autocoscienza, sull’empatia, sulla gestione del conflitto. Nelle scuole. Nelle famiglie. Nelle comunità. Nei luoghi della cultura, quelli che, per tenerli in piedi, si fanno salti mortali, senza mai un aiuto.
Serve un patto educativo collettivo, dove la scuola non sia lasciata sola, dove i genitori non siano giudicati ma accompagnati, dove i ragazzi non siano solo fruitori di contenuti, ma soggetti di pensiero. E dove la cultura, quella vera, fatta di parole profonde e non di slogan, torni ad avere un ruolo centrale. Centralissimo, essenziale.
Cultura = Conoscenza
Conoscenza = Scelta
Scelta = Giudizio
Giudizio = Capacità critica
Capacità critica = Giudizio
Giudizio = Scelta
Federica Flocco, giornalista pubblicista, scrittrice, docente di diritto ed economia, fondatrice e già vicepresidente della Libreria IoCiSto di Napoli. Appassionata di libri, ha condotto per più di un decennio la rubrica televisiva Il libro della settimana su Canale21. Attualmente cura l’itinerario culturale del programma radiofonico I racconti della sera. Moderatrice e relatrice di incontri letterari, scrive recensioni e interviste per numerose riviste cartacee e online.