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Alzheimer, quello che si può fare. Intervista a Silvia Nocera

Il 5 ottobre, al Cineteatro di Adrara San Martino (BG) – con il Patronicio del Comune, della Biblioteca comunale, di Pressenza Italia, di Multimage, del Centro Famiglia Sebino, del Centro Il Passatempo e dell’Ambito Monte Bronzone Basso Sebino di Comunità Montana dei Laghi Bergamaschi – è stato presentato il libro  “AAA cercasi memoria perduta. L’avventura interiore di chi accompagna  una persona cara affetta da Alzheimer (o da una delle altre forme di  demenza)” in presenza della scrittrice Silvia Nocera. Questo libro è un po’ un compendio, sfugge alle categorie ed è rivolto a chi, per una ragione o per un’altra, vuole sapere, vuole capire, vuole avere delle informazioni su cosa accade quando una forma di demenza bussa alla porta. I frammenti di vita e di conoscenze contenuti in questo testo possono dare un’idea dell’avventura interiore di chi affronta questo male epocale, celebrando la profonda umanità di chi ne è affetto. Cosa si può fare di fronte all’Alzheimer? A questo interrogativo rispondiamo con Silvia Nocera, nata a Firenze nel 1968, scrittrice, filosofa umanista, educatrice e traduttrice freelance. Da sempre impegnata nel superamento della sofferenza personale e sociale, è stata Responsabile dello sviluppo italiano dell’Associazione Centro delle Culture fino al 2007. Aderente alla corrente filosofica del Nuovo Umanesimo Universalista del filosofo argentino Mario Luis Rodriguez Cobòs (detto Silo), è stata membro attivo del Movimento Umanista in diversi progetti di cooperazione umanitaria in Senegal e Perù, dove ha vissuto per dieci anni. Dal 2009 è Messaggera di Silo. Giornalista di Pressenza Italia, raccoglie i suoi pensieri e i suoi scritti sul sito silvianocera.net. E’ autrice di molteplici libri sui temi della sofferenza umana e della discriminazione, con Multimage – Casa Editrice dei Diritti Umani ha scritto: “A proposito di Errore. Saggio quasi serio e quasi saggio”, “Didi e l’amore eterno”, “Oltre la soglia”, “Segnali dal mondo dei significati”, “Gli  eletti e l’essenza della discriminazione”, “Nove storie”. Con Pressenza Italia ha prodotto il documentario Non Ti Scordar di Me, regia di Eric Souqi, sul tema dell’Alzheimer.

Come è nata l’esigenza di scrivere questo libro?

Quando nostra madre ha ricevuto la diagnosi di Alzheimer ho letto tutto quello che ho potuto per documentarmi su questa patologia. Con mia sorella abbiamo trovato molta letteratura medica diretta ai caregiver, su consiglio della nostra geriatra e cercando sui siti delle associazioni create dai parenti che spesso producono molto materiale divulgativo. Erano descritte chiaramente le fasi della malattia e tutti i tipi di disturbi che la possono accompagnare, sempre con la consapevolezza che ogni caso ha le sue particolarità. Cerano anche molti suggerimenti su come accudire un malato di Alzheimer, su come era meglio comportarsi nell’assistenza. Poiché nella pratica quotidiana sperimentavamo molte difficoltà a seguire sempre quei suggerimenti, ho cercato della letteratura testimoniale, per passare dal dire al fare con le esperienze dei familiari. Comprendo profondamente la necessità dei parenti di integrare un’esperienza che, non posso mentire, è anche intensamente dolorosa. Anche io ho avuto e ho ancora l’esigenza di elaborare questo vissuto familiare. Ma spesso è stato difficile arrivare in fondo a quei libri, le cui pagine erano intrise di amarezza.

Quando non è stato più possibile tenere nostra madre in casa, ho avuto un po’ di tempo per riflettere e ho pensato di selezionare tutti quegli esempi e aneddoti, alcuni dei quali decisamente graziosi, che mi erano serviti per comprendere meglio, da vicino, questa malattia, cercando di mettermi nel punto di vista di mia madre. Poi ho fatto una lunga intervista alla nostra geriatra e ho raccolto varie testimonianze brevi di persone che avevano avuto una esperienza significativa da portare. Così è nato una specie di manuale, utile spero per tutti coloro che iniziano questo percorso di accompagnamento di un essere caro affetto da demenza, ma anche per chi ha già concluso la sua esperienza o chi ha un interesse professionale.

Si dice sempre che gli anziani stanno meglio a casa, in modo tale che non si disorientino e rimangano nel loro ambiente. L’isolamento vale per i malati di Alzheimer?

L’isolamento sociale è veleno puro per i malati di Alzheimer. Per un anziano senza declino cognitivo, l’ambiente domestico è un perno fondamentale su cui innestare le proprie attività. La casa dove si è vissuti a lungo porta ricordi che accompagnano la naturale revisione della propria vita che si attiva nella terza età. Ma quando la memoria svanisce, quella casa, non più riconosciuta come la propria casa, può diventare come una prigione e i familiari sono i carcerieri. C’era un periodo in cui mia madre chiedeva spesso, dopo colazione: “Bene, e adesso andiamo a casa?”. Le mie spiegazioni non la convincevano. Una volta la presi e facemmo un lungo giro in macchina per rivedere tutti i luoghi che frequentavamo – il supermercato, il bar, il paese ecc.- che ancora ricordava ma, tornate a casa, quell’ambiente non coincideva con il suo ricordo. Ma alla fine vi si adattava.

Quando la pandemia ci ha rinchiusi in casa, il declino cognitivo di nostra madre ha avuto un avanzamento esponenziale e, appena siamo state contattate dalla residenza (1) che aveva un posto libero, abbiamo deciso di portare lì nostra madre, per l’ultima tappa della sua vita. Dopo un mese di vita comunitaria e intensa stimolazione, era visibilmente ringiovanita e, quando siamo andate a trovarla la prima volta, voleva che noi restassimo con lei, lì alla residenza.

Quando i malati di Alzheimer vanno tenuti a casa o in struttura?

Ogni situazione ha le sue peculiarità, ma generalmente si può restare a casa nelle prime fasi della malattia, avendo cura, però di mantenere un’attività sociale che renda la giornata piena e soddisfacente. La soddisfazione produce uno stato di calma e rallenta il declino cognitivo, cosa che permette un uso minore di farmaci. Se la persona col declino cognitivo realizza atti che la fanno sentire utile o le riempiono il tempo piacevolmente, mantenendo le proprie autonomie o le particolari capacità, poi mangia e dorme bene, rallentando anche l’insorgere dei disturbi correlati alla demenza. Ci sono malati che entrano in apatia e vanno stimolati, altri che, al contrario, chiedono di fare sempre qualcosa, e in questo caso si devono trovare le attività giuste per loro.

Con mia sorella ci siamo dedicate a creare un “universo” di attività intorno a nostra madre ed essendo da sempre in contatto con persone dedicate o interessate alla salute, anche con pochi soldi abbiamo potuto offrirle diversi tipi di interventi di stimolazione con professionisti (logopedia, ginnastica dolce, yoga) o gestendo direttamente noi o con amici delle semplici attività (cucina, colorare disegni pronti o mandala, cantare vecchie canzoni ecc.).

Questo ci ha permesso di non dover mai dare né antidepressivi, né antipsicotici o benzodiazepine a nostra madre, ma la nostra vita si è trasformata nell’assistenza a nostra madre. Non sempre questo è possibile e, comunque poi si giunge a un limite in cui, anche tutti i nostri sforzi sembrano vani.

Non tutte le strutture vanno bene, i malati di Alzheimer non si possono intrattenere giocando a carte o leggendo il giornale come gli anziani in genere. Si deve essere sicuri che ci sia un nucleo Alzheimer con personale formato ad hoc, ma se ci sono le condizioni adeguate, la struttura è una alternativa valida per evitare l’uso di farmaci che, se da una parte annullano dei sintomi, dall’altra accelerano il declino cognitivo.

Quale è la differenza fra l’approccio del caregiver-familiare e del caregiver-professionale?

Qui c’è una specie di paradosso con il tema della memoria. Il caregiver-familiare conosce in dettaglio la storia e le caratteristiche del paziente e si aspetta determinate reazioni nelle diverse circostanze. Ma il paziente cambia continuamente e spesso il familiare viene messo in crisi. Come il malato di Alzheimer non riconosce più i suoi familiari, anche i familiari si trovano di fronte una persona diversa e devono accettare i cambiamenti di gusti, di abitudini e di comportamento dei loro cari. Questo a volte è molto difficile.

Dall’altra parte il caregiver-professionale, per poter stimolare adeguatamente il paziente e riconoscere le sue reazioni, avrebbe bisogno di conoscere il più dettagliatamente possibile la storia e le caratteristiche della persona da assistere. Anche questo a volte è difficile perché non tutte le famiglie riescono a documentare adeguatamente i professionisti.

Questa memoria dell’essere caro, di cui si vorrebbe fare a meno come parenti a volte per non soffrire, è invece così importante per l’assistenza da parte degli operatori sanitari.

Quali sono difficoltà più grosse nell’assistenza a casa in materia di disturbo comportamentale?

La rabbia è il disturbo più comune ed evidente. Mia madre si rendeva conto di perdere pezzi della sua vita, delle sue capacità e noi comprendevamo la sua rabbia e, a volte, tristezza. Quando però la comunicazione verbale era ormai completamente compromessa, la rabbia a volte esplodeva e noi non eravamo sempre così presenti per comprenderne la causa scatenante. La rabbia può portare anche a comportamenti estremamente aggressivi, difficili da gestire. Qualche volta siamo riuscite e disinnescare l’escalation giocando ruoli clowneschi che, esagerando toni ed espressioni in modo teatrale, aiutavano a scaricare l’emozione e a trasformarla in catarsi positiva, in risata.

Il wandering, il movimento afinalistico e continuo, è un altro disturbo che in alcune famiglie diventa presto insopportabile. I professionisti dicono di lasciare libero il paziente di andare e venire in continuazione senza mettere dei limiti, perché poi si scarica da solo. Certamente se si ha timore che il nostro caro finisca da solo per strada senza sapere dove è e dove andare, vanno prese delle precauzioni in modo che non possa uscire autonomamente e questo va progettato adeguatamente in ogni particolare situazione.

La disinibizione è un altro disturbo molto complesso da gestire a casa perché tocca il nostro senso del pudore e ci lancia in un paesaggio primordiale in cui spesso gli escrementi entrano in gioco.

Senza dubbio, se il malato è accudito in modo adeguato, riceve la sua stimolazione e vive in un ambiente armonioso, questi disturbi si presentano meno e in modo meno potente.

A livello di politiche sociali, cosa si può fare a livello locale per migliorare la qualità della vita di questi pazienti e dare sollievo alle loro famiglie?

La risposta è già stata sperimentata e si chiama: Centro Diurno dedicato ai pazienti con demenze. Questi centri devono avere spazi adeguatamente attrezzati per le attività e personale qualificato in proporzione di 1:3. Qualche anno fa a un alzheimerFest a Orvieto, durante una conferenza un relatore disse che questi centri funzionano perfettamente, perché il paziente, preso in carico già nelle prime fasi della malattia, sta fuori casa da mattina a sera, in un ambiente stimolante e adeguato in quanto attività e relazioni. Quando torna a casa dai familiari è scarico e soddisfatto e ciò determina un rallentamento della patologia degenerativa. Il problema è che sono estremamente costosi per la sanità pubblica e ne esistono un esiguo numero sul territorio nazionale.

Per arrivare a costituire a livello locale dei centri di questo tipo, è necessario che le famiglie si ritrovino e comincino ad autorganizzarsi. Innanzitutto sono fondamentali i gruppi di mutuo aiuto, nei quali pazienti e familiari possono ritrovarsi, parlare e fare magari delle attività insieme. Un altro strumento efficace per far incontrare le famiglie e fare formazione pratica e on demand, sono i Caffè Alzheimer, momenti di incontro e convivialità con le famiglie, con la presenza di professionisti disponibili a spiegare gli elementi salienti di questa malattia e a dare suggerimenti per l’assistenza su richiesta specifica dei familiari presenti. I piccoli comuni, quelli che più facilmente possono costituire delle comunità di base, dare spazi e gestire fondi, possono poi organizzare veri e propri corsi di formazione per caregiver-familiari e/o professionali, in modo da rendere la comunità più consapevole e informata. A questo punto la creazione a livello locale di attività dedicate ai pazienti con demenze, non dovrebbe essere più così complessa e non sarebbe più utopica l’istituzione di centri diurni. I malati di una qualche forma di declino cognitivo hanno bisogno di una comunicazione chiara e coerente, attività soddisfacenti e adeguate alle loro caratteristiche e livelli di autonomia, un ambiente umano affettivo e armonioso. Lavorare per ottenere questo per i pazienti di Alzheimer è lavorare per un mondo diverso, accogliente e giusto.

 

(1) Residenza “Non ti scordar di me” (Castel Giorgio, Orvieto TR – www.benella.it) specializzata per malati di Alzheimer e demenze in generale.

 

Lorenzo Poli

Fonte
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