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Aborto e diritti riproduttivi: la radicalizzazione dei movimenti anti-scelta

Dal ribaltamento della storica sentenza Roe v. Wade nel giugno 2022, che tutelava il diritto all’aborto a livello federale negli Stati Uniti, il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza negli USA non è diminuito come ci si aspettava. Rispetto al 2020, le IVG effettuate nel 2024 sono aumentate del 12%, perché tante persone che volevano accedere al servizio sono andate negli Stati in cui la procedura non è vietata o hanno optato per l’aborto farmacologico, con la spedizione dei farmaci via posta. Inoltre, il 54% degli americani intervistati dalla società di consulenza Gallup nel 2024 si è detto pro-scelta, e solo il 12% delle persone pensa che l’aborto dovrebbe essere illegale sempre - uno dei dati più bassi degli ultimi 30 anni. 

In Inghilterra, Galles e Scozia, invece, per limitare la pratica dei gruppi antiabortisti di ostacolare e molestare le persone che usufruiscono dei servizi o lavorano nelle cliniche di salute sessuale e riproduttiva, sono state introdotte le cosiddette buffer zone, ovvero delle zone cuscinetto attorno a queste strutture, all’interno delle quali è vietato “causare angoscia” a chiunque voglia accedere alle cliniche. Lo stesso è stato fatto in Germania, dove la ministra per la Famiglia Lisa Paus ha detto che è importante che le donne possano avvalersi di determinati servizi senza subire “odio e turbamento”.

Le azioni dei movimenti anti-scelta però non si sono affievolite né nelle intenzioni né nell’operato, e anzi in certi casi le loro posizioni si sono anche inasprite. Seppur diversi tra loro, infatti, negli ultimi anni quelli che apparivano come piccoli gruppi locali sono diventati invece “una vasta operazione di estrema destra, ben finanziata, che cerca di rendere del tutto illegale l’aborto e di limitare fortemente altre forme di autonomia riproduttiva”, come l’ha definita il Southern Poverty Law Center, organizzazione che si occupa di diritti civili.

Sostituire l’assistenza sanitaria

Tra le strategie più utilizzate dai gruppi anti-scelta soprattutto negli ultimi anni c’è il tentativo di sostituirsi alle strutture sanitarie attraverso i Crisis Pregnancy Center (CPC). Nati negli anni Sessanta, questi centri si presentano infatti come cliniche per la salute riproduttiva, ma sono in realtà gestite da organizzazioni contro l’aborto e l’autodeterminazione dei corpi. Già nel 2022 si stimava che il numero dei CPC presenti negli Stati Uniti fosse il triplo rispetto alle cliniche abortive: dal ribaltamento della Roe v. Wade e dalla conseguente chiusura di molte strutture per la salute riproduttiva e sessuale, è possibile che la distanza sia ulteriormente aumentata. Lo scopo dei centri è quello di attirare le persone in gravidanza, con il pretesto di poter fornire loro informazioni mediche e supporto. Ciò viene fatto con “metodi ingannevoli e non etici”, usando ad esempio nomi e simboli per i propri centri simili a quelli di cliniche che offrono il servizio dell’interruzione volontaria di gravidanza, confondendo le persone che vorrebbero accedere alla procedura; con il ricorso a strategie di “falsa pubblicità” che permette a queste strutture di spuntare tra i risultati online quando si cercano informazioni su centri dove è possibile abortire; e posizionandosi vicino a cliniche per la salute sessuale e riproduttiva. 

Finanziati con fondi pubblici, nei CPC non sono generalmente presenti dei medici, le informazioni che forniscono su aborto, contraccezione e salute riproduttiva sono inesatte o fuorvianti, e i servizi che offrono sono molto limitati e garantiti spesso solo a chi accetta di partecipare a iniziative religiose. Come sottolineato da 16 procuratori generali in una lettera aperta nel 2023, si tratta dunque di strutture che “mettono in pericolo la salute e la vita” delle persone, attraverso la disinformazione e ostacolando e ritardando l’accesso a un’assistenza sanitaria sicura. Queste strutture non sono presenti solo negli Stati Uniti, ma sono stati individuati in oltre 80 paesi nel mondo: tra questi vi è il Regno Unito, in cui un’inchiesta recente ha messo in evidenza come i CPC britannici siano finanziati da gruppi antiabortisti statunitensi; mentre in Italia le associazioni anti-scelta sono presenti direttamente negli ospedali e nelle strutture sanitarie.

Procedere per vie legali

Un altro approccio sempre più privilegiato dai movimenti anti-scelta è quello di procedere per vie legali, impugnando le leggi, sporgendo denunce e spingendo verso una reinterpretazione più repressiva delle norme già esistenti. Dopo la sentenza Dobbs v Jackson Women’s Health Organization che ha ribaltato la Roe v. Wade nel 2022, le associazioni antiabortiste statunitensi infatti non si sono fermate, ma hanno subito provato ad attaccare anche l’aborto farmacologico, a cui è possibile accedere in telemedicina e che negli Stati Uniti rappresenta circa due terzi delle procedure. A pochi mesi dalla sentenza Dobbs, infatti, alcune associazioni mediche antiabortiste hanno fatto causa al Dipartimento della Salute statunitense e alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia che si occupa di regolamentare i prodotti farmaceutici, cosmetici e alimentari negli Stati Uniti: la richiesta era quella di revocare l’approvazione del mifepristone, uno dei due medicinali usati per l’aborto farmacologico. 

A detta delle associazioni antiabortiste, l’FDA avrebbe infatti ignorato i “forti effetti collaterali” del medicinale, di cui in realtà la sicurezza è stata accertata da tempo e che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha anche inserito tra i farmaci essenziali per ridurre mortalità e morbosità materna. Le associazioni sono state supportate dall’Alliance Defending Freedom, una potente lobby della destra cristiana classificata come “gruppo d’odio” dal Southern Poverty Law Center e il cui lavoro principale è quello di “usare i tribunali per il proprio programma contro l’aborto”, attraverso continue battaglie legali e la formazione di migliaia di avvocati. La richiesta delle associazioni è stata poi respinta dalla Corte Suprema, ma più per una questione tecnica che per il suo contenuto: secondo i giudici, infatti, dal momento che le associazioni che avevano sporto denuncia non prescrivevano né usavano il farmaco, non avevano un interesse diretto e dunque il diritto di fare causa su questo.

Intanto, solo pochi mesi prima della decisione della Corte Suprema, due studi citati nella causa contro l’FDA e che avevano lo scopo di dimostrare la presunta pericolosità dell’aborto erano stati ritirati dalla rivista Sage su cui erano stati pubblicati. Dopo un’indagine e un’ulteriore valutazione esterna, infatti, era emerso che queste ricerche mancassero di “rigore scientifico”. Ad esempio, sette autori su otto e persino un revisore esterno di uno dei due articoli erano affiliati a organizzazioni antiabortiste e non lo avevano dichiarato al momento della consegna della ricerca. I materiali dei due articoli poi contenevano degli errori: la presentazione dei dati era fuorviante e le conclusioni erano quindi inaccurate e non valide. Non è la prima volta che studi inattendibili sono usati nelle cause portate avanti da gruppi antiabortisti: alcune ricerche di cui sono state messe in evidenza più volte limitazioni e inattendibilità sono state citate più volte come prove in numerose azioni legali, incluso il già citato caso Dobbs.

Controllare linguaggio e informazione

Molti gruppi anti-scelta stanno lavorando anche su cosa è possibile dire sull’aborto. Negli ultimi mesi, infatti, negli Stati americani dove questi gruppi sono più influenti sono state presentate delle proposte di legge che hanno lo scopo di limitare qualunque comunicazione sulle interruzioni di gravidanza.

Alcune proposte hanno provato a vietare la possibilità di “fornire informazioni” sull’aborto farmacologico anche online, così come le campagne pubblicitarie sui servizi che offrono le procedure fuori dagli Stati in cui sono illegali. “In un paese in cui un terzo degli Stati vieta l’aborto e altri non lo fanno, quello che conta è il flusso di persone, il flusso di pillole” per l’aborto farmacologico “e il flusso di informazioni”, ha detto la professoressa Rachel Rebouché, esperta di diritto della salute riproduttiva e preside della facoltà di legge della Temple University, in Pennsylvania. 

Perciò diventa sempre più importante “controllare ciò che le persone possono scoprire sui servizi che non sono legali nel loro Stato ma lo sono altrove”. Anche il linguaggio usato in alcune proposte di legge è ben calcolato e mira a condizionare qualunque possibilità di parlare di aborto: in Idaho e Tennessee, ad esempio, è stato fatto il tentativo (poi bloccato) di vietare il cosiddetto “reclutamento” di persone minorenni per accedere all’aborto, un concetto molto vago che avrebbe potuto significare anche solo parlare della procedura con qualcuno che non è maggiorenne.

Non sempre poi l’attacco all’aborto è diretto ed evidente: ne è un esempio la campagna Meet Baby Olivia, un video animato che vorrebbe mostrare lo sviluppo dell’embrione e del feto. Creato dall’organizzazione americana antiabortista Live Action, il video utilizza un linguaggio e dei riferimenti studiati, in maniera molto più accorta di come fanno altri gruppi antiabortisti che diffondono concetti facilmente smontabili da anni di ricerche autorevoli. 

Il video gioca molto sulla romanticizzazione di un processo e sul ricorso a informazioni imprecise: la voce narrante parla di “manine” e “piedini” e di un “viaggio straordinario”; attribuisce un nome di persona a un embrione; mostra all’inizio del video un feto “umanizzato” che sbadiglia; e lascia intendere che gli organi siano del tutto sviluppati e funzionanti fin dalle primissime settimane, quando invece si tratta solo di accenni di quello che potrebbe accadere più avanti. Il video “non parla di aborto” e “non pronuncia mai la parola ‘aborto’”, spiegano da Live Action, e in effetti non lo fa in maniera esplicita, ma il suo fine ultimo è abbastanza evidente, come dice la stessa organizzazione: diventare strumento per quei governi che vogliono “continuare a lavorare per educare sia alla biologia sia alla vita” e “insegnare alle persone quando inizia la vita e a rispettarla”.

E così infatti è stato: tra il 2023 e il 2024 almeno 11 Stati americani hanno introdotto o approvato leggi per rendere obbligatoria la visione di questo video o di prodotti simili nelle scuole. Anche in Italia si sta provando a fare lo stesso: nel 2024, infatti, l’organizzazione anti-scelta Pro Vita & Famiglia ha lanciato una campagna dal titolo Baby Olivia, attraverso cui ha proiettato il video in questione in alcune città italiane, e ha annunciato una petizione per portare il video animato nelle scuole. L’obiettivo, si legge sul sito dell’associazione, è quello di ottenere una “rivoluzione culturale” come quella “già avviata negli Stati Uniti”, che porti al “riconoscimento giuridico” del frutto del concepimento, a cui attribuiscono “umanità” e dunque diritti.

Riconoscere lo “stato di persona” dal concepimento

Stabilire che la vita umana abbia inizio al concepimento è d’altronde centrale per i movimenti antiabortisti: secondo la professoressa Mary Ziegler, esperta di storia del diritto dell’aborto negli Stati Uniti, è anzi il “singolo punto d’accordo in un movimento frammentario”. Per raggiungere questo obiettivo, buona parte dei movimenti anti-scelta statunitensi sta puntando a una reinterpretazione del XIV emendamento. Introdotto nel 1868 per estendere i diritti civili alle persone schiavizzate, oggi il XIV emendamento garantisce il diritto a un giusto processo e a un’equa protezione: secondo i movimenti anti-scelta questa tutela riguarda anche l’embrione.

Si tratta in realtà, spiega Ziegler, di un’operazione su cui i movimenti contro l’aborto stanno lavorando da tempo, cercando di fare approvare in diversi Stati quante più leggi possibili che estendono i diritti “fin dal concepimento” per poterle poi usare davanti alla Corte Suprema e dimostrare che il XIV emendamento tutela anche gli embrioni. Secondo l’esperta, che sul riconoscimento dello stato di persona a un embrione ha scritto Personhood. The new civil war over reproduction, questa è una strada molto conveniente per le associazioni antiabortiste. 

Mentre sempre meno persone negli USA credono che l’aborto debba diventare illegale in ogni circostanza, i gruppi anti-scelta si starebbero spostando verso una strategia sempre meno democratica ma più efficace, che passa per le aule dei tribunali e le cause legali anziché i voti delle persone. L’idea è che “conti meno quello che pensano gli elettori e più quello che pensano i giudici”, per cui “non devi convincere la maggior parte degli americani che hai ragione. Devi solo convincere cinque giudici della Corte Suprema”.

Riconoscere lo stato di persona fin dal concepimento è però molto pericoloso, perché non solo può rendere definitivamente illegale l’aborto, ma rischia di mettere i diritti di quello che effettivamente è un insieme di cellule davanti a quelli delle persone in gravidanza. È ciò a cui ambiscono i cosiddetti “abolizionisti dell’aborto”, la parte più estremista dei movimenti anti-scelta. Molte associazioni antiabortiste infatti focalizzano la propria comunicazione sull’accusa e la criminalizzazione di chi garantisce l’accesso all’aborto (e dunque principalmente medici, cliniche, ospedali e staff sanitario) e descrivono le donne come manipolate e spesso forzate a fare ciò che non vogliono o non conoscono. Per gli abolizionisti dell’aborto invece, anche le donne vanno accusate: nella logica di questi attivisti l’embrione è un essere umano, perciò le donne che abortiscono sono colpevoli di omicidio. Seppure estremiste, le posizioni degli abolizionisti hanno sempre più potere e influenza: a marzo 2025 in almeno dieci Stati americani sono state avanzate proposte di legge per ridefinire l’aborto come omicidio.

Anche in Italia sono stati e continuano a essere numerosi i tentativi diretti e indiretti di riconoscere lo stato di persona fin dal concepimento. Oltre a vere e proprie proposte di legge con l’intento di riconoscere la capacità giuridica all’embrione, come quella presentata più volte dal senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, i movimenti anti-scelta hanno provato anche altre strategie, come la proposta di legge di iniziativa popolare Un cuore che batte: l’obiettivo è quello di modificare la legge 194 che consente di interrompere una gravidanza e imporre ai medici di “far vedere, tramite esami strumentali, alla donna intenzionata ad abortire, il nascituro che porta nel grembo e a farle ascoltare il battito cardiaco dello stesso”, come già succede ad esempio in Ungheria. 

Presentata a maggio 2023, questa proposta ha intanto raccolto 106mila firme, stando a quanto si dice sul sito della campagna, mentre varie testimonianze riportano che in alcuni contesti, e per iniziativa personale dello staff sanitario, sia già realtà. Intanto, la ministra alla Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella ha dichiarato in un’intervista a Rai Radio 1 che il governo starebbe lavorando a una proposta di legge per rendere adottabili gli embrioni crioconservati. 

Roccella fa riferimento agli embrioni che nei percorsi di procreazione medicalmente assistita possono essere creati in eccesso, per essere usati per eventuali tentativi futuri e ottimizzare le possibilità di successo del percorso. Questi embrioni sono conservati a bassissime temperature per essere preservati fino al momento dell’utilizzo. Non sempre però poi vi si fa ricorso: il piano del governo sarebbe allora quello di renderli “adottabili”. Riprendendo un’idea di Carlo Casini, ex presidente del gruppo antiaborto Movimento per la Vita, la ministra Roccella l’ha definita “una proposta positiva, a favore della vita”. “Non trattiamo cellule e tessuti, come qualcuno ha detto”, ha commentato Roccella, “trattiamo embrioni […] possibili bambini”, ricorrendo al linguaggio dei movimenti anti-scelta.

Andare contro la legge per metterla in discussione


Un supporto politico meno diretto ed evidente è quello che invece avrebbero i gruppi contro l’aborto nel Regno Unito: qui “la maggior parte delle persone sostiene il diritto all’aborto” per cui “è molto raro che un politico dica di essere completamente contro”, ha detto a Valigia Blu la dottoressa Pam Lowe, docente universitaria ed esperta di salute riproduttiva e sessuale. 

Coloro che lo sono aggiungono delle specifiche, “e dicono ‘siamo contro le persone che hanno tanti aborti, o contro chi ha aborti in uno stadio avanzato della gravidanza, o contro questa cosa in particolare che riguarda l’aborto’, anziché dire ‘siamo contro l’aborto, punto’”, spiega Lowe. Questo però non rallenta le azioni dei gruppi anti-scelta, come le proteste davanti alle cliniche che garantiscono l’IVG e contro le quali sono state introdotte le buffer zone

Da allora, ha detto la professoressa Lowe, “nella maggior parte dei casi”, gli antiabortisti “stanno rispettando la legge. Sebbene siano ancora presenti sulle strade” che portano alle cliniche, si fermano “al limite, il più vicino che possono. C’è un numero ridotto di persone che sta infrangendo la legge, ma sapevamo che sarebbe successo: lo abbiamo visto in Australia e in diverse parti degli Stati Uniti”. E lo fanno per una ragione precisa, che ricalca bene certe strategie già viste negli Stati Uniti: come spiega la professoressa Lowe, infatti, “infrangono la legge perché vogliono farsi arrestare e impugnare la legge in tribunale” e quindi metterne in discussione la validità. 

In tribunale ci è andata Livia Tossici-Bolt, una donna di 64 anni, che ad aprile 2025 è stata condannata a due anni, sospesi con la condizionale, e a pagare 20mila sterline per aver violato la legge delle buffer zone due anni fa. Non si tratta però di un caso locale e senza rilevanza: le spese legali di Tossici-Bolt sono state coperte dalla sede britannica della già citata organizzazione americana Alliance Defending Freedom, e la sua condanna è stata commentata da un ente interno al Dipartimento di Stato USA, il Bureau of Democracy, Human Rights, and Labor, che si è detto “amareggiato” e “preoccupato” per lo stato della libertà di espressione nel Regno Unito, aggiungendo di aver incontrato di recente Tossici-Bolt e che starebbero monitorando il suo caso. Anche il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance ha criticato l’introduzione delle buffer zone, arrivando a sostenere che in Scozia il governo avrebbe avvertito i cittadini che persino pregare nelle proprie abitazioni potrebbe essere intesa come una violenza di legge: si tratta in realtà di una notizia falsa.

Creare reti internazionali

È difficile leggere commenti come quelli di JD Vance o dell’ente statunitense come fini a se stessi, e non come parte di una strategia più ampia. E sebbene, come ha detto la professoressa Lowe, è importante ricordare che ad esempio “la maggior parte delle persone che fanno campagne contro l’aborto” nel Regno Unito “sono persone britanniche e, per quanto ne sappiamo, la maggior parte dei soldi arrivano da persone britanniche”, i legami tra i movimenti antiabortisti negli Stati Uniti, Regno Unito ed Europa si stanno rivelando sempre più profondi.

Negli ultimi anni ad esempio sono state rese note migliaia di mail scambiate tra attivisti e politici statunitensi, europei e russi in cui venivano offerti consigli e supporto per campagne locali e nazionali contro aborto e diritti LGBTQIA+. Inoltre, è emerso che l’Alliance Defending Freedom avrebbe donato circa 2,7milioni di dollari alle sue sedi europee e a quella britannica nel 2021, mentre nell’ultimo anno il gruppo britannico avrebbe speso oltre 1 milione di sterline nel Regno Unito e starebbe facendo pressione contro le buffer zone nel paese. 

Vari gruppi della destra americana cristiana avrebbero poi investito almeno 280milioni di dollari in campagne contro i diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+ a livello globale, e in particolare in Europa: tra queste c’è anche l’organizzazione conservatrice cristiana American Center for Law & Justice (ACLJ) che avrebbe finanziato la European Center for Law and Justice (ECLJ) , sua sede europea e una delle più importanti associazioni contro l’aborto in Europa. ECLJ è nota soprattutto perché, attraverso campagne politiche e nei tribunali, in particolare di fronte la Corte Europea dei Diritti Umani, interviene e offre assistenza legale contro i diritti civili e riproduttivi: in Italia, ad esempio, è intervenuta in due casi contro il riconoscimento legale delle coppie dello stesso genere.

Come ha scritto il giornalista di Politico Carlo Martuscelli, che ha tracciato i legami e i finanziamenti tra associazioni antiabortiste statunitensi ed europee, “l’opposizione all’aborto non è una novità in Europa”, ma poiché qui gli antiabortisti non sono stati “ancora in grado di replicare” quanto successo negli USA, i gruppi statunitensi avrebbero scelto di intervenire, “condividendo tattiche e risorse con i loro alleati in Europa”.

(Immagine anteprima via Flickr)

 

Fonte
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