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La disinformazione nell’era dei social media: dal consenso al tribalismo

Realtà parallele

Il libro “Invisible Rulers: The People Who Turn Lies into Reality di Renée DiResta è un'analisi approfondita su come la disinformazione e la propaganda digitale stiano ridefinendo il potere e l'influenza nella società contemporanea. La logica dietro la disinformazione ormai è chiara: “Se diventa virale, diventa vero”. Attraverso esempi concreti, come la disinformazione sui vaccini e le teorie del complotto, l'autrice mostra come la passione e l'indignazione amplificate online possano sopraffare la verità e la razionalità.

La disinformazione ormai è uno strumento di guerra ibrida, che condiziona l’opinione pubblica e il processo democratico. È in grado di plasmare l’opinione pubblica creando “realtà su misura”. Influenza il modo in cui le persone percepiscono il mondo, selezionando e diffondendo informazioni vere, distorte o false, in modo tale da costruire una narrazione che appare credibile per un pubblico specifico. Questo processo, che non è tipico dei soli media digitali, è stato però amplificato dalle tecnologie digitali.

I motivi sono ovvi. La realtà è filtrata dagli algoritmi, sui social media ognuno di noi è esposto a contenuti altrui in base a ciò con cui interagiamo. I feed personalizzati, necessari per regolare in qualche modo la quantità enorme di contenuti che fluiscono in rete, finiscono così per diventare ecosistemi informativi chiusi che rafforzano le convinzioni preesistenti e raramente mettono in discussione il nostro punto di vista. Questo meccanismo crea una realtà parallela dove la verità non è più condivisa, ma diventa frammentata.

Inoltre, chi diffonde disinformazione sa bene che l’indignazione, la paura o la sorpresa, sono molto più virali della razionalità. La realtà è complessa, e spesso spiegare un concetto richiede un numero di parole molto elevato, laddove invece un contenuto breve, urlato, scandalistico, è decisamente più semplice da capire, e quindi colpisce più facilmente l’immaginazione. La disinformazione, quindi, fa appello alle emozioni che vincono nel confronto con la razionalità, e che suscitano una risposta istintiva che spinge a condividere il contenuto senza una effettiva verifica della veridicità.

Il punto essenziale, però, sta nel ruolo dei “governanti invisibili”, coloro che agendo dietro le quinte modellano il dibattito pubblico senza assumersi apertamente la responsabilità del potere che esercitano. Influencer, gruppi Telegram, network di micro-blogging o canali YouTube, si presentano come contro-informazione, e diventano fonte primaria per milioni di persone. L’autorità, quindi, non viene più dal giornalismo istituzionale, che già da prima dell’avvento delle nuove tecnologie è investito da una crisi di fiducia, ma da chi appare “autentico”, “spontaneo”, quindi più “vero”.

Le piattaforme, i giornali e il futuro dell’informazione

Creare una realtà parallela, su misura per un determinato e specifico pubblico, non significa mentire, ma costruire contesti emotivi e informativi che rendono le bugie credibili, sfruttando l’ampio risentimento contro l’autorità e i canali tradizionali di informazione. La distinzione tra vero e falso diventa, quindi, secondaria rispetto alla coerenza e autenticità del racconto.

La disinformazione prima dei social media

La disinformazione non nasce coi social, anzi la televisione tradizionale è una forma di controllo narrativo molto più centralizzata, uno strumento verticale dove pochi parlano e molti ascoltano. Il TG che scegli ti dà una sola versione dei fatti, senza confronto né contraddittorio reale.

Sui social, invece, potenzialmente la pluralità delle voci è infinita. È difficile che un algoritmo, per quanto sofisticato possa essere, riesca a chiudere del tutto una persona di una bolla di conferma del tutto impermeabile a voci dissenzienti.

I social moltiplicano le voci, in questo senso c’è una democratizzazione della possibilità di parlare, laddove in TV erano solo i pochi “eletti”, selezionati accuratamente dagli editori, legati a doppio filo col potere, che potevano entrare nelle case dei cittadini. Ma la moltiplicazione delle voci non significa apertura mentale, e l’esposizione al dissenso non garantisce affatto un cambiamento di opinione, come anni di ricerche hanno ormai confermato. Anzi, l’incontro con opinioni contrarie può rafforzare le convinzioni preesistenti, un fenomeno ben documentato in psicologia sociale (backfire effect).

Ma questo non risolve il problema della disinformazione dei media tradizionali. Prima di tutto perché il rumore di fondo è altissimo, troppe voci parlano, alla fine sono ben poche quelle che vengono realmente ascoltate. L’attenzione è una risorsa contesa, gli algoritmi privilegiano ciò che genera coinvolgimento, non ciò che è utile o vero. Infine, l’esposizione al dissenso porta al tribalismo: chi contesta diventa automaticamente l’altro, il nemico.

La disinformazione come fenomeno sociale e l’emersione delle logiche da “branco”

Sui social le voci contrarie esistono, ben più della TV, ma spesso sono filtrate, ignorate, ridicolizzate o usate come carburante per rafforzare l’identità del proprio gruppo.

Performatività e informazione

La realtà su misura, di cui parla DiResta, non dipende solo dalle bolle di conferma, ma dal fatto che oggi l’informazione è performativa: se riesci a farla sembrare reale allora diventa reale. Una fake news condivisa da milioni di persone non è vera, ma lo diventa nei comportamenti delle persone, nelle paure, nei voti espressi nelle urne, nei consumi. La realtà creata dalla disinformazione non è, quindi, una fantasia individuale, ma uno costruzione collettiva che orienta l’intera società.

Anche Colbert parlava della “verosimiglianza emotiva” (truthiness), che prevale sulla verità fattuale. L’effetto performativo esiste anche in TV, ma si basa sul principio di autorità e legittimazione. Se il TG diceva qualcosa, era così. La realtà si costruiva su base consensuale, non perché era più vera, ma perché nessuno poteva metterla in discussione. L’esempio classico è il racconto mediatico delle guerre (es. Vietnam, Golfo), dove l’assenza di voci alternative permetteva di costruire una realtà completamente orientata da interessi politici.

La verità performativa c’era, quindi, anche prima, ma era monolitica e invisibile. Non era “disinformazione” semplicemente perché nessuno la identificava come tale, e nessuno poteva farlo perché mancava il materiale per confrontarla. Era una disinformazione per sottrazione, laddove i social hanno modificato la situazione.

Con l’avvento dei social non è cambiato il contenuto della disinformazione, ma il suo ecosistema. Adesso le verità performative sono molteplici e si pongono in concorrenza tra loro. La possibilità di crearle si è democratizzata, molte più persone possono creare una realtà personalizzata. Le persone normali, quindi, non si limitano più a riceverle (come all’epoca della TV), ma le creano essi stessi, le rilanciano, e le trasformano in identità. La logica non è più quella del consenso, ma della militanza effettiva. Ti appropri di una realtà perché ti somiglia, credi in essa perché ti ritrovi in essa. 

Identità performativa

La disinformazione non è, quindi, un prodotto dei social, esisteva anche prima, è una costante della storia dei media. La TV ha disinformato tanto quanto i social, ma in maniera diversa, in modo più silenzioso e monolitico. La gente non se ne rendeva conto. 

Il vero problema di oggi non è la disinformazione, ma il suo effetto. La disinformazione di per sé è sterile, se non si aggancia ad un’identità. Ogni bugia, ogni mezza verità, funziona solo se diventa segno di appartenenza a un gruppo, a una tribù. Le fake news non solo raccontano una realtà, ma ti dicono chi sei rispetto agli altri. E quindi diventano performative.

Epoca Strumento dominante Tipo di disinformazione Effetto performativo
Pre-social TV, giornali Verticale, legittimata dall'autorità Costruzione di una realtà condivisa e incontestata
Era dei social Social network Orizzontale, virale, emotiva Costruzione di realtà tribali e identitarie, polarizzanti

Performativo è ciò che crea una realtà, non la descrive: “Vi dichiaro marito e moglie” non descrive ma crea l’unione, non rappresenta ma agisce, trasforma la realtà.

L’identità performativa (Butler, Austin) non è un’essenza interiore, ma qualcosa che costruiamo nel fare, nel dire e nel mostrare. Butler spiega in questo modo il “genere”: non si è uomo o donna, ma lo si diventa reiterando atti, gesti, posture socialmente riconosciute come tali. L’identità, quindi, non è altro che l’effetto di una serie di atti visibili e ripetuti. Nell’ambito social l’identità è ciò che posti, ciò che condividi, ciò contro di cui ti indigni. Se condivido teorie del complotto non sto solo esprimendo un’opinione, ma sto “performando” una identità (anti-sistema). Se posto indignazione su un social sto affermando di essere un tipo di persona che combatte quella tale cosa. Ogni like, ogni commento non è mai neutro, ma partecipa alla costruzione della mia identità, dell’io pubblico e visibile.

In questo senso la maggior parte della gente non crede a una notizia falsa perché la ritiene vera, ma piuttosto perché permette di rafforzare il senso di chi è. In questo senso la pubblicazione della fake news è il carburante emotivo per l’identità performativa. Non importa se sia vera o falsa, se quella notizia è coerente col mio io, col mio vissuto emotivo e con l’identità che voglio mostrare, allora per me è una notizia vera. In questo senso la disinformazione non inganna, ma fortifica l’identità.

Ad esempio, un utente che condivide una bufala su un complotto scolastico, non lo fa solo per informare, ma anche (o forse soprattutto) per mostrarsi come genitore attento, per definire i genitori consapevoli e attenti (noi) contro quelli non attenti (loro), per ricevere riconoscimento. Analogamente una signora di una certa età che nel 2016 disse di aver votato Trump anche sapendo che quanto diceva non era vero, fece un atto performativo identitario, affermando il proprio sé, la propria appartenenza: “so che i fatti non tornano, ma non è quello il punto. Il punto è chi sono io, con chi sto, da chi mi sento rappresentata, contro chi mi oppongo”.

Tale tipo di disinformazione non può essere spenta con i fatti veri, perché è una performance identitaria, non un dibattito logico o una condivisione di mere informazioni.

Oggi la verità è sempre più secondaria rispetto alle identità, se un fatto vero mette in crisi la propria appartenenza identitaria, quel fatto viene non solo rigettato ma contrastato aspramente. Ecco perché il fenomeno sociale che si osserva oggi è la polarizzazione, che nasce dal bisogno di riconoscimento, non certo (o non solo) da ignoranza. Credere e diffondere una certa narrazione, una realtà parallela, è un modo per dire “ci sono anche io”. In questo modo la verità dei fatti viene sacrificata per la verità del sé.

Performatività tra TV e social

Non si tratta, ovviamente, di un problema esclusivo della destra, anche a sinistra si trovano identità performative altrettanto forti, che usano parole e simboli per dire: “Io sono il tipo di persona che difende i diritti”; “Io sto dalla parte della scienza”; e così via.

La performatività ha una valenza oppositiva, l’identità si afferma non in base a un contenuto positivo, ma contro altri, contro un gruppo percepito come ostile, contro un nemico: la mia verità è tanto più vera quanto più non è la vostra verità.

Come abbiamo già detto, la TV è un medium verticale e centralizzato. C’è chi parla, una élite ristretta, e chi ascolta, un pubblico passivo che può accettare il messaggio o cambiare canale, ma non può interagire né contraddire. La performance identitaria avviene attraverso modelli di identificazione. Una persona che guarda sempre lo stesso talk show può sviluppare un’identità fondata sulla familiarità e la fiducia in quel programma. La sua identità si esplica nella vita offline, al bar, in famiglia, nelle urne.

I conduttori, invece, incarnano la disinformazione performativa, insieme ai fustigatori del sistema, i comici satirici, i politici invitati. Chi guarda può riconoscersi e farsi rappresentare, ma non performare in prima persona

Disinformazione e manipolazione nell’era della TV: ieri come oggi

I social media, invece, sono dei media orizzontali e interattivi. In internet siamo tutti potenzialmente emittenti e produttori (prosumer) non solo destinatari (audience). Quindi la performance identitaria è continua, pubblica, reattiva. È un processo di esposizione, adesione, contrasto e imitazione. Ogni post, ogni like è un atto performativo che dice “io sono questo, io credo in questo, io mi indigno per questo”.

Sui social, quindi, l’identità è visibile direttamente e non è mediata dai personaggi pubblici. Il feedback immediato che riceviamo, poi, rinforza l’identità, e innesca loop performativi: più sei riconosciuto per un certo ruolo, più lo reiteri. In questo senso la bolla di conferma non riguarda tanto l’informazione quanto soprattutto l’identità performata.

TV Social
Modello comunicativo Verticale (uno-a-molti) Orizzontale (molti-a-molti)
Luogo della performance Nelle élite mediatiche Nell’utente stesso
Tipo di performance Identificazione per delega Auto-messa in scena diretta
Feedback Lento, misurato in share o sondaggi Istantaneo (like, commenti, follower)
Temporalità Eventi isolati (talk, tg) Continuo flusso di micro-atti

L’effetto più evidente è che la TV costruisce l’identità come appartenenza a un “noi” condiviso, basato su modelli dominanti. Lo spettatore tende ad adeguarsi a modelli calati dall’alto (es. il cittadino onesto contro gli immigrati irregolari). I social moltiplicano i micro-gruppi, ogni utente può aderire a infiniti “noi”, addirittura creare un “noi” a sua somiglianza. In questo senso i social favoriscono la personalizzazione in contrapposizione all’omologazione, la frammentazione e la conflittualità.

In TV sei spettatore di performance altrui, che scegli come riferimento, sui social sei tu che puoi, volendo, performare ogni giorno. Ecco perché la polarizzazione esplode sui social, non dipende dalla quantità di fake news, ma dalla personalizzazione, ognuno può creare una propria narrazione o aderire a una narrazione ad hoc. La polarizzazione è l’effetto della difesa della propria identità contro la narrazione altrui che, mettendo in discussione il proprio io, diventa qualcosa di estremamente pericoloso, che nega la mia stessa essenza. Il contrasto non è sui fatti, ma sulla persona, e quindi non può essere combattuto coi fatti.

Polarizzazione, bolle ideologiche e quei miti da sfatare sull’informazione digitale

I social hanno democratizzato l’accesso al palcoscenico, chiunque può costruire una propria realtà e diffonderla al pubblico, quindi le realtà sono molteplici e si scontrano tra loro, determinando una frammentazione della società che fatica sempre di più a trovare una realtà condivisa che consenta di costruire un futuro per la società stessa. Non è che la realtà della TV fosse più vera di quella dei social, è che vi erano meno realtà a cui aderire, quindi era più facile trovare un punto di incontro, e procedere insieme verso un obiettivo comune.

TV tradizionale Social media
Chi crea la realtà Un’élite mediatica Tutti, potenzialmente
Chi performa Pochi (in studio, davanti alle telecamere) Tutti (utenti, ogni giorno)
Chi riconosce l’identità Il pubblico generalista Una rete mirata (followers, bolle)
Tipo di realtà Normativa, omogenea, dominante Molteplice, frammentata, divergente
Tipo di performance Delegata e imitativa Diretta, continua, reattiva

Chi definisce la realtà?

Una realtà performativa non è necessariamente finta, poiché la realtà sociale è fatta di atti, dichiarazioni, posture e simboli che noi compiamo quotidianamente per renderla vera per noi e per gli altri. La differenza tra TV e social media, è che la TV costruiva una realtà da accettare passivamente, mentre i social propongono un "mercato delle verità" tra cui scegliere e da difendere.

Il potere di definire la realtà è storicamente monopolio delle élite culturali, politiche e mediatiche: giornali, accademici, istituzioni, TV generalista. Sono loro che decidono cosa è notizia, cosa è vero quali sono i problemi gravi. Il pubblico non può partecipare in alcun modo a tali scelte, al massimo si poteva spegnere la TV.

Con l’avvento dei social tale potere viene strappato alle élite e in parte democratizzato. Lo abbiamo visto con i partiti delle estremità degli archi costituzionali che si sono rifugiati nei social perché la TV generalista, per motivi di consenso, non poteva accettare i loro discorsi. Coi social, però, chiunque può smascherare le ipocrisie del discorso dominante, ma anche costruire contro-realtà, valide o tossiche che siano. Le élite si sentono minacciate da questo, e non possono facilmente bloccare una narrazione in contrasto con la loro. Ecco perché spesso la critica ai social viene mascherata come difesa della verità, quando in realtà nasconde il disagio delle élite che stanno perdendo il controllo del discorso pubblico.

Di contro tale critica non si vede nei confronti della TV, semplicemente perché essa è ancora parte del sistema di legittimazione del potere, anzi è il potere simbolico, specialmente per le generazioni più anziane. La TV non è innocua, è ancora la più potente macchina di consenso, ma è la macchina del potere, quindi non va toccata. Le manipolazioni della TV sono accettate in quanto legittimano chi tiene ancora le leve del potere.

Verità frammentata e rischio autoritario

Quando la realtà diventa un mare di voci e ciascuna può essere considerata valida quanto un’altra, la nozione di verità condivisa non esiste più. La gente è disillusa, e questo porta a una confusione ontologica che ha effetti devastanti sulla società. Il pluralismo informativo, finisce per diventare disgregante quando non c’è più una base comune minima da cui partire. Nessuno crede più a nulla, il caos impera, la gente perde fiducia nella politica e nelle istituzioni (perché sono incapaci di offrire una realtà coerente), si tende a disertare il voto, a rinunciare alla partecipazione (tanto non cambia nulla).

Quando la verità diventa fluida si crea un terreno fertile per chi promette chiarezza e certezza in cambio di potere. Nel caos germoglia il rischio autoritario. Gli autocrati sanno come strumentalizzare la confusione, fare affidamento sul disorientamento delle masse e apparire come gli unici capaci di restaurare l’ordine. Non è questione di dire la verità ma di controllare la narrazione (ad esempio, Trump che performa come vittima dei brogli elettorali di Biden senza presentare prove concrete).

Gli autocrati prosperano dividendo il mondo in buoni e cattivi, in noi e loro, creando un nemico esterno (Russia) o interno (USA). Gli autocrati non si appellano alla ragione, ma sfruttano le emozioni, la paura, l’indignazione, il risentimento, spingono le persone a prendere decisioni impulsive, evitando qualsiasi tipo di riflessione. Gli autocrati cercano di controllare l’informazione manipolando i mezzi di comunicazione, non solo la TV ma anche (oggi soprattutto) i social media, silenziando le voci dissidenti. Poi promettono stabilità, sicurezza, e si presentano come salvatori del sistema. L’appello non è per il ritorno alla verità, ma a un ordine predeterminato, sia esso vero o falso non importa.

La nostra era viene definita era della “post-verità”, ma in realtà non si tratta di una crisi della verità quanto piuttosto di una crisi dell’io. La frammentazione dell’identità determina una spaccatura della società, le persone sembrano vivere in mondi del tutto separati. Non è uno scontro di fatti od opinioni, quanto una rottura delle comunicazioni interpersonali e della coesione sociale. Ogni individuo ha una versione performativa di sé, come monadi che si scontrano e si isolano. Manca la sintesi dei punti di vista che possa portare a un arricchimento del dibattito pubblico.

Il problema dei social non è tanto la disinformazione, ma la frammentazione della società, l’ingessatura del dibattito, la polarizzazione e in estrema sintesi la solitudine sociale. I gruppi, sempre più piccoli e omogenei al loro interno, non si incontrano più.

I social media hanno reinventato la natura della socialità, e hanno avuto un ruolo di coesione globale creando opportunità di connessione tra persone che altrimenti non si sarebbero mai incontrate. Hanno dato spazio e discussioni interculturali, permettendo di scoprire che i nostri problemi non sono unici e che esistono soluzioni che altri hanno già sperimentato. Questa dimensione inclusiva e globale ha offerto alle persone un senso di solidarietà, riducendo l’isolamento di categorie discriminate o di persone fragili. Ma progressivamente la regolamentazione dei social (come del resto accadde per le TV) non è stata in grado di mantenere i vantaggi della tecnologia, favorendo la chiusura delle piattaforme, la creazione di monopoli e quindi la trasformazione in strumenti di potere concentrato nelle mani di pochi grandi attori. L'idea era, forse, di mantenere un controllo sul discorso pubblico. Ma il monopolio ha portato alla centralizzazione della distribuzione delle informazioni che ha reso le piattaforme vulnerabili a interferenze politiche e autoritarie. Quando le piattaforme sono costrette a piegarsi alle richieste di governi autoritari, questo ha un impatto devastante sulla libertà di espressione e sulla democrazia digitale.

La proprietà concentrata e la regolamentazione inadeguata, ha finito per amplificare le narrazioni dominanti marginalizzando quelle alternative, specialmente in contesti politici instabili.

Ad esempio sia X che Fox News sono dei “creatori di realtà”, la differenza sta nella modalità di controllo e distribuzione delle informazioni. Su Fox il controllo è centrale e gerarchico, le voci sono accuratamente filtrate secondo una visione editoriale. L’editore ha un potere diretto sul contenuto, ma anche una responsabilità chiara. Su X la distribuzione delle informazioni è orizzontale, ma il ruolo degli algoritmi crea un monopolio occulto che può fungere da filtro editoriale senza innescare una responsabilità trasparente. Questo rende i nuovi social media potenti editori invisibili che modellano la realtà attraverso scelte che possono comunque essere motivate da interessi politici ed economici.

La TV polarizza più di Internet?

Su tale quadro si innesta una novità, se il proprietario del social entra direttamente nella gestione dei contenuti, diffonde disinformazione o addirittura ostacola utenti che non condividono le sue opinioni. Non è una banale questione di contenuti abusivi o disinformazione, ma di influenza politica e sociale. La responsabilità editoriale classica non appare sufficiente a fronteggiare questa realtà. I proprietari delle piattaforme possono, infatti, manipolare la visibilità dei contenuti in modo opaco e strategico, con effetti più dirompenti rispetto alla selezione editoriale.

Esistono alcune norme europee che cercano di affrontare tali problematiche. Come il Digital Market Act che si concentra sulla competizione e cerca di impedire comportamenti monopolistici, e impone regole che impediscano alle piattaforme di imporre condizioni sleali a utenti o altri operatori.

Il Digital Service Act, invece, si focalizza sulla sicurezza e responsabilità dei contenuti, regolamentando più che i contenuti il processo di selezione degli stessi, imponendo maggiore trasparenza sui meccanismi di moderazione e sulle politiche editoriali delle piattaforme.

Tali normative hanno però dei limiti, non solo la difficoltà di applicare regolamenti europei in maniera efficace a piattaforme globali, ma anche la difficoltà di regolamentare la manipolazione dei contenuti da parte del proprietario della piattaforma, il quale può influenzare in maniera molto profonda il flusso delle informazioni. Una semplice responsabilità editoriale non appare più sufficiente.

Immagine in anteprima: prompt Chatgpt; image: Night cafè AI

4 giorni 16 ore ago