“Noi abbiamo istruito il mondo”. O forse no?
“Atene e Roma sono stati il motore della diffusione della cultura”.
“Insieme alla Grecia abbiamo istruito il mondo”.
“Ancora oggi, in tutte le facoltà di Giurisprudenza del mondo, si studia il diritto romano”.
Così mi scriveva qualche giorno fa una conoscente, durante una discussione in chat.
Frasi come queste, ripetute nei libri scolastici e nei talk show, rivelano un problema profondo: la visione del mondo tipica dell’Occidente è ristretta, autoreferenziale. In particolare, quella italiana è spesso prigioniera di un’educazione scolastica romanocentrica, poco curiosa e scarsamente critica.
Una forma di “terrapiattismo culturale”.
Un mito suprematista bianco che alimenta il razzismo
L’idea che “noi (romani, italiani, occidentali) abbiamo istruito il mondo” è un’invenzione. Una costruzione culturale nata nel Rinascimento, rafforzata durante il colonialismo europeo per giustificare una presunta superiorità dell’Occidente. Ma oggi, la storiografia moderna e gli studi comparati ridimensionano — se non smontano del tutto — questo mito.
Eppure, molti faticano ad accettare punti di vista alternativi. Ci sentiamo ancora “superiori”, come se fossimo i veri e unici portatori di civiltà. Questo senso di superiorità — un vero e proprio suprematismo bianco, cristiano, occidentale — è, secondo me, alla radice di molti fenomeni razzisti contemporanei.
Le origini dell’umanità? Africane, ce lo dice Lucy.
Chi sa che nel nostro DNA scorre sangue africano?
Chi studia davvero il fatto che l’essere umano moderno è nato in Africa, e da lì ha colonizzato il pianeta?
L’Homo sapiens è comparso in Africa orientale circa 300.000 anni fa, tra le attuali Etiopia, Kenya e Tanzania.
La famosa Lucy, un Australopithecus afarensis ritrovato in Etiopia, risale a 3,2 milioni di anni fa. Altri resti importanti sono stati rinvenuti a Omo Kibish e Herto, sempre in Etiopia, e a Jebel Irhoud in Marocco.
La scienza è chiara: la culla dell’umanità è l’Africa, non Roma né Atene.
E per quanto riguarda la civiltà?
Non una ma ben sette le “culle della civiltà“
No, Roma non è nemmeno la culla della civiltà. Gli studiosi definiscono la “civiltà” sulla base di elementi come: scrittura, città stabili, governo centralizzato, divisione del lavoro, religione organizzata, monumenti.
E secondo questi criteri, le civiltà sono nate in modo indipendente in più parti del mondo, senza contatti iniziali tra loro.
Oltre alla Mesopotamia (con Sumeri, Accadi, Babilonesi e Assiri), civiltà complesse sono sorte:
- in Egitto, lungo il Nilo
- nella Valle dell’Indo, tra Pakistan e India
- in Cina, lungo il Fiume Giallo
- in Mesoamerica, con Olmechi, Maya e Aztechi
- nelle Ande, con la civiltà di Caral (o Norte Chico), in Perù.
Questa ultima, in particolare, mostra caratteristiche straordinarie: una società priva di armi e eserciti, completamente pacifica.
Tutte queste civiltà meritano pari dignità storica e studio.
Parlare di una sola “culla” è semplicistico, etnocentrico e, spesso, falso.
Gesù e Maria non erano bianchi
E se davvero vogliamo parlare di superiorità cristiana e occidentale, occorre fare un passo indietro. Gesù e Maria erano palestinesi, non bianchi né biondi.
Secondo studi di archeoantropologia (si vedano, ad esempio, i lavori dell’anatomopatologo Richard Neave dell’Università di Manchester), l’aspetto più probabile di un uomo giudeo del I secolo era pelle scura, capelli ricci e occhi scuri (vedi l’immagine sotto elaborata dall’AI).
Nulla a che vedere con l’iconografia europea, che ha trasformato il Cristo in un uomo nordico, bianco, biondo e con gli occhi azzurri.
Un’operazione culturale e simbolica, usata nei secoli per sostenere una falsa idea di purezza e superiorità razziale.

La Carta di Manden: Anche i diritti non sono solo occidentali
Un altro mito duro a morire è quello secondo cui la civiltà dei diritti sia un’invenzione europea.
E invece no.
Nel Mali del XIII secolo, l’imperatore Sundjata Keita promulgò la Carta di Manden, riconosciuta dall’Unesco nel 2009 come Patrimonio immateriale dell’Umanità.
Secondo molti studiosi, è una delle più antiche costituzioni della storia. E forse la prima a esprimere concetti che oggi chiamiamo “diritti umani”.
Si tratta di editti espressione della cultura mandinga, “di una profonda cultura civile – scrive l’avvocato Conti – che anticipa di secoli la moderna sensibilità verso i diritti umani, una rivelazione storica di un’Africa “nera” tutt’altro che selvaggia, come invece la descrivono i vincitori-colonizzatori nei loro racconti”.
Secondo l’organizzazione sistematica dell’antica tradizione orale, avvenuta corso di un seminario svoltosi a Kankan in Guinea nel 1998, tra gli editti, si stabilisce:
- “Mai offendere le donne, nostre madri”
- “Mai fare torto agli stranieri”
- “Aiutare chi ha bisogno”
- “L’educazione dei bambini è compito della società”
Altro che Magna Carta. Quella inglese, del 1215, era un accordo fiscale tra il re e i suoi nobili.
La Carta di Manden, invece, era un documento etico e politico di ispirazione comunitaria e solidaristica, ben più avanzata in termini sociali.
Lo racconta con chiarezza il libro La Carta di Manden [1] dell’avvocato fiorentino Massimo Conti, che narra brevemente anche la storia dei regni mandinghi, del leggendario imperatore Mansa Musa e di Timbuktu, città straordinaria, con circa 700 mila manoscritti arabo-islamici africani nelle sue biblioteche, oggi quasi del tutto dispersi o cancellati.
Una ricchezza culturale dimenticata, sepolta come sotto una tempesta di sabbia, distrutta dai colonialisti europei.
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Fonti e Note:
[1] La carta di Manden, Massimo Conti, Nardini Editore. Libro presentato dal 2021 a Firenze.