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Il vero volto del vodu

Spesso frainteso e ridotto a bamboline e magie oscure, il vodu è in realtà un antico culto africano dalle profonde radici spirituali. Nato nel sud del Benin, si fonda su un patto tra uomo e divinità, scandito dal ritmo dei tamburi e dalla danza. Un viaggio tra possessioni rituali, simboli sacri e memorie dell’Africa più profonda.

A sentirla pronunciare la parola vodu, spesso vengono strani pensieri. È una parola che immediatamente evoca, alla mente dei più, bamboline e statuette dove conficcare dei lunghi spilloni per colpire, dolorosamente, anche a distanza, una persona odiata. Ma al di là di questa falsa immagine, che troppi film hollywoodiani dell’orrore hanno contribuito ad alimentare, quale significato nasconde questo culto?

Il termine deriva dalla lingua fon, parlata nel sud del Benin, e significava «genio», «spirito protettore». Dalle coste del Golfo di Guinea questo antico culto ha poi attraversato l’oceano sulle navi negriere per approdare sulle coste haitiane dove ha conosciuto uno splendore forse maggiore di quello riconosciutogli in patria. Pur assorbendo influenze locali ed esterne, che hanno provocato alcune trasformazioni, il vodu ha mantenuto le sue caratteristiche originali e le sue radici affondano ancora oggi nel fertile terreno della tradizione culturale africana.

Rito di possessione per eccellenza il vodu è spesso stato spacciato come fenomeno di estasi collettiva, ma studi più recenti hanno conferito a questo culto la dignità di religione poiché si è riconosciuto in esso una serie di elementi che ne confermano il valore teologico.

Nelle società africane non ancora colonizzate le confraternite vodu avevano un ruolo importante per la conservazione del potere locale. Esse agivano, infatti, come istituzioni assai strutturate ed inserite nella realtà politica e contribuivano a legittimare il potere delle chefferies locali. Gli adepti al culto sono consacrati a una divinità e la servono attraverso le istituzioni. I soggetti non scelgono di essere posseduti: sono scelti.

Dietro all’aspetto più spettacolare del vodu, quello che si manifesta durante le feste e le cerimonie di iniziazione, si cela infatti un solido patto tra l’uomo e gli dèi, un patto basato su di un reciproco scambio: l’uomo offre preghiere e doni al dio, il quale manifesta la sua presenza e la sua protezione al fedele. Ma è stato proprio l’aspetto cerimoniale a rendere celebre il vodu e ad attirare la curiosità di tanti studiosi.

Alla base è il ritmo, il ritmo ossessivo dei tamburi che accompagnano le cerimonie. Ogni particolare battito è il nome di uno spirito, è il segno che la sua presenza è vicina e ogni partecipante deve abbandonarsi al ritmo dello spirito da cui verrà posseduto. Alla radice di questa estasi una concezione locale del ritmo, percepito in funzione del movimento che esso suscita. La danza diventa quindi la via per raggiungere quello stato di quieta estasi che rappresenta l’arrivo dello spirito. Il loa, lo spirito, può arrivare sotto diverse forme: può essere Agwé, il signore dei mari simboleggiato da un pesce, oppure Ogun, dio del ferro e del fuoco o Damballà, il dio serpente della fecondità.

Chi è posseduto da uno di questi spiriti assume degli atteggiamenti che ne ripropongono i caratteri ora dolci ora violenti a seconda del loa dominante. Il rapporto che si stabilisce tra il loa ed il posseduto è stato paragonato a quello tra il cavaliere ed il suo cavallo. Si dice infatti che il loa cavalca il posseduto.

Nella possessione da parte dei loa si ritrovano le tre tipiche fasi dei riti di passaggio: la separazione dallo stato originale, rappresentata dalla transe, lo stato di transizione che si esprime nelle scene rituali durante le quali i posseduti recitano in uno stato di semi-incoscienza, infine la fase di riaggregazione, segnata dall’uscita dalla transe. Nella prima fase il posseduto manifesta la sua crisi in maniera assai appariscente con gesti forsennati, urla mentre il suo corpo viene attraversato da tremiti violenti. Una volta che il loa «ha montato il suo cavallo» il posseduto si adegua al comportamento tipico del suo loa: assumerà atteggiamenti feroci, oppure dolci, simulerà le movenze dello spirito che è entrato in lui. Nell’ultima fase il soggetto esce dalla transe e una forte sensazione di stanchezza si impadronisce di lui, facendolo cadere in un sonno profondo.

Al risveglio l’adepto farà parte della confraternita e parteciperà alla vita comunitaria, cosa che spesso, ricreando una nuova forma di socialità, contribuisce a rendere più soddisfacenti le condizioni dell’individuo.

Mi raccontavano alcuni amici del Benin, che negli ultimi anni membri di alcune delle numerosissime sette religiose, che stanno proliferando in Africa girano per i villaggi acquistando, a prezzi elevatissimi, oggetti e statuette rituali utilizzati per i culti vodu. Il loro scopo è distruggerli. I sacerdoti spesso le vendono e poi continuano pacificamente a praticare i loro riti con altri oggetti più o meno nuovi, talvolta diversi da quello precedente. Il delirio iconoclasta di queste sette, al di là del ridicolo, paradossalmente ha individuato negli oggetti il male da estirpare. È, infatti, la materialità più bruta a costituire l’oggetto del culto, dando vita a un complesso rapporto che intercorre tra la divinità e la sua rappresentazione materiale.

 

Africa Rivista

Fonte
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