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Il caso Alberto Trentini: come l’arresto del cooperante italiano si inserisce nel sistema di potere del regime di Maduro

di Stefano Vergine*

Il motivo dell'arresto di Alberto Trentini è da ricercare nel rapporto tra l'Italia e Rafael Ramirez, uno dei principali oppositori di Nicolas Maduro. È questo ciò che è riuscito a ricostruire Domani incrociando fonti vicine a Palazzo Chigi con altre legate all’opposizione venezuelana. Per capire cosa lega Trentini a Ramirez, bisogna partire da quanto successo due mesi prima dell’arresto del cooperante italiano a Caracas.

È la metà di settembre del 2024 quando il Tribunale di Roma accoglie le richieste della Procura capitolina e archivia tutte le accuse nei confronti di Rafael Daroo Ramirez Carreño. L'oppositore più temuto da Maduro, delfino di Hugo Chavez e custode di innumerevoli segreti del regime socialista, era indagato dalla giustizia italiana per le ipotesi di peculato e riciclaggio. Reati che avrebbe commesso quando ricopriva la carica di numero uno di Pdvsa, di gran lunga la più importante azienda pubblica del paese data l’importanza del greggio per il Venezuela.

L’archiviazione disposta dai giudici romani è un duro colpo per il regime di Maduro. Rappresenta l’ultima vittoria giudiziaria di Ramirez, che già aveva ottenuto dall’Italia lo status di rifugiato. Circa due mesi dopo l'archiviazione, il 15 novembre del 2024, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico succede però qualcosa che apparentemente non ha nulla a che fare con la decisione presa dai giudici romani: Trentini, arrivato da poco in Venezuela, viene arrestato.

Il delfino di Chavez

Sono passati ormai oltre 300 giorni da quel momento e il cooperante italiano è ancora in carcere, avendo potuto parlare con la sua famiglia solo pochissime volte. Ma chi è davvero Ramirez? E perché è considerato così importante da Maduro? Ingegnere meccanico, classe 1964, oggi si definisce «militante rivoluzionario, chavista e bolivariano». A differenza di Juan Guaido, oppositore del regime appoggiato dagli Stati Uniti, lui è il nemico interno per Maduro, l’avversario socialista per certi aspetti il più temibile.

Oggi Ramirez ha un sito internet, un profilo twitter, scrive articoli pubblicati in varie nazioni (in Italia collabora con l’Istituto Affari Internazionali). Il suo curriculum spiega da sé i motivi per cui Maduro lo teme. Ramirez è stato infatti uno dei più longevi ministri dei governi guidati da Chavez. Ha guidato il dicastero dell’Energia e del petrolio dal 2002 al 2013, ricoprendo per quasi tutto quel periodo la carica di presidente e amministratore delegato di Pdvsa. In seguito è stato per un breve periodo ministro degli Esteri e, fino al novembre del 2017, rappresentante permanente del Venezuela presso le Nazioni Unite, a New York.

Poi, su richiesta di Maduro, intanto subentrato a Chavez, si è dimesso dall’incarico diplomatico. Da quel momento non è più tornato in patria ed è diventato uno dei più feroci critici del madurismo: ha accusato il presidente di voler tradire l’eredità della rivoluzione bolivariana, ha criticato la sua gestione economica del paese, aveva anche espresso l’intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2024 contro di lui (obiettivo infine abbandonato).

Da almeno cinque anni Ramirez vive in Italia insieme alla sua famiglia, ed è infatti da noi che il regime di Maduro è venuto a cercarlo. Nell’ottobre del 2020 il governo venezuelano ha richiesto formalmente a Roma la sua estradizione, accusandolo di alcuni reati tra cui peculato e riciclaggio. La richiesta di valutare l’estradizione è stata accettata dall’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ed è proseguita come da prassi per via giudiziaria. Nel luglio del 2021 la Procura generale presso la corte d’appello della capitale ha dato l’ok all’estradizione.

Nel frattempo, però, in tempi rapidissimi l’ex numero uno di Pdvsa è riuscito ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Commissione prefettizia di Roma, che fa capo al ministero degli Interni. Così, il 14 settembre del 2021, la Corte di Appello ha rigettato l’estradizione per motivi umanitari e pochi mesi dopo è arrivata la conferma definitiva: nel gennaio del 2022 la Cassazione ha infatti ribadito che Ramirez non può essere consegnato a Caracas perché, al di là delle accuse nei suoi confronti, gode della protezione internazionale.

Tempistiche sospette

A questo punto restava in piedi solo la possibilità che fosse la magistratura italiana ad indagare su di lui ed eventualmente condannarlo (senza però estradarlo a Caracas), ma anche questo desiderio di Caracas non è stato esaudito. Ramirez era infatti accusato di vari reati che – secondo la tesi del governo venezuelano – avrebbe commesso quando era ministro dell’Energia e presidente della Pdvsa.

Semplificando al massimo, nel 2010 il delfino di Chavez avrebbe favorito il gruppo saudita Petrosaudi sprecando così un sacco di denaro pubblico, circa 4,8 miliardi di dollari (da qui le accuse di peculato). Inoltre, dopo aver rotto i rapporti con il regime di Maduro ed essere fuggito all’estero, Ramirez sarebbe anche riuscito a far uscire dal paese, attraverso una rete di società offshore, denaro ottenuto illegalmente quando era alla guida dell’azienda pubblica di Caracas (da qui l’accusa di riciclaggio).

Nel maggio del 2024 la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione. I legali del governo venezuelano, che avevano presentato la denuncia, si sono opposti. A settembre di quest’anno sono stati però costretti ad arrendersi: il tribunale di Roma ha infatti accolto le richieste della procura e messo la parola fine alla vicenda giudiziaria. L’Italia non processerà l’oppositore di Maduro né, di conseguenza, lo metterà in carcere: è questo il messaggio politico ricevuto a Caracas.

Anche perché, parallelamente al procedimento penale, le autorità venezuelane hanno continuato a chiederne l’estradizione al ministero della Giustizia, ma da quando appreso da Domani il ministro Carlo Nordio non avrebbe finora mai preso in considerazione la richiesta. La risposta di Caracas è arrivata nemmeno due mesi dopo l’archiviazione del procedimento penale contro Ramirez: Trentini è stato arrestato.

Lo sforzo italiano

Quarantasei anni, veneziano, il cooperante era giunto in Venezuela nell’ottobre scorso per conto della ong Humanity & Inclusion, che si occupa di persone con disabilità. È stato incarcerato il 15 novembre, tre settimane dopo il suo arrivo, mentre si recava in missione da Caracas a Guasdalito: fermato a un posto di blocco, è stato rinchiuso nel carcere di El Rodeo e da allora ha potuto contattare i familiari pochissime volte.

Giovedì è arrivata la terza telefonata di Trentini a casa in quasi 11 mesi. Nei giorni scorsi la premier Giorgia Meloni ha fatto sapere di aver avuto una conversazione telefonica con Armanda Colusso, la madre di Trentini, e di averle assicurato che il governo vuole percorrere «tutte le strade praticabili» per ottenere la liberazione del cooperante.

«Il presidente Meloni – si legge in una nota di palazzo Chigi - ha rinnovato la propria personale vicinanza e quella del governo alla famiglia dell’operatore umanitario italiano, che ha potuto ricevere una visita del Capo missione italiano a Caracas lo scorso 23 settembre». Difficile però capire in che modo la premier e i suoi collaboratori possano riuscire a risolvere la faccenda.

Quest’estate la Farnesina aveva provato a sbloccare l’impasse nominando come inviato speciale per i detenuti italiani in Venezuela Luigi Vignali, diplomatico di lungo corso, già consigliere per le relazioni internazionali di Finmeccanica (oggi Leonardo), negli ultimi otto anni direttore generale per gli Italiani all’estero.

Come avevamo scritto ad agosto, la nomina di Vignali era stata pensata dal governo per provare ad aprire un nuovo canale di dialogo con Caracas, visto che fino ad allora la responsabilità del dossier era stata in mano al ministro Antonio Tajani, i cui rapporti con il regime socialista di Maduro non avevano permesso di produrre alcun risultato soddisfacente. Anche la carta Vignali, però, finora non si è finora rivelata risolutiva: ad agosto il diplomatico si è infatti recato in Venezuela, ma è stato respinto dalle autorità locali.

La carta Eni e il riconoscimento di Maduro

Una delle idee di Palazzo Chigi era quella di provare ad ottenere il rilascio di Trentini puntando sui circa 2 miliardi di euro di crediti che l’Eni vanta nei confronti Caracas. Al 31 dicembre 2024, la partecipata pubblica italiana ha infatti dichiarato un’esposizione creditizia nei confronti di Pdvsa (azienda guidata fino al 2012 da Ramirez) pari a «circa 2,1 miliardi di euro». La montagna di crediti deriva dal gas che Eni, insieme alla spagnola Repsol, estrae dal giacimento venezuelano chiamato Perla e utilizza per fornire elettricità alla popolazione locale.

L’idea era quella di sacrificare i crediti vantati da Eni, o almeno una parte di essi, per ottenere la liberazione di Trentini. Secondo quanto appreso da Domani, questa strada non è stata finora considerata praticabile dal regime di Maduro, perché l’interesse del Venezuela resta sul rimpatrio di Ramirez. Ma la richiesta di estradizione è teoricamente impossibile da soddisfare visto che la Commissione prefettizia italiana gli ha già riconosciuto lo status di rifugiato.

L’arresto di Trentini s’inserisce nella cosiddetta “diplomazia degli ostaggi” portata avanti da Caracas: arrestare cittadini stranieri innocenti per ottenere dei vantaggi, in questo caso la testa dell’oppositore Ramirez. È la stessa tattica utilizzata con successo dall’Iran nel caso della giornalista Cecilia Sala, liberata a pochi giorni di distanza dal rilascio dell’ingegnere Mohamed Abedini Najafabadi. In quel caso Meloni aveva dovuto ottenere il via libera di Trump (Abedini era ricercato dagli Stati Uniti), mentre qui la situazione è diversa.

La premier stavolta non deve chiedere il beneplacito del grande alleato americano, ma è costretta a sbrogliare una matassa forse ancora più complicata. Perché Ramirez è già stato dichiarato rifugiato politico dalla giustizia italiana e, inoltre, le accuse nei suoi confronti sono state archiviate. Da una parte c’è dunque un uomo che rischia la vita se dovesse tornare in Venezuela, a cui il regime ha già inflitto parecchia sofferenza arrestandone nel settembre del 2022 il fratello, Fidel, che dovrebbe essere ancora oggi rinchiuso nello stesso carcere in cui si trova Trentini.

Dall’altra parte c'è lui, il cooperante italiano ritrovatosi inconsapevole vittima di questa guerra intestina, di cui è difficile prevedere l’esito finale. Resta in teoria un’altra carta negoziale che l’Italia potrebbe tentare di giocare: riconoscere il governo venezuelano come legittimo. Vorrebbe dire contraddire quanto dichiarato lo scorso 10 gennaio, dopo l’insediamento di Maduro per il suo terzo mandato. Ma significherebbe soprattutto prendere un’altra strada rispetto a Washington. Un’ipotesi che appare particolarmente lontana per Giorgia Meloni, adesso che la tensione tra il Venezuela e gli Stati Uniti è tornata ai massimi storici.

*Articolo originale su Domani, pubblicato su Valigia Blu per gentile concessione del direttore Emiliano Fittipaldi

Immagine in anteprima: frame video La7 via YouTube

Fonte
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