
Nell’epoca della connessione globale e dell’informazione continua, ci troviamo davanti a un fenomeno tanto silenzioso quanto pervasivo: il conformismo digitale. Una forma di omologazione che non nasce più da imposizioni esterne o da manipolazioni dirette, ma da una adesione volontaria ai modelli dominanti proposti dalle grandi piattaforme tecnologiche.
Un tempo la conformità era dettata da regole sociali, culturali o religiose; oggi è sostenuta da algoritmi e interfacce. Nessuno ci obbliga formalmente a usare un determinato sistema operativo, a comunicare solo con WhatsApp o a cercare notizie solo su Facebook, eppure la maggior parte delle persone lo fa. Perché? Perché non essere dove sono tutti gli altri significa scomparire.
La dipendenza dalle piattaforme non è solo tecnologica, ma psicologica: partecipare ai gruppi, ricevere messaggi, vedere “cosa fanno gli altri” diventa parte integrante dell’identità digitale. Il risultato è un consenso implicito costruito sul bisogno di appartenenza.
L’illusione della scelta
Ogni giorno crediamo di scegliere liberamente le nostre app, i servizi, le modalità di comunicazione. In realtà, queste scelte sono guidate da ecosistemi chiusi, progettati per renderci comodo ciò che conviene alle piattaforme.
«La libertà di scelta è reale solo se esiste la possibilità di dire di no.»
— adattato da Erich Fromm
È più facile usare ciò che tutti usano, anche se esistono alternative migliori, etiche e rispettose della privacy. Ma la comodità è spesso il prezzo della libertà. Le Big Tech hanno imparato a sfruttare la pigrizia cognitiva degli utenti: non c’è bisogno di imporre nulla, basta rendere tutto “facile”.
Siamo sommersi da dati, articoli, tutorial, documenti. Eppure, anche in presenza di informazione corretta e accessibile, il cambiamento non avviene. Perché?
L’informazione, da sola, non genera consapevolezza: serve un contesto che stimoli il dubbio, il confronto, la riflessione. Ma i social network non sono progettati per questo: premiano la velocità, non la profondità; l’emozione, non il pensiero critico. Di conseguenza, la maggior parte delle persone finisce per ripetere ciò che vede, senza elaborarlo.
Nell’universo dei “mi piace” e dei follower, la costruzione dell’identità passa attraverso la visibilità. Essere diversi o proporre alternative significa spesso perdere riconoscimento, essere invisibili. Così si crea un paradosso: una rete nata per favorire la libertà espressiva finisce per produrre un conformismo più forte di quello pre-digitale.
La standardizzazione dei comportamenti digitali — nei modi di comunicare, di pensare, perfino di indignarsi — diventa la nuova forma di controllo sociale. Non imposta dall’alto, ma interiorizzata. È una schiavitù dolce, una gabbia dorata in cui molti entrano spontaneamente.
La resistenza possibile
Spezzare questa catena non è facile, ma è possibile. Serve una nuova educazione digitale: non solo “saper usare” la tecnologia, ma comprenderne il funzionamento e il potere.
Scegliere software libero, piattaforme decentralizzate e protocolli aperti non è una questione tecnica: è un atto politico e culturale. Significa riprendersi il controllo dei propri strumenti, delle proprie relazioni, del proprio pensiero.
La libertà digitale non è comoda, ma è l’unica che valga davvero la pena di esercitare.
Il tema del conformismo digitale è stato affrontato da diversi filosofi e studiosi contemporanei:
Byung-Chul Han — in Psicopolitica (Nottetempo, 2016) analizza come la società della trasparenza e della connessione trasformi il controllo in auto-sorveglianza e l’individuo in imprenditore di sé stesso.
Shoshana Zuboff — in Il capitalismo della sorveglianza (LUISS, 2019) spiega come i dati personali siano diventati la principale risorsa economica delle grandi piattaforme digitali.
Richard Stallman — fondatore del movimento del software libero, richiama da decenni l’attenzione sulla libertà dell’utente e sulla necessità di mantenere il controllo del proprio software.
Jaron Lanier — con Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (Il Saggiatore, 2018) denuncia la perdita di empatia e di libertà personale causata dai meccanismi di dipendenza delle piattaforme.
Tutti questi autori, pur da prospettive diverse, arrivano alla stessa conclusione: la tecnologia non è neutrale. Spetta a noi, come individui e come comunità, restituirle un senso umano e liberante.
Promuovere la consapevolezza digitale significa anche costruire comunità che condividono conoscenza e strumenti. Realtà come Hop Frog ::: libera associazione nascono proprio per questo: per restituire alla società il diritto alla libertà, anche - e soprattutto - digitale.