Con l’avvicinarsi del quarto anniversario dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la Russia di questi tempi di guerra appare un paese assai diverso da quando, il 24 febbraio 2022, colonne di automezzi e cingolati marciavano sulle città ucraine e i corpi speciali prendevano d’assalto l’aeroporto militare di Hostomel, alle porte di Kiev, paventando una facile riaffermazione del proprio dominio in Europa orientale. Non è nemmeno, però, al collasso, come pure in alcuni momenti tra l’autunno del 2022 e l’estate del 2023 – grossomodo delimitati tra il ritiro delle truppe da Kherson e dalla regione di Kharkiv e la ribellione della Wagner guidata da Evgeny Prigozhin – sembrava potesse esser prossimo un tracollo repentino e spettacolare.
La mutazione appare forse impercettibile da osservare a Mosca, dove nuove stazioni dell’immensa metropolitana continuano a essere inaugurate seppur con ritardi minimi, ma nelle regioni da dove son partiti il grosso degli arruolati niente appare più simile all’inverno del 2021-22; la società russa appare come un mosaico assai complicato, dove vi è chi ci ha guadagnato dalla guerra e chi invece è dovuto andar via o si trova in galera, mentre tanti, troppi, tacciono, per timore, convenienza, impossibilità, mentre la repressione si intensifica a livelli ancor più pressanti: solo qualche giorno fa una giovane studentessa diciottenne del Conservatorio Rimskij-Korsakov di San Pietroburgo, Diana Loginova, voce del gruppo Stoptime è stata arrestata assieme al chitarrista Aleksandr Orlov e al batterista Vladislav Leontyev, per aver osato suonare negli ultimi mesi nel centro cittadino, sulla prospettiva Nevskij, le canzoni di quegli inoagenty (agenti stranieri), vietati dalle autorità russe, attirando centinaia di giovani.
Le parole del comunicato emesso dal tribunale suonano fredde nel farraginoso burocratese da verbale di polizia, ma adombrano una punizione ben più severa dei tredici giorni di detenzione a cui son stati condannati i giovani musicisti, un’altra storia esemplare di cosa vuol dire provare ad opporsi – anche semplicemente suonando una canzone dichiarata illegale – al regime di Vladimir Putin. Le immagini di Naoko (il nome d’arte di Diana Loginova), esile, sorridente, condotta in manette in aula mentre alza le mani per far un cuore, sono parte della storia di una generazione nata e cresciuta sotto il dominio incontrastato del Cremlino, appena uscita dall’adolescenza in un paese in guerra, che prova a cercar delle risposte tra libri ritirati dal commercio o amputati di parole ed espressioni ritenute non conformi, musiche esiliate, canali Telegram proibiti, sempre sotto gli occhi del controllo incessante dei servizi di sicurezza.
La guerra è diventata la grande scuola della Russia contemporanea, dove però l’insegnamento è al negativo, caratterizzato dalla necessità di sopravvivere, per ragioni diverse. L’esercito apprende sul campo come condurre logoranti e dispendiosi combattimenti; l’economia, caratterizzata da una crescita stimolata dal complesso militar-industriale, si trova a far fronte a crisi di liquidità e del consumo; la politica, già monca della possibilità di poter esprimere una reale alternativa, è al servizio dell’Amministrazione presidenziale, e le inchieste che coinvolgono governatori, funzionari, ufficiali delle forze armate accusati (spesso a ragione) di corruzione ormai sono decine. Riuscire a adattarsi senza cambiare, a provare a costruire e agire la propria efficienza – militare e amministrativa – all’interno della corruzione imperante, appaiono dilemmi di complessa soluzione, perché rischiano di poter essere parzialmente oltrepassati nel breve periodo, ma di porre le basi per disastri ben più gravi più in là nel tempo; dietro la cortina dei successi al fronte e della tenuta dei conti pubblici, si avverte la forza corrosiva della crisi.
Cosa accade nell’esercito?
Nel fornire una descrizione della vita al fronte per migliaia di soldati russi continua a esser tremendamente attuale quanto avvenuto nel settembre del 2024, quando due piloti di droni, Dmitry “Goodwin” Lysakovsky e Sergei “Ernest” Gritsai, vennero costretti a partecipare a una missione suicida, uno degli assalti da cui difficilmente si torna vivi, per aver denunciato la corruzione del loro comandante, il colonnello Igor Puzik, accusato anche di traffico di droga e di appropriazione indebita degli aiuti raccolti dai volontari per l’esercito.
I due piloti, molto popolari, nel loro ultimo video pubblicato su Telegram e circolato tra i vari canali dei voenkory, i corrispondenti di guerra d’orientamento nazionalista, salutavano per l’ultima volta i lettori e le famiglie ricostruendo le accuse alla cerchia di Puzik, diventato un simbolo dell’arbitrio dei comandanti: da allora il termine “puzikovščina” è divenuto sinonimo di un sistema in cui la corruzione dei superiori vale più della vita dei subordinati, in una riproposizione ancor più cruenta di quanto accade nella vita civile, dove a contare è la sottomissione ai vertici, senza possibilità di discussione alcuna, se non dover pagare con la disoccupazione o – in tempo di guerra – con la morte.
Tali dinamiche erano, in tempo di pace, ritenute il prezzo per un mercato del lavoro deregolamentato ma vasto nelle grandi città, e i conflitti potevano essere risolti licenziandosi e cercando nuove opportunità; al fronte, ovviamente, non funziona così. Disillusione, sfiducia, stanchezza sono sensazioni presenti tra i ranghi delle forze armate, animate dal continuo flusso di notizie su nuovi scandali di corruzione ai vertici del Ministero della Difesa e tra i responsabili della costruzione delle linee difensive nelle regioni di frontiera della Russia: oltre al già viceministro Timur Ivanov, arrestato nella primavera del 2024 dopo la rimozione del suo protettore Sergei Shoigu da capo del dicastero, a prender mazzette sono anche i comandanti per non inviare i propri uomini all’attacco, i responsabili dei distretti militari per rilasciare false attestazioni di inabilità al servizio, i dirigenti dei lavori per le opere di difesa.
I cambiamenti intervenuti all’interno dell’esercito in termini di tattiche e strategie, alla base della tenuta russa e degli avanzamenti di questi mesi, risultano essere limitati dalle pratiche di comando e dall’incapacità di riuscire a frenare abusi di ogni genere; malattie particolarmente gravi quali le epatiti e l’AIDS colpiscono un numero considerevole di soldati, elemento tale da spingere alla formazione di unità a loro dedicate, e la diffusione è probabilmente dovuta alle condizioni in cui operano infermerie e ospedali da campo.
La società russa tra disillusione e paura
Al fronte, secondo le cifre fornite da Vladimir Putin in un incontro con i presidenti dei gruppi parlamentari della Duma, vi sarebbero più di 700.000 uomini: un numero importante, il cui peso specifico deve essere calcolato tenendo conto delle famiglie a casa. Al 10 ottobre 2025 sono noti i nomi di 135.100 caduti in guerra, raccolti dalla testata indipendente Mediazona, ma si tratta di dati parziali, perché vi sono circa 219.000 procedimenti aperti per l’accertamento del diritto al risarcimento per morte dei familiari in azioni militari.
Si tratta, anche volendo considerare le cifre minime, di numeri impressionanti, per un paese che conosce una forte crisi demografica sin dalla fine dell’Unione Sovietica, diventata ancor più grave dopo l’epidemia di coronavirus: secondo i dati di Rosstat, l’istituto statistico governativo russo, al 1 gennaio 2025 nel paese vi erano 146.028.325 abitanti; cinque anni prima, alla vigilia della catastrofe rappresentata dal COVID-19, erano 147.959.284, una perdita complessiva di quasi due milioni di vite (1.930.959); rispetto al 1 gennaio 2022, quando i cittadini registrati erano 146.980.061, sono 951.736 i decessi.
Se è impreciso attribuire alla guerra tutti i deceduti dal 2022 ad oggi, è anche vero che il conflitto ha contribuito in larga misura ad accelerare uno scenario definito disastroso dagli stessi demografi russi nel progetto Futurologichesky kongress – 2036, dedicato a studiare la dinamica in corso e ad elaborare piani per affrontare l’inverno demografico. Alle perdite dovute direttamente alla guerra, vanno aggiunti i numeri degli uomini e delle donne andati via dalla Russia per evitare la repressione o l’arruolamento: le cifre oscillano, ma sarebbero circa un milione e mezzo gli esuli russi.
Nel denunciare le condizioni al fronte, oltre ai voenkory – schierati per un’intensificazione della guerra – vi è il movimento Put domoj (la strada verso casa), composto da mogli, madri, sorelle, figli dei mobilitati, dichiarato organizzazione indesiderata e agente straniero dalle autorità russe: i picchetti silenziosi delle donne davanti al ministero della Difesa e ai distretti militari vengono sgomberati, le partecipanti arrestate, eppure quelle voci riescono a mettere in crisi la retorica eroica dello sforzo bellico, mostrando il volto doloroso dell’invasione dell’Ucraina, raccontando di uomini mandati all’assalto dopo poche settimane di addestramento, imprigionati in luoghi di detenzione di cui poco o nulla si sa se si oppongono agli ordini degli ufficiali. Condizioni brutali, estese anche alla vita quotidiana di milioni di russi, come testimoniato dalle statistiche sui crimini commessi e persino dalle notizie filtrate dai media ufficiali e fedeli al regime: Gazeta.ru, tra i siti più letti del sistema online dell’informazione governativa russa, presenta un’intera sezione dove sono raccolti omicidi, stupri, furti effettuati dai veterani, alcuni dei quali usciti di galera dopo esser stati reclutati per andare a combattere in Ucraina.
Secondo i dati raccolti dal gruppo di ricerca “Khroniki” nel febbraio del 2025, il 53,6% degli intervistati riteneva che le proprie condizioni di vita fossero peggiorate con l’Operazione speciale militare, l’ufficiale denominazione della guerra: un dato considerevole, a cui vanno aggiunti altre cifre, contrastanti nel contesto di censura e controllo pressoché totale dell’opinione pubblica, raccolte da Russian Field, altro team di studi sociologici, attivo in una attenta campagna di rilevazioni che dura ormai da tre anni. Nell’ultimo lavoro dell’estate del 2025, il 50% degli intervistati considerava giunto il momento di avviare negoziati di pace per terminare il conflitto a fronte del 39% di chi sosteneva di dover continuare le ostilità; allo stesso tempo, il 67% giudicava l’Operazione speciale militare come un’azione di successo; eppure il 51% avrebbe sostenuto totalmente e il 31% favorevolmente una eventuale scelta di Putin di finire la guerra. Un contrasto evidente, dovuto alla atomizzazione della società russa, profondamente depoliticizzata da anni di repressione a vari livelli, ma soprattutto segnale di una stanchezza crescente che non può esprimersi apertamente.
Esiste, però, un settore della società russa che dalla guerra è andato a guadagnarci, e non è rappresentato solo dai militari, dalle loro famiglie, dagli industriali impegnati nella produzione bellica, ma anche dai lavoratori impiegati in esso, a cui sono stati estesi molti dei benefit previsti per i veterani.
L’economia di guerra e la logica della sopravvivenza
I dati sulla crescita economica degli ultimi due anni, con risultati ragguardevoli, in larga parte vanno scomposti, perché dietro la tenuta e l’aumento del PIL vi è la subordinazione della produzione alle necessità della guerra: è errato definire l’economia russa come completamente devota allo sforzo bellico, perché vi sono settori industriali e della produzione indipendenti da esso e dallo Stato, ma gli investimenti civili sono fermi (tra l’1,5 e il 3,5 % nel 2025) e la spesa militare ha raggiunto livelli la cui ampiezza è solo parzialmente verificabile, a causa della secretazione di gran parte dei dati. Inoltre, a essa andrebbe aggiunta una serie di spese indirette – dai benefit assegnati alle famiglie dei militari ai generosi incentivi all’arruolamento presenti in varie regioni – che non vengono conteggiate.
La guerra ha introdotto un modello di redistribuzione verticale: si tagliano i servizi sociali per finanziare la difesa, si comprimono i salari per contenere l’inflazione, si congelano i prezzi per evitare proteste, eppure problemi nelle relazioni industriali iniziano a esser sempre più pressanti, come testimoniato da una serie di misure adottate in alcune holding dove sono impiegate centinaia di migliaia di lavoratori.
L’AutoVAZ, gigante del settore dell’automotive russo, ha visto la riduzione della settimana di lavoro a quattro giorni, senza conservare la parità salariale; anche la Kamaz, produttrice di camion e automezzi, ha adottato la stessa misura, seguita dalla holding del cemento Zemros e dalla Uralvagonzavod, leader nella produzione di vagoni ferroviari e locomotive. Non essendoci ammortizzatori sociali simili alla cassa integrazione, le riduzioni d’orario incidono sulle condizioni di vita, e paradossalmente incentivano il passaggio della manodopera all’industria bellica, dove i salari sono più alti e la crisi appare inesistente; a rendere però complicato lo scenario sociale in prospettiva è l’estensione delle difficoltà anche a settori strategici, quale quello ferroviario.
Le Ferrovie russe (RZhD), una delle più grandi aziende pubbliche del Paese, hanno infatti annunciato lo scorso 17 ottobre una riduzione del personale e un taglio del 40 % agli investimenti, sullo sfondo di dati di una chiarezza sconfortante: i trasporti di merci sono stati in calo del 3,9 % nel 2022, 0,2 % nel 2023, 4,1 % nel 2024 e 6,7 % nei primi nove mesi del 2025; di questi, i carichi di grano sono diminuiti del 26,6 %, i convogli di petrolio e prodotti derivati del 5 %, del 13 % i materiali da costruzione. Per far fronte alle perdite, son stati sospesi i lavori di ammodernamento e ampliamento della Transiberiana e della Ferrovia Bajkal-Amur, assi viari di importanza primaria per la comunicazione tra la Russia europea e l’Estremo Oriente, oltre a dover avviare una campagna di licenziamenti tra il personale e la collocazione, una volta al mese, di un numero al momento imprecisato di ferrovieri a riposo non retribuito.
Cosa avviene nell’establishment?
Sarebbe però semplicistico ritenere che all’interno del sistema vi sia tranquillità, anzi: Tatiana Stanovaya ha descritto questo momento con l’eloquente espressione di “caccia alle élite”. Ministri, governatori, generali vengono rimossi, indagati, sostituiti in una spirale di paura, dove nemmeno la lealtà personale consente di scampare agli arresti o alle ricollocazioni. Un elemento che corrode la “verticale del potere”, mantra su cui si è basata la legittimazione del Cremlino nel corso dei venticinque anni di governo di Vladimir Putin, e la paralizza, perché è impossibile prevedere quali possano essere le conseguenze di scelte e azioni. Emblematica è la situazione venuta a crearsi nella regione di Kursk, dove i due precedenti governatori, Roman Starovoit e Alexey Smirnov, sono finiti sotto inchiesta con destini tragici: Starovoit, diventato ministro dei Trasporti nel 2024, si è suicidato il 7 luglio del 2025, mentre Smirnov è stato arrestato ed è in attesa di processo, entrambi sono accusati di esser stati al centro di un giro di tangenti attorno all’edificazione delle fortificazioni militari nel territorio, interessato dall’attacco ucraino dell’agosto del 2024.
Anche tra i sostenitori del regime si assistono a conflitti, risolti anche attraverso lo strumento dell’inclusione nella lista degli “agenti stranieri”, dove fino a qualche mese fa venivano inseriti gli oppositori del Cremlino: Sergei Markov, politologo molto vicino agli ambienti presidenziali e già deputato, e Roman Alyokhin, blogger attivo nella raccolta di fondi e materiali per il fronte, sono stati dichiarati inoagenty, testimonianza di come alcuni settori all’interno del sistema siano pronti ad affrontare con ogni mezzo necessario conflitti non solo con i nemici del putinismo, ma persino con i propri concorrenti per ottenere risorse e appoggi. Si tratta di un meccanismo foriero di possibili e incontrollabili conseguenze, ben lontano da qualsiasi “purga” di tipo staliniano ma in grado di suscitare paure per la propria incolumità
La liaison Trump-Putin in difficoltà e le speranze russe
Il vertice tra i due presidenti ad Anchorage in Alaska ha rappresentato lo zenit della fase di riavvicinamento tra Washington e Mosca, a cui è seguita una rovinosa caduta libera: i dettagli dell’incontro, iniziati ad emergere nel corso del tempo, hanno visto ancora una volta Vladimir Putin impegnato nell’esposizione della propria concezione e interpretazione della storia (e sarebbe stato molto interessante vedere la reazione di Donald Trump) per legittimare la guerra in Ucraina. La freddezza scesa tra la Russia e gli Stati Uniti, assieme alle dichiarazioni di sostegno, più o meno sincere, della Casa Bianca a Kyiv, ha fatto seguito, delineando come le prove tecniche di negoziato fossero giunte a un punto morto, a causa dell’indisponibilità del Cremlino a recedere dalle proprie rivendicazioni.
La conversazione telefonica tra Putin e Trump, avvenuta a due mesi di distanza dal summit, con la prospettiva di un nuovo vertice a Budapest con Viktor Orban nel ruolo di padrone di casa, appare un nuovo tentativo, dopo il piano per Gaza, da parte del presidente americano di giungere a un compromesso in grado di metter fine, almeno temporaneamente, al conflitto in Ucraina. All’interno dell’establishment russo, però, vi è un settore che nutre speranze nella ripresa del riavvicinamento con gli Stati Uniti, per ragioni ideologiche ed economiche: le dichiarazioni del metropolita di Crimea Tikhon (ritenuto padre spirituale di Putin) a proposito del “martirio” dell’attivista americano d’estrema destra Charlie Kirk testimoniano la comunanza di valori tra l’area nazionalista russa e la destra religiosa Oltreoceano mentre Kirill Dmitriev, direttore del Fondo sovrano d’investimenti della Federazione Russa e responsabile dei contatti con Washington, in decine di post su X non perde occasione per elogiare Trump e prospettare nuovi, mirabolanti, campi di cooperazione economica tra i due paesi.
Vladimir Putin, durante il suo annuale incontro con gli esperti del Valdai Club, ha affermato di sostenere il piano del presidente americano per Gaza con parole d’apprezzamento per Tony Blair, un segnale non trascurabile e legato sia ai rapporti israelo-russi, riaffermati da una conversazione telefonica avuta con Benjamin Netanyahu lo scorso 6 ottobre, che al posto occupato dall’Ucraina nell’immaginario del leader russo, vera e propria priorità per riaffermare l’unità storica della nazione russa e la presenza imperiale di Mosca a est. Di fronte alla richiesta di Volodymyr Zelensky di ottenere i missili Tomahawk, a cui sarebbe seguito il rifiuto di Trump durante l’incontro del 17 ottobre alla Casa Bianca, però il Cremlino aveva reagito con un certo nervosismo, di cui aveva dato conto anche il presidente americano dopo la telefonata avuta con Putin giovedì scorso.
La guerra continua?
La visita di Volodymyr Zelensky a Washington per colloqui con Trump, annunciata ancor prima della conversazione tra il tycoon e Putin e la proposta di un nuovo summit, è da inscrivere in una nuova fase in cui sia alla Casa Bianca che al Cremlino sembrerebbe esserci il comune interesse a riprendere i contatti, per ragioni diverse. Trump, reduce dal momentaneo successo in Medio Oriente, vorrebbe riuscire a portare a casa un altro risultato, senza però aver strumenti in grado di condizionare Mosca ad accettare le proprie condizioni; Putin, la cui visita in Alaska ha rappresentato un momento importante per ribadire che la Russia non è isolata, si trova a dover far i conti con le attese suscitate negli scorsi mesi dal riavvicinamento con Washington, anche se non è disposto ad alcuna concessione nei riguardi dell’Ucraina. Nel frattempo, per la pace, c’è tempo: le città ucraine continuano a essere colpite, ogni notte, dalle bombe, dai missili e dai droni, senza che si veda l’alba.
Immagine in anteprima via liveandletsfly.com