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Master and servant

I referendum sul lavoro e sulla cittadinanza sono falliti.

L’affluenza al 30% segna una pesante sconfitta del principale sindacato italiano, di tutto il gruppo promotore e dei partiti che li hanno sostenuti.

Eppure non mi stupisco, perché? Non intendo dissertare sulle cause più o meno politiche, sugli errori di strategia e di comunicazione, sulla inopportunità di mantenere il quorum del 50%, sulle stesse responsabilità di chi per anni, proprio in ambito sindacale, non ha reagito come avrebbe potuto, alle prepotenti leggi dei vari governi che hanno fatto carta straccia dello statuto dei lavoratori e delle tutele acquisite con lotte durate decenni.

Lascio questo compito a chi è più competente di me in materia. Qui e ora, desidero piuttosto fare una constatazione di carattere storico e sociologico, a mio avviso decisiva, e lo farò senza mezzi termini. L’astensionismo, questo astensionismo in particolare, ci parla di come il lavoratore non riconosca più il padrone e non conosca neppure le opportunità che gli vengono date dall’unico strumento di democrazia diretta che esiste in questo Paese.

Questa constatazione è determinata da almeno due fatti: 1) l’impressionante distanza che si è creata (che è stata creata) tra le cosiddette istituzioni e il cittadino medio, spesso poco attento alle decisioni della politica istituzionale e anche poco capace di comprenderle. 2) l’ignoranza di gran parte dei lavoratori su chi realmente determina il loro assetto esistenziale e la loro vita sociale, che ingenuamente si crede non direttamente correlata alle decisioni che i potenti prendono in tema di lavoro subordinato e non. Venendo al punto, si può affermare che decenni di ipnosi berlusconiana, dei suoi sodali e dei suoi epigoni, il susseguirsi di riforme drammaticamente peggiorative delle condizioni di lavoro e di voraci ingerenze delle istituzioni economiche europee e internazionali, hanno marchiato a fuoco l’idea stessa del ruolo e delle prerogative del lavoratore.

L’essere convinti di non appartenere ad una categoria, (figuriamoci ad una classe), la deificazione della partita iva, la ingenua convinzione del “mi salvo da solo”, il trionfo del disimpegno e del più becero qualunquismo, sostenute dalla ferrea logica della produttività, hanno prodotto per una gran parte di lavoratori, la rinuncia a priori di qualsiasi lotta per l’emancipazione. Il prevalere di questa trama, la si vede chiaramente nei luoghi di lavoro e la si percepisce distintamente nelle giovani generazioni dentro le aule scolastiche. E’ questo il nuovo e più imperioso trionfo del capitale: l’essere riuscito a scindere ogni legame tra il lavoratore e il lavoro, il rendere invisibile e distaccata la proprietà, porre la precarietà al centro del lavoro e della vita. Quando il diretto interessato non va a votare su quesiti che lo riguardano in prima persona e che gli possono offrire maggiore tutela, si è varcata una linea rossa.

E’ stato inquietante osservare i pensionati e i lavoratori del settore pubblico che si sono recati nei seggi, mentre la maggior parte di chi era direttamente interessato se n’è rimasto a casa. Questo non rappresenta un campanello d’allarme per chi ancora pone fiducia nella partecipazione popolare, ma è la bomba che ti arriva sulla testa. Molto c’è da fare, da ricostruire, ma senza una visione radicalmente critica di questo modello economico e sociale, senza il rifiuto della prevaricazione e della distruttività che esso rappresenta e che esso pone sui singoli, sulle comunità, sulla natura e quindi, sul concetto stesso di lavoro esclusivamente finalizzato all’interesse privato, non ne verremo fuori. A questa cultura della separazione e del dominio, occorre opporsi con vigore e con tenacia, con maggiore unità e consapevolezza dentro e fuori i luoghi di lavoro.

Max Strata

Fonte
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