Salta al contenuto principale

Opposizione, istruzioni per il fallimento: cronaca di un quorum mancato

L’affluenza alle urne per i referendum dell’8 e 9 giugno ha raggiunto il 29,9 per cento, mancando così il quorum. Si tratta di un risultato prevedibile, vista la scarsa partecipazione che ha contraddistinto i referendum abrogativi negli ultimi 30 anni. Tuttavia, i referendum permettono di comprendere lo stato di salute dei partiti e delle coalizioni nel nostro paese nonché dei corpi intermedi: i quesiti referendari sul lavoro sono infatti stati proposti dalla CGIL . 

L’opposizione deve fare i conti con se stessa

Il referendum è stato un netto insuccesso per il cosiddetto campo largo, la coalizione che aspira a sfidare Meloni alle prossime elezioni. Il problema nasceva già nei quesiti: due andavano infatti a modificare leggi approvate dal Partito Democratico a trazione renziana, in particolare il contratto a tutele crescenti e le causali sui contratti a tempo determinato. Per quanto la segretaria Schlein avesse sposato i quesiti referendari, in linea con la sua mozione congressuale, la corrente riformista del PD aveva manifestato il suo dissenso. Gli esponenti più vicini all’esperienza di governo del PD sotto Renzi e Gentiloni hanno perciò rivendicato le misure approvate. Da qui la spaccatura nel partito.

Al netto del fallimento dei referendum, è il PD di Schlein a uscirne meglio (attenzione: non bene, meglio) dall’esito del voto. Come rilevano i dati presentati da YouTrend, la partecipazione è correlata con le zone che hanno votato PD durante le europee del 2024. Se il fine era quindi contarsi, il PD di Schlein su questo può segnare un punto a suo favore. Ma c’è un problema che ancora attanaglia il PD, che non riguarda la quantità ma la composizione: l’affluenza è stata più alta nelle regioni rosse come Emilia Romagna e Toscana, assieme ai centri nel nord del paese. Inoltre è correlata con il numero di laureati per comune di residenza. La base elettorale del Partito Democratico continua a essere la classe borghese riflessiva che già lo sostiene da tempo, come dimostrano i dati. Se lo scopo di Schlein era quindi colmare la frattura con i lavoratori e la classe media, i dati suggeriscono che questo non è avvenuto. 

Una situazione di questo tipo fa emergere la complessità di una nuova offerta politica di sinistra nel nostro paese. Il problema non riguarda soltanto quali battaglie si decide di intestarsi, ma anche la credibilità di chi le porta avanti e le strategie da adottare. La classe dirigente del Partito Democratico, al netto della segreteria Schlein, è ancora percepita come una classe dirigente inefficace, che è andata al governo più volte senza incidere davvero sulla situazione del paese. I precedenti lo dimostrano: si pensi alla candidatura dell’ex ministro Andrea Orlando alle regionali in Liguria, dove la destra usciva da uno scandalo che aveva portato alle dimissioni del governatore Giovanni Toti. Nonostante questa situazione, a vincere la tornata elettorale è stato comunque il candidato della destra Marco Bucci. 

Diversa la situazione per il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. I risultati del referendum certificano la crisi profonda che sta affrontando: la partecipazione è infatti stata più bassa nelle zone che avevano visto un maggior supporto per il Movimento durante le elezioni europee. A mancare sono stati infatti i voti del Sud. 

D’altronde il Movimento è in crisi di consensi. Se si guardano i sondaggi, dopo la performance inaspettata proprio nel 2022, la vittoria di Schlein alle Primarie Aperte del Partito Democratico ha nettamente ridotto i consensi per il movimento guidato da Giuseppe Conte. D’altronde, la linea appare oggi più ondivaga che mai: da una parte entra nel gruppo della Sinistra Europea, dall’altra si schiera con Trump per le sue posizioni sull’Ucraina. Questo tentativo di creare una sinistra conservatrice, lungi dall’essere il paradigma vincente per sconfiggere la destra radicale, si sta rivelando anche in altri paesi una scommessa perdente. Lo dimostrano i risultati di Sahra Wagenknecht e del suo partito Bündnis Sahra Wagenknecht (BSW). Considerato come un tentativo di strappare consensi all’est all’Alternative für Deutschland (AfD), il partito non è riuscito a superare la soglia di sbarramento alle recenti elezioni legislative in Germania. 

Questa linea, che coniuga posizioni più di sinistra in campo economico con posizioni conservatrici o isolazioniste su altri temi, come l’immigrazione o la guerra in Ucraina, non sembra raccogliere i consensi dell’elettorato.

Inoltre, si finisce per creare ancora più tensioni all’interno dei partiti del campo largo, che esce come il vero sconfitto da questi referendum. La coalizione di destra, al netto delle diverse anime, riesce a mantenere un profilo di unità. Al contrario, il collante del PD tra il Movimento 5 Stelle e i partiti centristi come Più Europa e Italia Viva appare come una mera costruzione al negativo per cercare di sconfiggere Meloni, costantemente alle prese con litigi e differenze interne, che ne diminuiscono la credibilità.

Proprio sulla competitività del campo largo vale spendere qualche parola in più. A seguito della sconfitta al referendum, infatti, i tre partiti che sostenevano i quesiti sul lavoro (Partito Democratico, Alleanza Verdi Sinistra e Movimento 5 Stelle) hanno evidenziato, attraverso post sui social che i voti raccolti al referedum sono di più rispetto a quelli con cui Meloni governa. 

Come ha fatto notare Carlo Canepa su Pagella Politica i conti non tornano per vari motivi. Ma oltre alle questioni di numeri, c’è un’ipotesi traballante nel ragionamento dei sostenitori del referendum, e cioè che tutti i sostenitori del Sì ai quesiti sul lavoro voterebbero per un’eventuale coalizione formata dai partiti che li hanno sostenuti. Ipotesi alquanto discutibile, come sottolineato anche dall’analisi del voto dell’Istituto Cattaneo, perché tra i sostenitori del sì, ci sono sicuramente elettori di altri schieramenti politici, come quelli della sinistra radicale, insieme a voti che potrebbero venire dall’astensione. Non è affatto automatico che si trasformino in consenso alle prossime elezioni. 

Inoltre, c’è da tenere conto delle alchimie elettorali tra i vari partiti e di come reagiranno i loro elettorati di riferimento. Pensiamo appunto alle tensioni, già citate, sulla questione Ucraina. Queste differenze potrebbero far sì che elettori di uno o degli altri partiti optino per l’astensione o votino al di fuori del campo largo. 

Certe forzature interpretative tentano di salvare il salvabile, ma finiscono per apparire come un’arrampicata sugli specchi. Il referendum in realtà ha fatto emergere l’estrema debolezza dell’opposizione al governo Meloni e la sua incapacità di far presa su un elettorato più ampio. Questo è ancora più drammatico se si considera che i temi trattati nel referendum dovrebbero essere il cuore di una proposta di sinistra.

Vale la pena spendere qualche parola anche sulla CGIL. I sindacati italiani non godono di molta stima per l’elettorato: secondo un sondaggio SWG del novembre 2024 solo un intervistato su quattro ripone fiducia in loro. In parte la segreteria Landini, che veniva da un’esperienza positiva a capo della FIOM, doveva riaccendere la lotta sindacale, ma finora questo ha portato a pochi risultati. Le parole di autocritica di Landini però restituiscono una visione ben più realistica della situazione rispetto ai proclami dei partiti: il segretario della CGIL ha infatti sostenuto che l’obiettivo non è stato raggiunto, ma che la CGIL continuerà a lottare per le idee che venivano proposte. Ha inoltre affermato che il referendum non riguardava il governo, ma leggi sbagliate che sono state approvate nel corso degli anni. Si tratta di una posizione più onesta e ponderata rispetto a quella espressa dai partiti, come abbiamo visto prima, che tentano di far passare i risultati del referendum come una prova di forza contro il governo Meloni - apparendo alquanto disconnessi dalla realtà, a voler essere franchi. 

Il governo esce vincitore, Meloni di più

Se c’è una vincitrice indiscussa è proprio la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a partire dalla comunicazione. A differenza dei partiti che sostengono la coalizione di governo, che avevano invitato gli elettori a non andare a votare, Meloni ha usato una strategia più sottile. La Presidente del Consiglio si è effettivamente recata al seggio, salvo poi non ritirare le schede dei quesiti referendari. Come spiega Fanpage, dal punto di vista legale ciò equivale all’astensione, visto che la partecipazione di Meloni non viene conteggiata nel computo del quorum. Ma allo stesso tempo diventa estremamente difficile per l’opposizione criticare Meloni per non aver partecipato. Si tratta di una tattica consolidata nella comunicazione del governo e della maggioranza che lo sostiene. Le posizioni più estreme sono spesso espresse da altri esponenti dei partiti, mentre la figura di Meloni emerge come una leader presentabile e rispettabile agli occhi dell’elettorato.

A giocare a favore di Meloni  durante questi referendum c’è anche la situazione sul fronte mercato del lavoro. Di certo il nostro paese soffre di problemi strutturali, a partire dalla scarsa produttività e da una crescita salariale nulla se non negativa. Ma allo stesso tempo, come succede in buona parte del mondo occidentale, la performance del mercato del lavoro dà segni positivi. L’occupazione è in crescita, la disoccupazione segna un record positivo da quando sono disponibili i dati ISTAT, anche i salari hanno visto un lieve rialzo rispetto agli anni passati. Anche il numero di contratti a tempo determinato, uno dei temi che ha riguardato la campagna referendaria, è in lieve calo rispetto agli anni precedenti rispetto al totale dell’occupazione. 

Da un punto di vista strettamente tecnico, questa situazione non è dovuta agli interventi del governo Meloni. Si tratta, come detto, di un trend che coinvolge buona parte del mondo occidentale e che quindi è difficilmente imputabile ai provvedimenti economici messi in atto dal governo Meloni. E proprio su questo c’è un secondo aspetto che è importante sottolineare: sul fronte economico, il governo Meloni ha fatto poco o nulla. Non si è assistito a interventi trasformativi e anche i provvedimenti presi dal governo spesso si limitano a cambiamenti marginali: pensiamo al Decreto Lavoro, che interveniva sul tema delle causali sui contratti a tempo determinato. Si tratta di un provvedimento in linea con i precedenti, come il Decreto Poletti, inseriti in un contesto di liberalizzazione dei contratti a tempo determinato a cui solo il Decreto Dignità aveva cercato di contrastare. 

Questo immobilismo nel campo economico, assieme proprio alla buona performance del mercato del lavoro, ha portato sicuramente a una minor incisività della campagna referendaria su una popolazione più ampia. 

Il vero rischio, per il governo Meloni, deriva però proprio da questa situazione. Fino a quando l’economia si trova in uno stato accettabile - se il mercato del lavoro segna record, allo stesso tempo le previsioni di crescita sono deludenti se comparate con i nostri partner europei, il consenso del governo può considerarsi saldo, vista la situazione in cui versa l’opposizione. Tuttavia, la situazione potrebbe cambiare in funzione degli shock economici all’orizzonte, primo fra tutti quello dei dazi di Donald Trump. Non è ancora chiaro a quanto ammonterà l’aliquota che l’amministrazione Trump imporrà sulle merci europee. Qualora il costo dei dazi dovesse rivelarsi particolarmente esoso, sappiamo che l’Italia si troverà esposta maggiormente rispetto ad altri paesi. L’export italiano verso gli Stati Uniti è elevato, ma a questo va aggiunta la complessità che contraddistingue le economie europee: l’Italia gioca infatti un ruolo cruciale nella fornitura di beni intermedi per la manifattura tedesca. Per comprendere l’impatto dei dazi bisognerà quindi comprendere l’effetto diretto e quello appunto indiretto, che deriva da minori ordini dalla Germania. A sua volta, sarà interessante capire se gli effetti economici peseranno sul consenso di Meloni e del suo governo o se, al contrario, l’incapacità di incidere dell’opposizione lascerà immutata anche in questo caso la situazione. 

Il quesito sulla cittadinanza e il dilemma dell’immigrazione a sinistra

Uno dei risultati più eclatanti di questo referendum riguarda il quesito sulla cittadinanza. Mentre i quesiti sul lavoro hanno visto maggioranze relative abbastanza schiaccianti, lo scarto sul quesito riguardante la cittadinanza è stato molto più contenuto. Senza dati certi, vista la segretezza del voto, è difficile stabilire il perché. Si possono avanzare comunque delle ipotesi. 

Una delle possibili cause riguarda gli orientamenti di voto degli elettori afferenti al Movimento 5 Stelle. Durante la campagna referendaria, il leader del Movimento Giuseppe Conte aveva lasciato libertà di voto riguardo al quesito sulla cittadinanza. D’altronde, la posizioni del Movimento 5 Stelle sull’immigrazione sono sempre state piuttosto controverse, fin dalle sue prime esperienze in Parlamento. 

Durante il governo Letta, i partiti della coalizioni di centro sinistra proposero di abolire la Legge Bossi Fini, legge berlusconiana che aveva stretto le maglie dell’immigrazione. Durante quel dibattito, il fondatore del Movimento Beppe Grillo fu alquanto caustico. Dichiarò che se avessero fatto campagna elettorale sull’immigrazione, avrebbero preso percentuali da prefisso telefonico, nonostante la contrarietà di molti parlamentari. Più avanti, il Movimento 5 Stelle formò il governo del cambiamento con la Lega di Salvini. Quello era il periodo dei porti chiusi, del Decreto Sicurezza, dei migranti lasciati in balia delle onde, salvati dal governo socialista spagnolo, e dei porti chiusi. Il Movimento sposò questa linea, nonostante l’effetto negativo che questo portò sui consensi alle Europee del 2019. Anche in quel caso vi furono dei malumori all’interno dello stesso movimento sulla questione. Gli esponenti più progressisti vennero espulsi dal partito proprio su questo. In seguito il Movimento 5 Stelle rimase al governo, ma con la coalizione di centro-sinistra formata da PD, Italia Viva e parte di LeU. Quel governo è stato segnato dalla gestione del Sars-CoV-2, ma anche quando si ebbe l’occasione di abolire provvedimenti come il Decreto Sicurezza, la marcia indietro fu solo parziale. 

È noto che il Movimento 5 Stelle è formato da molte anime, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista elettorale. Questo ha sicuramente impattato sulla percentuale di No al quesito referendario sulla cittadinanza. A supportare questa tesi c’è un’analisi dei flussi condotta dall’Istituto Cattaneo che evidenzia come gli elettori del Movimento si siano orientati massicciamente rispetto al No riguardo al quinto quesito. 

La stessa analisi però sottolinea come anche una parte degli elettori del Partito Democratico abbia sostenuto il No al quesito sulla cittadinanza, circa il 15-20 per cento. 

Un’altra possibilità sono paradossalmente gli elettori di partiti come Fratelli d’Italia e Lega. Come rivela un’analisi post voto delle legislative, questi sono spesso più a sinistra sui temi sociali rispetto ai rispettivi partiti, che riescono a raccoglierne i voti grazie alla “Winning Formula” della destra radicale: coniugare una retorica di sostegno ai lavoratori con posizioni conservatrici su temi civili. Non è quindi da escludere che una fetta di quel No al quesito sulla cittadinanza venga proprio da questi elettori. Anche in questo caso l’analisi dell’Istituto Cattaneo rileva come una minoranza dell’elettorato di destra abbia partecipato alla consultazione referendaria, votando per il No al quinto quesito. 

Il risultato del quesito referendario però sottolinea un aspetto ancora più problematico: quale posizione deve assumere la sinistra sull’immigrazione? Ci sono due risposte, a oggi: una pressoché impossibile da attuare, l’altra deleteria. 

La prima si basa sull’indicazione del linguista George Lakoff  nel suo “Non pensare all’elefante”. La sinistra non deve rincorrere la destra sul tema dell’immigrazione, dell’integrazione e della cittadinanza, ma imporre i suoi temi nel dibattito pubblico, con il suo linguaggio. A oggi, una via di questo tipo è impraticabile, vista l’egemonia culturale della destra nel dibattito pubblico - oltre alla presa sui media. 

La seconda è l’esatto opposto: rincorrere la destra sul tema dell’immigrazione. Quando ci ha provato, il risultato è stato tutt’altro che soddisfacente. Oltre ai già citati esperimenti di sinistra conservatrice, c’è il caso italiano del governo Gentiloni. Il Ministro degli Interni Minniti, in quota PD, aveva portato a una svolta restrittiva sulle politiche sull’immigrazione. Lo stesso segretario del PD Matteo Renzi, in un passo del suo libro Avanti, scriveva “abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro”. Nell’intero passaggio si notano vari termini della retorica di destra, come buonismo o business delle partenze. Nonostante questo cambio di registro, il PD segnò il suo peggior risultato elettorale alle successive elezioni legislative.  

Ora, un caso che potrebbe essere portato a sostegno di questa tesi proviene dalla Danimarca. Nel paese, proprio i socialdemocratici hanno varato leggi restrittive sull’immigrazione, in continuità con quelle dei governi del centrodestra. A uno sguardo più attento, però, si nota come proprio la Danimarca, dove i socialdemocratici sono molto forti, rientra nel primo caso: la prima ministra danese Mette Frederiksen ha giustificato queste posizioni facendo leva su idee afferenti alla sinistra e alla difesa delle classi lavoratrici, come quelle relative all’occupazione e all’erogazione del welfare state che avrebbe troppo beneficiato i migranti. A rigor del vero, si tratta di idee che non trovano riscontro nella ricerca scientifica. 

Un ulteriore problema riguarda il fatto che, a conti fatti, l’immigrazione non è un problema reale, anzi: come dimostrano anche le stime del DEF del governo Meloni, senza immigrazione la traiettoria del debito pubblico rischia di esplodere. Gli studi suggeriscono infatti che non vi è correlazione tra località con più migranti e voti ai partiti di destra radicale: il sentimento di xenofobia deriva quindi da altri fattori, differenti da narrazioni affini alla destra come quella dell’invasione. 

La strada è ancora lunga

La valutazione dei risultati dei referendum non può che essere prevalentemente negativa. Per quanto sia da lodare l’impegno da parte di partiti e sindacati nel cercare di riportare i temi del lavoro e della precarietà, il tutto si è risolto in un nulla di fatto. Avevamo già chiarito come la strategia referendaria potesse non essere quella più adatta per questo tipo di problemi. Ma il risultato dovrebbe comunque portare a una seria riflessione sulla credibilità della proposta politica delle forze di opposizione in Italia. Come abbiamo detto, non c’è soltanto una questione di temi, c’è soprattutto una questione di credibilità: una classe dirigente che, pur avendo avuto l’opportunità di andare al governo e cambiare le cose, ha spesso sprecato l’occasione e oggi pensa di potersi redimere riscoprendosi a fianco dei lavoratori e lavoratrici. Si tratta di un condizionale molto forte: la classe dirigente dei vari partiti difficilmente si metterà in discussione e soprattutto manca un’alternativa valida. Quando ci provò Renzi, con la famosa rottamazione, semplicemente sostituì la Ditta con alcuni volti nuovi, rivelatisi ugualmente inefficaci rispetto a quelli di prima. 

Anche l’idea di segnalare lo scontento per il governo Meloni si è rivelata alquanto fallimentare. Il governo ne esce pulito, per ora, in una sorta di anestesia politica che affligge l’Italia da tempo. Se l’opposizione rimarrà a discutere di alchimie elettorali e non si metterà seriamente in discussione, un calo del consenso nei confronti del governo è improbabile  e potrebbe avvenire solamente gravando sulla popolazione, soprattutto quella più debole economicamente.

 

Fonte
https://www.valigiablu.it/feed/