Come ogni brava sentinella addetta a segnalare il pericolo, da cinquantaquattro anni l’istituto statunitense Global Footprint Network vigila per avvertirci quando oltrepassiamo il limite di sicurezza imposto dalla capacità biologica del pianeta. Quest’anno il nostro ingresso in zona insicura scatta il 24 luglio, un record mai raggiunto prima. Più precisamente il 24 luglio segna la data in cui l’umanità ha esaurito tutto ciò che il sistema naturale è stato capace di fornire per il 2025 attraverso il meccanismo della rigenerazione biologica: nuovi raccolti agricoli, nuove piante da taglio, nuovi animali per alimentarci, nuovo sistema fogliare per sbarazzarci dell’anidride carbonica. Il Global Footprint Network chiama questo giorno “overshootday”, in inglese “giorno del sorpasso”, ad indicare la data in cui nostra voracità supera la capacità di rigenerazione della natura. E se ci pare che il problema non esista è perché finiamo l’anno a spese del capitale naturale, un po’ come quella famiglia che avendo finito la legna da ardere, continua a scaldarsi gettando nel cammino suppellettili o addirittura travicelli del tetto. Lì per lì sembra che tutto tenga, ma se l’operazione si ripete ogni anno, finisce che quella famiglia si ritrova senza legna e senza casa. L’umanità corre lo stesso rischio, precisando che la responsabilità dello squilibro non ricade su tutti nella stessa misura. Qualcuno, addirittura, non ha colpa alcuna. Il Global Footprint Network ci ricorda che per rimanere in equilibrio con la capacità rigenerativa del pianeta ognuno di noi dovrebbe avere un’impronta ecologica non superiore a 1,6. In altre parole dovremmo mantenere i nostri consumi annuali di cibo, legname, prodotti energetici, entro livelli compatibili con 1,6 ettari di terra fertile. In realtà gli abitanti del Lussemburgo hanno consumi che richiedono la disponibilità pro capite di 12,8 ettari, gli statunitensi di 7,9, gli italiani di 4,5 ettari. Solo tre paesi (Sudan, Senegal, Sud Sudan), per un totale di appena 80 milioni di abitanti, sono in linea con l’impronta sostenibile di 1,6. Ma poi ce ne sono altre decine con un’impronta inferiore. Schematicamente potremmo dividere l’umanità in tre gruppi: un terzo con un’impronta di molto superiore a quella sostenibile, un terzo di poco superiore, un terzo al di sotto. Il terzo con un’impronta di molto superiore è quella che conserva la responsabilità maggiore dello squilibrio planetario e quindi deve tagliare di più i propri consumi.
La riduzione dei consumi richiama tre livelli: quello d’impresa, di famiglie e di collettività. A livello d’impresa la grande sfida è cambiare filosofia. Più che in termini di denaro, le imprese devono ragionare in termini di risorse, quelle concrete: minerali, acqua, energia, rifiuti. Oggi il loro obiettivo è spendere meno soldi possibile. Domani dovranno chiedersi come fare per ottenere prodotti col minor impiego di risorse e la minor produzione di rifiuti possibile. I loro bilanci non dovranno essere solo economici, ma soprattutto idrici, energetici, ambientali. Più che di ragionieri dovranno dotarsi di esperti che sappiano calcolare i consumi di risorse, le emissioni di veleni, non solo durante la fase produttiva di loro diretta pertinenza, ma durante l’intero arco di vita del prodotto. L’ufficio per l’eco-efficienza dovrà essere il comparto più sviluppato di ogni singola azienda, sapendo che le strategie della sostenibilità produttiva passano per quattro vie: il risparmio come capacità di ridurre al minimo la quantità di energia e di materiale impiegato; la rinnovabilità come capacità di ottenere energia e materie prime da fonti rinnovabili; il recupero come capacità di sfruttare al meglio ogni unità di energia, di acqua, di materiale, attraverso operazioni di sinergia e riciclo; il locale come capacità di privilegiare approvvigionamento, scambi e vendita a livello territoriale.
Come famiglie, la sfida è cambiare stili di vita cominciando ad eliminare l’inutile e il superfluo. Nei nostri armadi accumuliamo troppi vestiti e ne diamo troppi allo straccivendolo. Sprechiamo l’acqua e usiamo l’automobile anche quando potremmo andare a piedi o in bicicletta. In concreto dobbiamo convertirci alla sobrietà che non significa vita di stenti, ma meno quantità più qualità, meno auto più bicicletta, meno mezzo privato più mezzo pubblico, meno carne più legumi, meno prodotti globalizzati più prodotti locali, meno cibi surgelati più prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata più acqua del rubinetto, meno cibi precotti più tempo in cucina, meno recipienti a perdere più prodotti alla spina. Significa anche capacità di diventare prosumatori, ossia produttori di ciò che consumiamo, come succede quando dotiamo le nostre case di pannelli solari o produciamo da soli la nostra insalata.
Ci sono aspetti del modo di vivere che tutti possono cambiare senza difficoltà, anzi traendone benefici per il portafogli e la salute. Valga come esempio la riduzione del consumo di carne. Ma ci sono cambiamenti a volte impossibili a causa della propria condizione economica o del contesto in cui si vive. I più poveri, ad esempio, difficilmente potranno fare gli investimenti che servono per migliorare l’efficienza energetica della propria abitazione o convertirsi alle rinnovabili. Allo stesso modo risulterà difficile sbarazzarsi dell’auto se si vive in una periferia sprovvista di servizi e di trasporti pubblici. Per questo è importante chiamare in causa la collettività l’unico soggetto in grado di rimuovere gli ostacoli che impediscono anche ai più deboli di compiere scelte di tipo sostenibile. Una funzione che la collettività può svolgere garantendo ovunque buoni trasporti pubblici, una buona connessione internet, un forte sostegno agli investimenti di transizione energetica, ma soprattutto buoni servizi sanitari, sociali e scolastici.
Si è a lungo parlato dell’esigenza di consumo critico e responsabile da parte delle famiglie. Ma ora dobbiamo chiedere anche alla sfera pubblica di adottare criteri di spesa critica e responsabile. Tanto più oggi che si parla insistentemente di aumento delle spese militari. La peggiore delle spese possibili non solo perché finalizzata alla morte, ma perché gravida di conseguenze negative anche da un punto di vista finanziario, sociale, ambientale. Il sistema militare si basa su un uso massiccio di combustibili fossili che lo pongono fra i maggiori produttori di gas a effetto serra. Secondo le organizzazioni Conflict and Environment Observatory (CEOBS) e Scientists for Global Responsibility (SGR), il sistema bellico contribuisce al 5.5% delle emissioni globali, tanto che se fosse una nazione sarebbe al quarto posto della graduatoria mondiale. Senza contare ciò che viene rilasciato durante le guerre. Un gruppo di esperti ha calcolato che durante i primi tre anni di guerra fra Russia e Ucraina sono state prodotte 230 milioni di tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di quante ne emettono in un anno Austria, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, messi insieme. L’Unione Europea ha lanciato un piano di riarmo europeo del valore di 800 miliardi di euro, che se venisse applicato farebbe aumentare considerevolmente le emissioni del settore, in aperto contrasto con l’Accordo di Parigi del 2015 e con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. I nostri governanti sostengono che bisogna armarsi per prevenire la possibile morte indotta da potenziali aggressioni. Ma ha senso esporsi a rischi certi per evitare rischi potenziali? O non sarebbe più intelligente seguire la via della pace disarmata e disarmante indicata da Papa Leone?