Guardo ai venti di guerra che il Parlamento europeo, la Commissione europea soffia su tutte e su tutti, guardo al nostro passato recente, agli anni di grande mobilitazione contro il nucleare e la guerra che sono stati gli anni Settanta e Ottanta. Ho trovato nelle pratiche nonviolente delle donne del nostro passato recente una visione di lotta che può dare una direzione in questo nostro presente frammentato, dove le forze della nonviolenza e di tutte e tutti coloro che sono contro la guerra sentono la necessità di unirsi.
Per quanto riguarda la prassi delle pacifiste femministe, vorrei qui ricordare due avvenimenti cruciali che hanno segnato un passaggio importante sia per quanto riguarda la protesta femminista ma anche per i movimenti in generale. Si tratta dei campi di pace a Greenham Common in Inghilterra e a Comiso nella Sicilia orientale dove le donne hanno circondato le due basi militari per impedire l’installazione dei missili Pershing e Cruise.
Non solo io, ma anche diverse studiose, cercano di trovare in quelle esperienze quei nessi che forse possono aiutarci oggi ad affrontare le nuove sfide che abbiamo davanti. Infatti, i campi di Greenham Common e Comiso sono nati per protestare e impedire l’installazione dei missili, e oggi ci troviamo davanti ad un’analoga sfida: la Nato lo scorso luglio 2024 ha deciso di installare missili a testata nucleare nelle basi militari americane in Germania a partire dal 2026.
Un laboratorio globale
“A partire dagli anni Settanta e Ottanta” scrive Pam McAllister “sono state le studiose femministe a portare alla luce episodi di disobbedienza civile e di protesta nonviolenta promossi e guidati dalle donne e a tracciare profili di pensatrici e attiviste. Le attiviste hanno creato un laboratorio globale in cui la teoria della nonviolenza è stata costantemente messa alla prova e trasformata” (1).
Questo laboratorio globale è nato dapprima negli Stati Uniti durante la protesta delle Pentagon Actions (novembre 1980-81) che hanno ispirato nelle loro modalità le due azioni a Comiso e Greenham. Le marce davanti al Pentagono furono portate avanti da gruppi di donne che per la prima volta introdussero elementi creativi e legati alla quotidianità delle donne, per sottolineare la loro volontà di opporre a un’agenda di morte portata avanti dal patriarcato un’agenda di vita che le donne affermavano con diritto e dignità. Nelle proteste vennero introdotte azioni teatrali, impiego di maschere, scenografie che riportavano alla quotidianità delle donne e delle bambine, in più situazioni si ripropose simbolicamente la tessitura di fili di lana.
In realtà, questo laboratorio globale, aveva mosso i suoi primi passi già alcuni mesi prima, nel marzo del 1980, durante un seminario all’Università di Amherst dal titolo “Le donne e la vita”. Più di settecento donne, provenienti da collettivi femministi, eco-femministe e pacifiste, si ritrovarono per ragionare su come rispondere al disastro ambientale avvenuto pochi mesi prima alla Three Mile Island, il più grande disastro ambientale che si era avuto fino ad allora. Furono loro, il primo nucleo attivo, che diede vita alle Pentagon Actions. Una mobilitazione di sole donne, che scelsero di protestare, in una modalità distinta, in cui potersi riconoscere in quanto donne, pacifiste, preoccupate per le sorti della terra, minacciata dall’inquinamento e dal nucleare.
Comiso per quattro anni (1980-1984) fu un laboratorio politico permanente che vide avvicendarsi centinaia di pacifisti da tutto il mondo: la prima grande manifestazione dell’ottobre del 1981 vide la partecipazione di mezzo milione di pacifisti. All’interno di questo laboratorio si sviluppò un collettivo femminista internazionale che prese il nome de “La ragnatela”. La ragnatela era un simbolo di quegli anni perché le donne facevano spesso riferimento all’azione della tessitura nei rapporti tra loro, dagli Stati Uniti all’Inghilterra e all’Italia.
Azione coordinata Greenham – Comiso
Il 12 dicembre 1982 le 30.000 donne di Greenham Common e il centinaio di donne di Comiso si uniscono idealmente in una ragnatela di fili che tessono attorno alle basi militari in quell’azione che prende il nome di Embrace the Base.
Migliaia di mani intrecciano, sul reticolato della base inglese, nastri bianchi, disegnando gli slogan della pace; migliaia di mani vi intessono ragnatele con fili di lana, vi agganciano fogli con appelli, disegni, poesie, vi appendono abitini di neonati, pannolini, orsacchiotti di peluche, fotografie, espressioni della materialità della loro vita contro l’astrattezza della morte nucleare.
Contemporaneamente nel fango secco di Comiso striscioni colorati vengono preparati dal gruppo misto del campo internazionale della “Verde vigna”: sedute in cerchio, le compagne tessono una ragnatela di fili di lana colorati.
In realtà a Comiso il momento clou della protesta femminista avvenne qualche mese dopo. In occasione dell’8 marzo 1983, si ritrovarono a Comiso 1500 donne provenienti da tutte le parti del mondo. Vi fu un grande lavoro per portare queste donne a Comiso: allora non c’era Internet, non c’erano le email, non c’erano i telefonini e Whatsapp, vi fu un grande lavoro da parte delle attiviste che dovevano spostarsi fisicamente per l’Italia per coordinare i gruppi e spostarsi fisicamente in Europa. A questo si aggiunse poi il grande lavoro logistico per accogliere le centinaia di donne che arrivavano dall’Italia, dall’Inghilterra, dall’Olanda, dalla Francia, dall’America e persino dall’Australia.
Nei due campi di Greenham Common e di Comiso la presenza degli uomini fu di supporto logistico. A Greenham gli uomini, che in realtà erano i mariti, i compagni, i padri delle donne, aiutarono nell’allestimento del campo, dei bagni, delle tende, della cucine di cui poi erano responsabili. Quando venivano intervistati, la stampa che cercava di provocarli, si trovò davanti uomini profondamente orgogliosi di quanto stavano facendo le loro donne che protestavano contro la guerra e il nucleare.
A Comiso, dopo la carica della polizia, che portò all’arresto di undici pacifiste, le donne decisero di acquistare un piccolo appezzamento nella Vigna Verde vendendo mille quote in modo da poter creare un campo permanente che non fosse soggetto al sequestro da parte della polizia. Greenham Common fece la stessa scelta nel 1987 grazie ad una donazione di Yoko Ono.
Il campo di protesta della Ragnatela rimase molto attivo fino al 1984 e poi con più fatica negli anni successivi fino al 1987, quando l’accordo tra Gorbačëv e Reagan portò allo smantellamento degli euromissili sul territorio, mentre a Greenham l’occupazione continuò fino al 2000 e l’ ex-base missilistica venne donata come bene comune.
L’esperienza de “La ragnatela” viene oggi studiata da più parti. Nel 2023 ho intervistato Anna Luisa Leonardi, (2), una delle undici donne arrestate e poi processate a Ragusa, l’unica italiana; la figlia Irene mi ha confermato che da allora diverse studiose hanno intervistato la madre. Nel marzo 2024 è uscito il libro “Quando partimmo per la pace”, in cui l’esperienza di Comiso viene raccontata dalla figlia di una delle partecipanti, Ester Muzio.
L’internazionalismo delle donne pacifiste di quegli anni, le sinergie che seppero creare tra le varie esperienze dei campi di pace furono determinanti per il successo delle loro proteste, dall’Inghilterra alla Sicilia, dagli Stati Uniti all’Europa.
Partendo dalla riflessione sull’autoritarismo maschile, le femministe di Comiso misero in luce il legame tra oppressione femminile e militarismo, aspetto che rendeva il pacifismo una scelta politica radicale, consapevole e motivata, parte essenziale della più ampia lotta di liberazione della donna.
L’elaborazione femminista ha rinnovato, nello stesso tempo, la prassi pacifista, introducendo i gruppi di affinità come istanza di confronto e di decisione, in opposizione alle procedure assembleari maschili giudicate autoritarie ed aggressive. Oggi queste pratiche non solo sono consolidate ma si sono diffuse nei Movimenti.
I campi di pace, che si svilupparono numerosi in Europa e negli Stati Uniti, rivestirono un’importanza cruciale nella storia della protesta femminista pacifista, ma più in generale della protesta tout court, da più punti di vista: ne risultò un’esperienza inedita destinata a rinnovare la prassi pacifista e a costituire un modello per altre mobilitazioni.
1.Nel suo libro del 1988 “You can’t kill the spirit. Women and nonviolent actions“
2.La video intervista è visibile sulla pagine FB di Donna Reporter nella sezione video