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La resistenza di Harvard

Negli ultimi mesi, istituzioni, studi legali e università hanno ricevuto intrusioni da parte dell’amministrazione Trump, con la richiesta di eliminare programmi in corso, come quelli legati al rispetto delle politiche di diversità, equità e inclusione, pena il congelamento di fondi federali o l’impossibilità di svolgere il loro lavoro allo stesso modo: molti si sono seduti al tavolo per ottenere un’intesa. Tra questi, l’Università Columbia si è accordata con l’amministrazione, dando maggiore potere agli ufficiali di sicurezza per identificare e arrestare gli individui definiti “agitatori” all’interno del campus, e obbedendo alle richieste di controllo dei corsi d’insegnamento riguardanti il Medio Oriente. L’obiettivo dell’ente accademico era quello di vedersi sbloccati 400 milioni di dollari, precedentemente sospesi dall’amministrazione: nonostante l’intesa, i fondi sono rimasti bloccati e l’amministrazione ha fatto richieste sempre più pressanti.

Nello stesso periodo, il governo ha iniziato a revisionare i fondi ricevuti dall’Università di Harvard, una delle più importanti negli Stati Uniti. L’11 aprile, mentre secondo alcune ricostruzioni il board dell’università e l’amministrazione stavano avendo colloqui sul tema, all’ente accademico è stata recapitata una lettera da parte della task force sull’antisemitismo della Casa Bianca con richieste giudicate irricevibili, a cui si obbligava cooperazione immediata pena la perdita di ogni rapporto finanziario col governo. Tra queste, la modifica di tutti i processi di selezione dell’università, sia per quanto concerne gli studenti che il corpo docente, eliminando qualsiasi tipo di assunzione che considerasse criteri come etnia, genere o religione, la fine delle manifestazioni nei campus e provvedimenti disciplinari seri per violazioni anche precedenti all’invio della lettera.

Come ha evidenziato il New York Times, la lettera ha scioccato Harvard non solo per la natura delle richieste, del tutto simili a quelle che l’amministrazione stava facendo ad altri enti, ma soprattutto perché, al momento dell’invio della missiva, un tavolo di accordo tra le parti era in corso. Tra le altre cose, Harvard aveva già accettato di adottare una nuova definizione di antisemitismo, comprendente anche alcune critiche a Israele, come richiesto dall’amministrazione.

Il governo ha successivamente fatto sapere che la lettera era stata inviata per errore da un funzionario, ma ogni tipo di accordo era intanto saltato: Harvard, anche con l’assunzione di due avvocati di tendenza conservatrice, ha replicato duramente, non aderendo a nessuna delle richieste e citando in giudizio l’amministrazione stessa. Il presidente dell’Università, Alan Garber, ha scritto che “il governo vuole decidere chi assumiamo e cosa insegniamo; e per questo combattiamo per i valori che hanno reso l’istruzione americana un faro nel mondo, cercando l’eccellenza accademica, salvaguardando la ricerca e la libertà di pensiero”. In attesa del giudizio di un tribunale, ad Harvard sono stati congelati fondi per 2,2 miliardi di dollari, con la possibilità di arrivare fino a nove miliardi, ed è stata paventata la possibilità di toglierle lo status di esenzione fiscale, fondamentale per ricevere cospicue donazioni deducibili dalle tasse. Inoltre, l’università è stata minacciata anche di ricevere un blocco alla possibilità di immatricolare studenti stranieri.

Le motivazioni con cui l’amministrazione giustifica queste forti ingerenze nella vita accademica sono legate alla risposta, secondo il parere del governo mancante, degli enti alle proteste pro-Palestina avvenute nei campus l’anno scorso: avvenimenti che hanno messo a rischio “la sicurezza degli studenti ebrei nel campus” e su cui non si sarebbe intervenuto celermente a livello disciplinare. Questo, però, non giustifica l’abbattimento della libertà accademica: nei tagli alla Columbia, che hanno riguardato per 250 milioni la ricerca medica, si sono colpiti anche programmi a cui lavoravano ragazzi e ragazze di religione ebraica, a evidenziare quanto questa sia una motivazione di facciata.

La vera motivazione sottesa a uno scontro diretto con il mondo accademico, invece, è l’idea conservatrice che le università oggi siano bastioni del mondo liberal, ambienti di sinistra in cui le voci di destra vengono progressivamente marginalizzate: controllare e ridefinire gli standard di ammissione alle università d’èlite andrebbe quindi a cercare di modificare la popolazione universitaria. Un anno fa, JD Vance, in un’intervista con lo scrittore conservatore Rod Dreher, aveva già messo nero su bianco questo pensiero, che ampliava un suo discorso del 2021 in cui già aveva definito le università come “il nemico”: secondo il vicepresidente, Harvard sarebbe una perfetta manifestazione del fatto che le università non ricercano la verità, ma proteggono persone mediocri solo perché rientrano in una particolare narrativa politica. Addirittura, spingendosi oltre, ha asserito che con le università bisognerebbe prendere a esempio il modello ungherese di Viktor Orban. L’Ungheria è un paese non compiutamente democratico molto studiato dai think-tank conservatori, come Heritage Foundation e America First Policy Institute, che partecipano attivamente alle politiche dell’amministrazione.

Ciò che non si aspettava il governo, però, è la resistenza fino al tribunale di Harvard, soprattutto in uno schema, come quello configuratosi negli scorsi mesi, per cui tutti i principali enti hanno cercato di scendere a patti con Trump il prima possibile, nel tentativo di evitarne la furia: una vera e propria “obbedienza anticipatoria”, utilizzando l'espressione coniata dallo storico Timothy Snyder.

Uno dei motivi per cui l’università ha potuto permettersi di scontrarsi apertamente col governo è la sua ricchezza. Al 2024, infatti, più del 70% della dote di Harvard è investito in hedge fund e private equity, con un valore complessivo che arriva a 50 miliardi di dollari; anche se non nella sua totalità, l’ente può disporre di parte di questi soldi, e ha quindi la possibilità di sopperire ai finanziamenti governativi persi, almeno per un periodo limitato di tempo, facendo fondo ai propri risparmi. Per questo Harvard può permettersi di combattere una battaglia per conto dell’intero sistema accademico statunitense, e oltre 150 università hanno firmato una lettera che denuncia l’intrusione di Trump nelle prerogative accademiche: condividere le metodologie di assunzione, dare la possibilità di un audit esterno al governo e limitare il potere dei membri delle facoltà vengono viste come posizioni irricevibili.

La battaglia è tanto più importante in quanto in questi mesi il futuro dell’accademia statunitense sembra a rischio. La forza dell’università americana, fin dalla seconda guerra mondiale, è stata proprio legata al massiccio investimento governativo nella ricerca, che ha portato alla costruzione di centri d’élite che hanno attratto scienziati da ogni angolo del globo negli Stati Uniti. Oggi, la ricerca americana vive invece un periodo di profonda incertezza: da un lato, molti ricercatori hanno firmato contratti che garantiscono borse a lungo termine che non sanno se verranno tagliate in corso d’opera, correndo il rischio di rimanere negli Stati Uniti senza una fonte di reddito. Per di più, a essere tagliati sono progetti fondamentali a livello della ricerca scientifica: nell’ultimo mese il National Institutes of Health (NIH), la cui capacità di spesa è stata azzoppata dalla nuova amministrazione, ha affermato che toglierà tutti i fondi per la ricerca medica alle università che manterranno in piedi programmi di diversità e inclusione o continueranno a boicottare le aziende israeliane.

Inoltre, la situazione dei ricercatori su suolo americano che non sono cittadini statunitensi è sempre più difficile. La giustificazione del tentativo di deportazione di Mahmoud Khalil, residente negli Stati Uniti di origine palestinese e uno degli autori delle proteste contro la guerra a Gaza occorse lo scorso anno alla Columbia, è avvenuta attraverso una legge del 1952, che determina che possono essere rimpatriate le persone non cittadine ritenute dal governo un pericolo per la politica estera statunitense, anche senza aver commesso reati. La situazione di molti ricercatori non statunitensi, che magari nei mesi e anni passati si sono esposti politicamente, è complessa: più di mille studenti hanno subito la revoca del loro visto, e sono stati costretti o a lasciare il paese o a iniziare un contenzioso legale per riottenerlo. Chi invece non ha subito tutto questo preferisce comunque non lasciare gli Stati Uniti, avendo paura di non poter rientrare al ritorno.

Questa situazione difficile ha portato sempre più studenti a preferire altre mete rispetto agli Stati Uniti, come evidenziano i dati diffusi da Nature sulla fuga dei cervelli dalle università americane: tra gennaio e marzo 2025, il 32% in più di studenti statunitensi rispetto allo scorso anno ha deciso di fare domanda per fare ricerca all’estero, dove spesso si hanno salari più bassi, ma certezza riguardo al futuro del proprio progetto di ricerca.

La difesa di Harvard delle prerogative accademiche è quindi una battaglia fondamentale per il futuro delle università americane: se l’amministrazione dovesse prevalere in tribunale, nulla le impedirà di entrare a pieno titolo nei programmi e nella scelta delle assunzioni, generando un impoverimento culturale delle università stesse. Nel 2019, la Central European University ha spostato la sua sede da Budapest a Vienna, dopo una lunga battaglia legale per vedersi riconosciute le proprie prerogative dal governo ungherese. Il modello Orbàn, che ha costretto un’università di alto prestigio a cambiare Paese, è quello a cui JD Vance ha detto di voler tendere.

Immagine in anteprima: frame video NBC News via YouTube

5 giorni 8 ore ago