Riprendiamo qui un’ampia parte dell’interessante articolo di Luigi Torreggiani, Storia della piantagione di 240 milioni di alberi in Israele: non solo ecologia, ma anche il tentativo di ridefinire il paesaggio (L’AltraMontagna). Nel catenaccio che inquadra meglio in dettaglio il contributo precitato si scrive: « Sotto allo slogan “faremo rifiorire il deserto” – del leader sionista Ben Gurion – lo stato di Israele, fin dalla sua fondazione, ha realizzato estese piantagioni di alberi a rapido accrescimento, soprattutto di pini d’Aleppo, cipressi ed eucalipti. Rimboschimenti realizzati non solo con uno spirito ecologico, ma anche per molti altri obbiettivi secondari. Una storia da non dimenticare ». Ma non solo alberi! Torreggiani nel suo pezzo parla anche di una « reintroduzione di animali definiti biblici, come il daino o il grifone. Una mastodontica opera verde – insomma – che ha saputo mescolare ecologia, politica, lavoro, marketing territoriale, religione e strategie di occupazione »[accì]
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[…] “Per anni Israele ha cercato di definirsi una democrazia verde, interessata alla biodiversità e alla protezione degli spazi naturali”, spiega in un articolo Sami Erchoff, giornalista e scienziato politico franco-marocchino. “Il Jewish National Fund (JNF), fondato nel 1901, si vanta di aver piantato più di 240 milioni di alberi dalla sua creazione. Questa politica ambientale ha aiutato la narrativa infondata di una terra trascurata, disabitata e devastata. Una terra molto lontana dal paradiso terrestre descritto nell’Antico Testamento”.
Ovviamente il JFN racconta la questione in modo diametralmente opposto: “Siamo la più antica organizzazione ecologica al mondo. Da oltre un secolo la nostra mission è lo sviluppo, la bonifica e il rimboschimento della Terra di Israele. Il nostro know-how e lo sfruttamento delle risorse esistenti hanno trasformato zone desertiche in meravigliose terre verdi”.
Di altro avviso è la storica Anna Maria Brancato, che nella sua Tesi di dottorato spiega chiaramente come la costruzione di parchi e foreste aveva almeno altre due funzioni: “Oltre a contribuire all’affossamento della memoria palestinese, era finalizzata alla costruzione dell’immagine di uno stato di Israele moderno, verde e soprattutto non nato sopra le macerie di villaggi distrutti”.
Secondo uno studio dell’organizzazione no-profit israeliana Zochrot, citato nell’articolo di Sami Erchof, circa 200 villaggi palestinesi spopolati sono nascosti all’interno delle foreste e delle riserve naturali israeliane. Tra le 68 foreste e parchi di proprietà del JNF, 46 nascondono le rovine di 89 villaggi palestinesi.
Anita Shapira, nel libro Israel: a History (citata da Brancato) racconta bene la narrativa portata avanti attorno a queste piantagioni: “Una festa per il rimboschimento era stata organizzata il quindici del mese di Shevat. Secondo la narrazione sionista, gli arabi avrebbero distrutto le foreste del paese, causando l’erosione del suolo. Ora gli ebrei sono arrivati per ridonare alla Palestina la sua originaria bellezza di una terra dove scorre latte e miele, e quindi gli alberi devono essere ripiantati. La cerimonia, tenuta dai bambini dell’asilo e della scuola primaria, è stata un incoraggiamento a identificarsi con lo slogan far rifiorire il deserto”.

“Gli alberi costituiscono oggi un forte referente nazionale”, sottolinea Sami Erchoff. “Gli ulivi sono il simbolo della Palestina, mentre i pini sono visti come alberi israeliani”.
Non a caso, i rimboschimenti di conifere israeliani sono stati spesso oggetto di attacchi da parte dei palestinesi, attraverso incendi dolosi che hanno provocato nel tempo numerosi danni. Proprio a seguito di alcuni grandi incendi avvenuti di recente, nel mezzo dei boschi distrutti dalle fiamme sono tornati alla luce terrazzamenti e case avvolte da decenni dalle piantagioni.
Chiaramente questi rimboschimenti molto estesi e diffusi a macchia d’olio (alla cui realizzazione, come descritto in un commento del Professor Roberto Mercurio, hanno contribuito tecnicamente anche illustri forestali italiani come Alessandro de Philippis, storico docente di selvicoltura dell’Università di Firenze), hanno portato anche benefici tangibili, quelli che la presenza di ogni foresta garantisce. Ma è estremamente interessante comprendere come dietro la piantagione estesa di alberi si possano celare obiettivi non solo ecologici. Una “israelizzazione del paesaggio” che è stata alla base della costruzione del nuovo Stato, soprattutto agli inizi.
Secondo uno studio di Shaul Amir e Orly Rechtman del Technion – Israel Institute of Technology: “Il coinvolgimento dell’establishment sionista, e successivamente dello Stato di Israele e del JFN, influenzò la creazione di un paesaggio istituzionalizzato, diverso ed estraneo ai paesaggi vegetazionali locali. L’establishment mise l’obiettivo della riforestazione al servizio di differenti esigenze nazionali”. I risultati di questo studio supportano l’ipotesi secondo cui il paesaggio riforestato esprime un’ideologia nazionale e la volontà di vari interessi dello Stato e delle organizzazioni coinvolte, più che una manifestazione delle condizioni naturali locali.
“Il nuovo paesaggio riforestato è il risultato di decisioni legate principalmente ai processi di costruzione statale”, spiegano i due ricercatori. “Il cambiamento avvenuto si può osservare nel passaggio da un paesaggio mediterraneo locale – con la sua vegetazione tipica, l’agricoltura tradizionale e i villaggi – a uno caratterizzato da foreste simili a quelle europee, piantate su aree montuose e valli, e coltivate con metodi agricoli moderni e intensivi”.

La vasta politica di rimboschimento israeliana, insomma, oltre a perseguire lo slogan di “far rifiorire il deserto” e a fornire servizi ecosistemici per la collettività, ha avuto ben altri fini. I rimboschimenti sono stati utilizzati giuridicamente come strumenti di occupazione a lungo termine della terra; narrativamente come emblema di un’azione benefica per la cura di un paesaggio degradato che necessitava di essere riportato agli splendori narrati nella Bibbia; socialmente come fonte di lavoro per gli abitanti dei kibbutz; visivamente come “mantello verde” per coprire le tracce di un passato scomodo; infine politicamente, anche a livello internazionale, come biglietto da visita di uno Stato moderno, ecologico e all’avanguardia.
Non si tratta tuttavia solo di un’azione del passato. Le recenti proteste di migliaia di beduini contro un rimboschimento in Neghev, considerato dagli stessi un preludio alla futura confisca da parte dello Stato, dimostrano che questa pratica è ancora attuale. Nel già citato articolo di Sami Erchoff viene spiegato come la vasta piantagione di alberi da parte dei coloni in Cisgiordania sia una tecnica ormai consolidata per occupare nuovi territori.
Specularmente alle piantagioni, è cronaca di questi mesi anche la distruzione di buona parte delle coltivazioni presenti nella Striscia di Gaza, come raccontato su Internazionale da George Monbiot (articolo originale apparso su The Guardian): “Mentre la distruzione di edifici e infrastrutture a Gaza è evidente in ogni video che vediamo, meno visibile è la distruzione parallela di ecosistemi e mezzi di sussistenza. Prima delle atrocità del 7 ottobre che hanno provocato l’attuale aggressione a Gaza, era coltivato circa il 40 per cento della terra palestinese. Nonostante la sua densità abitativa estremamente alta, Gaza era per lo più autosufficiente per quel che riguardava ortaggi e pollame e riusciva a soddisfare gran parte della domanda della popolazione di olive, frutta e latte. Ad agosto, però, le Nazioni Unite hanno riferito che solo l’1,5 per cento dei suoi terreni agricoli è accessibile o non danneggiato. Si tratta di circa duecento ettari: l’unica superficie disponibile per sfamare più di due milioni di persone”.
Perché raccontare questa storia? Per attaccare e delegittimare il popolo israeliano? Per gettare un ulteriore e francamente inutile seme d’odio sopra un terreno già più che saturo? No, l’intento non è certo questo. L’invito è a riconoscere che anche il bosco può coprire, ma al tempo stesso disvelare, logiche umane volte a dividere, per poi immaginare una strada per unire.
“La politica forestale per la prossima generazione dovrà garantire una maggiore diversità nella composizione delle foreste esistenti, affinché esse rappresentino e valorizzino la ricchezza della vegetazione e del paesaggio”, hanno scritto Amir e Rechtman in conclusione del loro studio.
Una storia, questa, che si fa quindi metafora e che ci invita a guardare oltre le apparenze, anche quando, speriamo presto, le parole chiave diventeranno ricostruzione o piantagione.