Negli ultimi tempi, in Italia, ma con maggior forza in città borghesi come Salerno, si è assistito a una vera e propria esplosione di premi: dai premi di risultato per i lavoratori ai riconoscimenti per l’innovazione, dalla moda alla letteratura, fino ai concorsi di bellezza e ai premi per le professioni. Questo fenomeno non è casuale, ma riflette una società in cui la mobilità sociale si è ridotta, le élite si sono consolidate e la partecipazione democratica si è impoverita. I premi, sempre più numerosi e spettacolarizzati, servono a legittimare chi sta in alto, a creare l’illusione del merito e a mascherare la mancanza di reali opportunità di avanzamento. Ma perché la società italiana ha così bisogno di premi? E cosa rivelano sulla nostra epoca?
Negli ultimi anni, i premi di risultato per i lavoratori sono diventati uno strumento sempre più diffuso. Secondo la Legge di Bilancio 2025, la detassazione dei premi di produttività è stata confermata fino al 2027, con un’aliquota agevolata al 5% per somme fino a 3.000 euro lordi annui, a condizione che siano legati a “incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili”. Questo meccanismo, introdotto nel 2016, ha portato a un “sensibile incremento al deposito dei contratti di secondo livello finalizzati al riconoscimento di premi di produttività”. In pratica, sempre più aziende e settori adottano sistemi premiali, spesso in sostituzione di aumenti salariali strutturali.
Ma non si tratta solo di premi economici: anche i riconoscimenti simbolici (letterari, artistici, professionali) sono in costante aumento. Ogni categoria corporativa (avvocati, giornalisti, medici, imprenditori) ha i suoi premi, spesso assegnati da giurie composte da membri della stessa cerchia. Il risultato è un sistema in cui chi è già in posizione di potere viene ulteriormente legittimato, mentre chi è ai margini fatica a emergere.
Come osservato dal sociologo Pierre Bourdieu, i premi sono capitali simbolici: non hanno valore economico diretto, ma conferiscono prestigio e autorità a chi li riceve. In una società dove la mobilità sociale è bloccata e le disuguaglianze crescono, i premi servono a:
- Autolegittimare le élite: chi detiene il potere (economico, culturale, professionale) si premia tra pari, rafforzando la coesione interna al gruppo e escludendo gli outsider.
- Creare l’illusione del merito: i premi danno l’impressione che il successo sia accessibile a tutti, mentre in realtà premiano chi già gode di privilegi (reti, risorse, istruzione).
- Sostituire la partecipazione reale: in un contesto dove gli spazi di democrazia diretta si riducono, i premi diventano un surrogato di riconoscimento, offrendo visibilità a pochi e pacificando il resto della società.
Non a caso, i premi di produttività sono spesso legati a indicatori quantitativi (produttività, redditività, efficienza) che premiano le aziende e i lavoratori già più competitivi, mentre i premi culturali e professionali tendono a celebrare chi è già dentro il sistema.
Premi e corporativismo: chi vince davvero?
La maggior parte dei premi italiani è assegnata da giurie autoreferenziali: editori che premiano autori, imprenditori che premiano altri imprenditori, giornalisti che premiano colleghi. Questo meccanismo rafforza la chiusura delle élite e la riproduzione delle gerarchie esistenti. Ad esempio, i premi letterari come lo Strega o il Campiello sono spesso criticati per la loro tendenza a premiare autori già affermati o legati a grandi editori. Allo stesso modo, i premi di produttività sono accessibili soprattutto a chi ha già contratti aziendali o territoriali, escludendo i lavoratori precari o delle piccole imprese.
Anche i premi "locali", pur presentati come strumenti di “meritocrazia”, sono in realtà meccanismi di controllo e cooptazione: incentivano la competitività individuale a scapito della solidarietà collettiva e spesso sono strumenti atti ad escludere invece di includere.
I premi non servono solo a legittimare chi comanda, ma anche a distogliere l’attenzione dalle disuguaglianze reali. Pensiamo ai concorsi di bellezza: celebrano un modello di femminilità borghese e standardizzata, offrendo al pubblico l’illusione che la bellezza e il successo siano alla portata di tutti, mentre in realtà premiano chi corrisponde a canoni prestabiliti e ha accesso a risorse (palestre, stilisti, agenzie).
Allo stesso modo, i premi all’innovazione o all’imprenditoria spesso vanno a figure già affermate, rafforzando l’idea che il successo sia frutto del talento individuale, non delle opportunità strutturali. In questo senso, i premi sono rituali di autoaffermazione di una classe dirigente che, non potendo più contare su un consenso diffuso, ha bisogno di autocelebrarsi per mantenere la propria legittimità.
Se i premi sono uno strumento di potere, la risposta non può essere solo criticarli, ma costruire alternative. Alcune proposte concrete:
- Democrazia diretta e partecipazione: usare le nuove tecnologie (piattaforme open source, blockchain, assemblee digitali) per coinvolgere davvero i cittadini nelle decisioni, senza delegare a élite chiuse.
- Educazione digitale critica: insegnare a usare gli strumenti di partecipazione in modo consapevole, per evitare che diventino nuovi strumenti di controllo.
- Rappresentanza transitoria e rotativa: laddove la delega è necessaria, i rappresentanti devono essere temporanei, revocabili, sorteggiati o a rotazione, per evitare la formazione di caste permanenti.
- Esperienze dal basso: cooperative autogestite, bilanci partecipativi, assemblee di quartiere sono esempi di come si possa decidere insieme, senza bisogno di premi o riconoscimenti esterni.
Esempi virtuosi esistono: a Barcellona, la piattaforma Decidim permette ai cittadini di partecipare attivamente alle decisioni pubbliche; in Taiwan, il sistema vTaiwan coinvolge la popolazione nella scrittura delle leggi. In Italia, esperienze come i beni comuni o le cooperative autogestite mostrano che un altro modo di organizzarsi è possibile.
La proliferazione dei premi è il sintomo di una società che ha perso fiducia nella mobilità sociale e nella democrazia partecipativa. Ma la soluzione non è solo smascherare l’ipocrisia dei premi, ma ricostruire spazi di reale partecipazione, dove il riconoscimento non venga dall’alto, ma dalla capacità collettiva di decidere insieme. Solo così si può spezzare il circolo vizioso dell’autoreferenzialità e costruire una società più giusta e aperta.
Riferimenti e approfondimenti:
- [Legge di Bilancio 2025: detassazione premi di risultato fino al 2027] [Analisi sui premi di produttività e contrattazione di secondo livello]
- [Pierre Bourdieu, “La distinzione. Critica sociale del gusto”]
- [Esempi di democrazia digitale: Decidim, vTaiwan]