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Unione Europea

Nell’Unione Europea libertà dei media sempre più a rischio: è in corso una “battaglia esistenziale” contro governi apertamente antidemocratici

“La libertà e il pluralismo dei media sono sotto attacco in tutta l'UE e, in alcuni casi, stanno combattendo una battaglia esistenziale contro governi apertamente antidemocratici”. A lanciare il grido d’allarme è il Media freedom report 2025, pubblicato dalla Civil Liberties Union for Europe, organizzazione con sede a Berlino che riunisce 23 associazioni per i diritti civili. Il rapporto è stato redatto con il contributo di 43 organizzazioni in 21 Stati membri e fotografa un’Europa dove pluralismo, indipendenza editoriale e protezione dei giornalisti sono sempre più a rischio.

Una crisi sistematica che attraversa l’Europa

In numerosi paesi dell’UE, i governi e i principali attori economici stanno mettendo a repentaglio l’indipendenza dei media. Tra le minacce più diffuse, il rapporto menziona: la concentrazione della proprietà editoriale nelle mani di pochi “ultra-ricchi” o anche di funzionari pubblici, la scarsa trasparenza sulla proprietà effettiva dei media, l’uso distorto della pubblicità istituzionale e l’indebolimento dei servizi pubblici radiotelevisivi. Il tipo e la frequenza di queste minacce evidenziano in alcuni paesi una fragilità strutturale del sistema mediatico, e che preoccupano in vista della piena attuazione dell’European Media Freedom Act (EMFA), prevista per agosto 2025.  

Il tentativo dell’UE di rafforzare tutele e diritti con l’EMFA e la Direttiva Anti-SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation, ovvero le querele temerarie) sta infatti incontrando resistenze in diversi Stati membri, anche prima della loro piena applicazione. In Ungheria “La proprietà dei media rimane altamente concentrata nelle mani di poche persone”, le quali sono “quasi tutte alleate del governo”, si legge nel rapporto. Problemi di trasparenza e concentrazione proprietaria si registrano anche in Croazia, Repubblica Ceca, Malta e Paesi Bassi. 

Tra i paesi dove i giornalisti e professionisti del settore sono più esposti al rischio SLAPP troviamo Bulgaria, Croazia, Belgio, Germania, Ungheria, Lituania, Slovacchia e anche l’Italia. I giornalisti continuano a essere vittime di violenze fisiche, intimidazioni online e discorsi d’odio, spesso provenienti da esponenti politici. Il rapporto segnala inoltre l’uso opaco dei fondi pubblici per finanziare media vicini ai governi, come accaduto in Bulgaria, Croazia e Spagna.

Bulgaria e Slovacchia sono i paesi europei dove è più alta la sfiducia nei media: un dato su cui probabilmente incidono anche gli attacchi governativi diretti contro i giornalisti. In Slovacchia, il Primo Ministro Robert Fico ha per esempio querelato sia il direttore del sito di informazione Aktuality.sk, sia l’editore di un libro su di lui.

Il caso italiano


La sezione dedicata all’Italia, cui ha collaborato la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (CILD), non fa quindi eccezione. Proprio sul fronte SLAPP si registrano i dati più preoccupanti. Secondo la piattaforma Mapping Media Freedom, citata nel rapporto, su 44 casi legali che vedono imputati giornalisti 17 sono partiti da funzionari pubblici. L’Italia è inoltre il paese con il più alto numero di SLAPP tra quelli esaminati dalla CASE (Coalition Against Slapp in Europe).

Per il Media freedom report in Italia la concentrazione della proprietà editoriale rappresenta una minaccia diretta al pluralismo. Particolare attenzione viene rivolta alla possibile acquisizione dell’agenzia di stampa AGI da parte del Gruppo Angelucci, di cui si è discusso nel marzo 2024. Il fondatore del gruppo, Antonio Angelucci, è parlamentare della Lega e già proprietario di testate come Il Giornale, Libero e Il Tempo, mentre l’AGI è una delle principali agenzie di notizie e ha come editore ENI. 

L’operazione ha sollevato forti critiche sia per la possibile compromissione dell’indipendenza editoriale di una delle principali agenzie stampa italiane, sia per le implicazioni politiche del controllo informativo esercitato da una figura legata all’attuale governo. Alle critiche ha fatto eco la stessa redazione dell’AGI, che è entrata in stato di agitazione, con diversi giorni di sciopero e il ritiro delle firme dal sito. A maggio è arrivata invece il voto di sfiducia alla direttrice Rita Lofano, per “timori di conflitto di interessi, dovuti allo stretto rapporto di lavoro di Lofano con l'ex direttore Mario Sechi” (direttore di Libero ed ex portavoce della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni). La trattativa sembrerebbe poi essersi arenata durante l’estate, spingendo Angelucci ad attaccare direttamente il governo.

Un’altra area critica è Il settore pubblico radiotelevisivo, sotto costante pressione politica, e non da oggi. Interferenze sulla governance e sulla distribuzione dei fondi mettono a rischio l’autonomia della RAI, con un impatto negativo sulla qualità dell’informazione. L’assenza di un meccanismo indipendente di nomina dei vertici e il finanziamento non garantito agiscono come leva per condizionare i contenuti editoriali. Oltre alle pressioni politiche “senza precedenti” che i giornalisti subiscono, c’è perciò anche un rischio di auto-censura. Tra i casi citati nel rapporto c’è la cancellazione del monologo di Antonio Scurati, previsto per la puntata del 25 aprile della trasmissione Che sarà. Per quell’episodio è stata sanzionata la conduttrice Serena Bortone, che aveva denunciato la censura del monologo. Il programma è stato poi sospeso. 

Per Andrea Orlandi, condirettore esecutivo di CILD, “La persistente concentrazione della proprietà editoriale, la governance del servizio pubblico e le querele bavaglio minano profondamente il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione nel nostro paese.”

Tra erosione democratica e segnali di speranza

A dispetto dei numerosi segnali di allarme evidenziati, a livello europeo il rapporto individua alcune tendenze divergenti. Da un lato, paesi come Ungheria e Slovacchia appaiono sempre più orientate verso un controllo diretto del sistema mediatico, con la Slovacchia che ha eliminato le garanzie per l’indipendenza editoriale del servizio pubblico. Dall’altro paesi come la Polonia e la Slovenia hanno intrapreso riforme positive che viaggiano in direzione opposta. In Slovenia, ad esempio, il nuovo governo ha depoliticizzato la governance del servizio pubblico RTV, restituendogli una maggiore autonomia.

Nonostante le difficoltà di implementazione evidenziate, il 2024 ha visto comunque entrare in vigore, in tutto o in parte, diverse leggi sulla libertà e il pluralismo. Oltre alla già citata legge europea sulla libertà dei media (EMFA) e alla direttiva anti-SLAPP, ci sono state la legge sui servizi digitali (DSA), la legge sui mercati digitali (DMA), il regolamento sul targeting e la trasparenza della pubblicità politica (TTPA) e la legge sull'intelligenza artificiale (AIA). Si è così creato un nuovo quadro giuridico che, se applicato bene, potrebbe rafforzare la libertà e il pluralismo dei media. 

A fare la differenza sarà dunque la volontà dei singoli paesi membri. In Italia, ad esempio, la CILD ha sottolineato come non siano state adottate misure strutturali adeguate per garantire la piena conformità con l’EMFA. La mancanza di un database pubblico e aggiornato dei beneficiari effettivi dei media, come richiesto dall’articolo 6 del regolamento, rappresenta una grave lacuna. Resta infine da chiarire come saranno distribuiti in modo trasparente e non discriminatorio i fondi pubblicitari statali.

Tra le raccomandazioni del rapporto per i prossimi anni, si suggerisce all’UE di ricorrere a finanziamenti diretti e indipendenti dagli Stati Membri. Finanziamenti di questo tipo andrebbero destinati a “media e altre organizzazioni della società civile che sono fondamentali per la libertà e il pluralismo dei media, la libertà di espressione e il funzionamento della democrazia”, oltre che ad “avvocati che difendono i diritti umani e progetti di sensibilizzazione”.

(Immagina anteprima: frame via YouTube)

 

L’accordo commerciale UE-Ucraina e la sopravvivenza economica di Kyiv

di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, Italia), Sofia Nazarenko (24tv.ua, Ucraina), Hugo Dos Santos (freelance, Francia)

Nelle stesse settimane in cui il presidente statunitense Donald Trump brandiva la scure di una guerra commerciale globale contro l’Unione Europea e gran parte del mondo, un altro sviluppo legato ai dazi è passato perlopiù inosservato; meno drammatico e minaccioso nei toni, e perciò più promettente per il futuro, nonostante diverse incertezze.

Si tratta dell’accordo di liberalizzazione economica tra l’UE e l’Ucraina, e in particolare delle Misure Commerciali Autonome (ATMs), introdotte per la prima volta nel 2022 dopo l’invasione su larga scala della Russia, e rinnovate ogni anno nonostante le crescenti pressioni di alcuni Stati membri.

Dopo l’inizio della guerra russa, l’UE ha temporaneamente sospeso dazi doganali e quote tariffarie sui prodotti ucraini per sostenere l’economia del paese durante il conflitto. Per due anni, le imprese ucraine hanno potuto esportare beni nel mercato interno dell’UE senza restrizioni.

Negli ultimi mesi, i colloqui si sono concentrati sempre più su un piano alternativo: sostituire le ATMs con limiti aggiornati nel quadro dell’accordo di libero scambio UE–Ucraina firmato nel 2014, all’indomani della rivoluzione di Euromaidan e del rinnovato orientamento pro-europeo di Kyiv.

Mentre la guerra commerciale globale di Trump è stata rinviata — tranne che per la Cina — per 90 giorni, il regime commerciale UE–Ucraina è destinato a scadere il 5 giugno.

Sensibilità politiche e protezionismo europeo nel settore agricolo

Già nel giugno 2024, però, l’Unione Europea aveva introdotto le prime limitazioni. La liberalizzazione commerciale era stata prorogata per un altro anno, ma con riserve su alcune cosiddette "merci sensibili" — carne di pollame, uova, zucchero, avena, cereali, mais e miele.

Queste misure sono state una risposta alle diffuse proteste degli agricoltori europei, e alle pressioni dei governi dell’Europa centrale e orientale, che sostenevano che le importazioni ucraine stavano abbassando i prezzi interni e minacciando i loro settori agricoli.

La decisione di limitare parzialmente il sostegno è arrivata proprio a ridosso delle elezioni del Parlamento europeo, con le principali forze politiche intenzionate a non perdere l’appoggio degli elettori, specialmente nelle aree rurali.

Lo scenario è politicamente delicato. Rivedere l’accordo significa dover gestire un equilibrio complicato dopo oltre un anno di proteste agricole e pressioni governative — in particolare da Polonia e Romania, entrambe attese da elezioni presidenziali questo mese, così come Francia, Ungheria e Slovacchia, con le ultime due spesso contrarie a una più stretta cooperazione UE–Ucraina.

Al di là delle immagini, ormai familiari, dei contadini polacchi in protesta dal 2023, la crescente presenza dell’Ucraina come esportatore agricolo nell’UE è diventata un nodo politico per alcuni Stati membri, in particolare per l’aumento costante delle esportazioni ucraine in settori chiave.

Nel febbraio 2025, i ministri dell’Agricoltura di Ungheria, Bulgaria, Romania e Slovacchia hanno chiesto la reintroduzione delle quote prebelliche sulle importazioni agricole dall’Ucraina.

Da anni, gli agricoltori francesi vivono una crisi profonda del modello economico e sociale a loro imposto, e nel 2024 Parigi ha vissuto un forte movimento sociale, con numerose manifestazioni e blocchi stradali. Sebbene le cause del malcontento siano molteplici e spesso strutturali, l’accordo UE-Ucraina era sulla bocca di tutti.

Ultimamente, l’attenzione degli agricoltori francesi si è concentrata sull’accordo con il Mercosur. Il governo francese si è detto apertamente contrario, temendo una concorrenza sleale. La pressione sul governo, composto da una fragile coalizione senza una chiara maggioranza, è in aumento.

Gli agricoltori francesi denunciano la concorrenza sleale dovuta alle differenze negli standard di produzione. Nonostante i meccanismi di salvaguardia introdotti dall’UE — come il ripristino dei dazi su certi prodotti agricoli ucraini che superano i volumi medi del periodo 2021–2023 — il grano non è stato incluso. Il ministro dell’Agricoltura francese dal 2022 al 2024, Marc Fesneau, ha definito queste misure insufficienti, chiedendo un ampliamento delle restrizioni anche ai cereali.

Di fronte a queste sfide, la Francia spinge per l’introduzione delle cosiddette “clausole specchio”, volte a imporre agli importati gli stessi standard sanitari e ambientali richiesti nella UE. L’obiettivo è garantire una concorrenza equa e tutelare gli standard europei.

In un comunicato del 21 marzo 2024, il potente sindacato agricolo FNSEA ha dichiarato di voler “coniugare solidarietà [con gli ucraini] e responsabilità”, al fine di “proteggere gli agricoltori [francesi]”.

Eppure, per Kyiv, queste esportazioni sono molto più di un tema economico: rappresentano una linfa vitale per sostenere la resistenza del paese e la sua resilienza in un contesto di aggressione russa e di recente riduzione degli aiuti USA.

Il quadro commerciale complessivo racconta una storia diversa da quella di chi sostiene che l’Ucraina stia approfittando dell’accesso al libero scambio UE, evocando il concetto ambiguo di reciprocità economica di Trump. 

Lo scorso anno, l’UE ha registrato un surplus commerciale di 18 miliardi di euro nei confronti dell’Ucraina, con un interscambio bilaterale che ha raggiunto quasi i 70 miliardi: un promemoria del fatto che la relazione non è affatto a senso unico.

Tra promesse e realpolitik

Nonostante l’incertezza persistente e le speculazioni sul fatto che il Parlamento europeo possa non voler prorogare le misure, Kyiv resta cautamente ottimista.

I funzionari ucraini ritengono che alla fine una decisione verrà presa — poiché un fallimento dei negoziati manderebbe un segnale fortemente negativo, specie alla luce dell’approccio aggressivo della nuova amministrazione statunitense. Tuttavia, “la fiducia in ciò sta diminuendo costantemente”, scrive Yurii Panchenko su European Pravda.

Secondo un report di Politico dell’8 aprile, il Commissario UE all’Agricoltura, Christophe Hansen, ha confermato che la Commissione europea intende lasciare scadere a giugno l’accesso d’emergenza dell’Ucraina al mercato UE. Hansen ha escluso un’estensione del regime attuale, affermando che il Consiglio ha chiarito che non esiste tale possibilità. Ha anche precisato che, pur decadendo le misure straordinarie, molte restrizioni commerciali esistenti resteranno in vigore.

“Anche se l’Ucraina chiede un’estensione delle misure autonome, gli Stati membri non possono farlo perché la decisione è già stata presa,” ha dichiarato il ministro polacco per gli Affari europei Adam Shlapka.

L’Ucraina propone invece una revisione dell’Accordo di Associazione, che regola i rapporti commerciali tra le parti. Il premier Denys Shmyhal propone una proroga fino a fine anno per consentire consultazioni e adeguamenti economici.

“A tutti i livelli, abbiamo discusso dell’importanza di mantenere le misure commerciali autonome almeno fino alla fine dell’anno. È necessario per modificare l’Articolo 29 dell’Accordo di Associazione e stabilire meccanismi che permettano di commerciare senza dazi,” ha detto Shmyhal durante il 10° Consiglio di Associazione UE-Ucraina, dove ha incontrato tra gli altri Josep Borrell, Roberta Metsola e il commissario all’Allargamento Marta Kos.

“Non stiamo riscrivendo tutto l’accordo, si parla solo di alcune voci tariffarie,” ha dichiarato a Politico il negoziatore ucraino Taras Kachka, pure presene durante il Consiglio di Associazione, il 10 aprile.

Per salvare l’accordo, Kyiv ha mostrato disponibilità a fare concessioni su alcuni prodotti agricoli politicamente sensibili — tra cui zucchero, pollame e uova — purché l’accesso al mercato resti garantito.

“Al Parlamento europeo ci sono forze che, sotto la pressione della lobby agricola, chiedono il ritorno dei dazi su prodotti come zucchero, uova, pollame e bioetanolo, il che è miope e rischia di compromettere i rapporti UE-Ucraina nel lungo termine. Molti interventi nel dibattito si basano su disinformazione: in realtà questi prodotti non incidono significativamente sui prezzi alimentari nell’UE,” ci racconta l’eurodeputata Karin Karlsbro (Renew Europe), relatrice permanente sul sostegno economico all’Ucraina.

Il Commissario Hansen ha infatti spiegato che la Commissione europea sta lavorando a un nuovo sistema di quote tariffarie, che sostituirà l’attuale regime di liberalizzazione completa offrendo un accesso più limitato ma comunque migliore rispetto alle condizioni precedenti all’invasione.

“La questione tra UE e Ucraina riguarda solo i prodotti agricoli. E qui sta il nodo: cosa succederà dopo la fine delle misure autonome? La Commissione ha dichiarato che non serve estenderle, e che negozieremo ai sensi dell’Articolo 29. Ora attendiamo la posizione dell’UE, che non è ancora stata formulata,” ha detto Kachka durante l’evento online “L’UE metterà fine al commercio senza dazi con l’Ucraina?”, organizzato dal Centro per la Strategia Economica.

La Commissione ha confermato la disponibilità a consultarsi sull’Articolo 29. Il portavoce Olof Gill ha detto che Bruxelles sta finalizzando la proposta e la sottoporrà a breve alla parte ucraina.

“L’obiettivo è garantire stabilità economica e prevedibilità per imprese e agricoltori sia in Ucraina che nell’UE, facilitando una transizione ordinata dopo la scadenza delle misure autonome,” ha dichiarato.

Secondo Svitlana Taran, esperta del Centre for European Policy, la revisione dell’Articolo 29 è un processo tecnico che richiede negoziati tra UE e Ucraina. Potrebbe richiedere tempo, e le decisioni potrebbero arrivare dopo giugno 2025.

Taran sottolinea anche che alcuni Stati membri vogliono introdurre restrizioni su merci sensibili. A suo avviso, ciò potrebbe peggiorare le condizioni esistenti prima dell’accordo del 2022.

“L’obiettivo dell’Ucraina è evitare un peggioramento delle condizioni, trovando al contempo una soluzione che risponda alle preoccupazioni degli Stati membri,” ha concluso.

Il futuro commerciale dell’Ucraina, sospeso tra Stati Uniti e Unione Europea

Il 16 aprile, il deputato ucraino Yaroslav Zhelezniak, del partito liberale e pro-europeo Holos, ha annunciato che la Verkhovna Rada, il parlamento ucraino, ha rivolto alle istituzioni europee una richiesta formale per prorogare il regime di liberalizzazione commerciale. La Risoluzione n. 13143, con l’appello ufficiale all’UE, è stata approvata da 252 parlamentari, secondo Forbes Ukraine.

Il testo chiede all’UE di “avviare immediatamente e rendere il più efficace possibile il processo negoziale tra Ucraina e Commissione Europea per modificare gli allegati dell’Accordo di Associazione relativi alle concessioni tariffarie reciproche sulle importazioni.”

Alcuni esperti e corrispondenti sono meno ottimisti di Kachka, tra cui Anton Filippov di European Pravda. Sebbene la Commissione si fosse impegnata a negoziare una liberalizzazione più ampia, il processo non è ancora partito. Secondo il Financial Times, due diplomatici UE hanno riferito che Bruxelles avrebbe ritardato la proposta per non irritare gli agricoltori polacchi, bacino elettorale cruciale in vista delle presidenziali del 18 maggio.

Le attuali consultazioni puntano a “garantire stabilità economica e prevedibilità per le imprese e gli agricoltori di Ucraina e UE”, ha ribadito il portavoce Gill. Ma resta forte il timore che un accordo sia improbabile da raggiungere in poco più di un mese. Se la guerra dovesse protrarsi oltre quella soglia — cosa che resta probabile, al di là delle promesse e della retorica di Trump — per l’economia ucraina si aprirebbero scenari particolarmente critici.

Quanto a Trump, secondo Bloomberg del 16 aprile, gli Stati Uniti avevano ammorbidito le loro richieste sull'accordo per le materie prime ucraine dopo i colloqui a Washington. Nello specifico, l’amministrazione Trump avrebbe ridotto da 300 a 100 miliardi di dollari il rimborso che chiede all’Ucraina nel quadro dell’accordo, secondo fonti riservate. L’apertura sarebbe arrivata dopo le consultazioni tecniche tra le delegazioni americana e ucraina l’11 e 12 aprile.

Il 16 aprile, la vicepremier ucraina Yulia Svyrydenko ha parlato di “progressi sostanziali” nei negoziati e ha annunciato la firma imminente di un memorandum, poi concretizzatasi ufficialmente il 30 aprile. Ma mentre si attende un piano di pace chiaro e duraturo, Kyiv è rimasta impantanata, negli ultimi mesi, in trattative con i suoi alleati principali per garantirsi la sopravvivenza economica — condizione necessaria per continuare la resistenza militare contro l’aggressione russa, che nelle ultime settimane ha intensificato gli attacchi ai civili.

Secondo Taran, l’Ucraina dipende sì dagli aiuti occidentali, ma la possibilità di esportare riduce questa stessa pressione sui partner: “L’export è una fonte fondamentale di entrate per il nostro paese, e la Commissione europea ne è perfettamente consapevole. È pronta a negoziare con i singoli Stati membri per arrivare a un consenso”, ci racconta.

In questo senso, l’approccio dell’UE alla cooperazione commerciale con Kyiv è particolarmente indicativo. Come osserva l’eurodeputata Karlsbro, “un esempio attuale di come la politica commerciale dell’UE possa avere un impatto concreto è la proposta di mantenere l’accesso senza dazi all’acciaio ucraino. Mentre gli Stati Uniti hanno appena introdotto dazi del 25% sui prodotti in metallo, la Commissione europea ha invece previsto un trattamento separato per l’acciaio”. Il voto positivo al Comitato Commercio del Parlamento europeo rappresenta, ci dice Karlsbro, “un chiaro segnale politico di sostegno”.

“L’UE deve mantenere la stessa linea anche nella revisione più ampia dell’Area di Libero Scambio Approfondita e Globale”, sottolinea Karlsbro.

Con il rallentamento dei negoziati che Washington impone a Kyiv e, in modo più compiacente, a Mosca, l’intesa economica sui minerali era sul rischio di saltare. Il 25 aprile, cinque giorni prima della firma dell’accordo, Trump aveva accusato gli ucraini di essere “in ritardo di tre settimane”, auspicando una firma “immediata” (termine scritto in caps lock sul suo social personale Truth) dell’accordo. L’accordo ora raggiunto tra Stati Uniti e Ucraina potrebbe mettere una pressione in più a Bruxelles per superare le proprie dinamiche politiche ed elettorali interne, e fare un passo in più nell’integrazione economica di Kyiv.

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali

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Trump sta smantellando decenni di politiche sul clima negli USA e il suo obiettivo è annientare il Green Deal europeo

*Articolo in partenariato con Display Europe, pubblicato su Voxeurop

“Un’inversione di 180 gradi”. In questi termini il segretario statunitense all’Energia, Chris Wright, ha definito, lo scorso marzo di fronte a una platea di dirigenti di aziende di combustibili fossili, la nuova marcia che l’amministrazione Trump intende imprimere alle politiche climatiche ed energetiche. Durante l’incontro, Wright ha sostenuto che il cambiamento climatico “è un effetto collaterale della costruzione del mondo moderno”. In altre parole: non c’è alternativa ai combustibili fossili per poter alimentare il pianeta. 

L’inversione di rotta rispetto all’Inflation Reduction Act – il più significativo investimento federale della storia degli Stati Uniti per contrastare il cambiamento climatico, approvato dall’ex presidente Biden nel 2022 – si è tradotta in una serie di tagli di bilancio che sta coinvolgendo l’intero settore scientifico e che porterebbe alla cancellazione di interi programmi di ricerca, dal clima allo spazio.

L’amministrazione Trump sta cercando di chiudere praticamente tutta la ricerca scientifica condotta dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale, pioniera a livello mondiale nello sviluppo dei modelli climatici. La Noaa gestisce decine di laboratori di ricerca negli Usa che studiano l’atmosfera, gli oceani e l’ambiente marino, i fiumi e i laghi, e monitorano molti dei processi che avvengono sulla Terra, tra cui le emissioni di gas serra che causano il riscaldamento globali, e fenomeni come le ondate di calore e la siccità. 

“Si tratta di una minaccia enorme per la ricerca della Noaa, ma anche per la sicurezza e la stabilità economica dei cittadini americani”, ha commentato Craig McLean, fino al 2022 direttore dell’ufficio ricerca della Noaa. I tagli avrebbero, infatti, un effetto devastante sulla ricerca meteorologica e climatica, in un momento in cui gli eventi meteorologici stanno diventando sempre più estremi e dannosi. Paralizzerebbero, ad esempio, le industrie statunitensi, compresa l'agricoltura, che dipendono da dati meteo e climatici gratuiti e accurati e dall'analisi di esperti. 

Tutto era già previsto, d’altronde, nel Project 2025, il cosiddetto “piano per la transizione presidenziale” ideato dalla Heritage Foundation, l’influente think-tank conservatore di matrice cristiana e nazionalista vicino a Trump, che definiva la NOAA come “uno dei principali motori dell’industria dell’allarmismo sul cambiamento climatico” e affermava che “dovrebbe essere smantellata”. 

I tagli alla NOAA sono solo l’ultimo capitolo dell’ampio ridimensionamento delle politiche climatiche dell’amministrazione Biden. Come per molti altri settori, anche in materia di clima e ambiente Trump sta procedendo a profonde riforme a colpi di ordini esecutivi (decreti) sin dal suo insediamento.

Il primo giorno del suo mandato, ha ritirato gli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima, ha avviato piani per aprire all’estrazione mineraria alcune aree dell'Alaska, ha bloccato le autorizzazioni federali per nuovi parchi eolici, ha ordinato alle agenzie federali di interrompere i sussidi per i veicoli elettrici e ha sospeso le autorizzazioni per i progetti di energia rinnovabile su terreni pubblici.

Quasi contemporaneamente Trump ha messo nel mirino l’Agenzia per la protezione ambientale (U.S. Environmental Protection Agency, EPA), mettendola nelle mani di Lee Zeldin. Appena entrato in carica, Zeldin ha smontato le normative ambientali e gli investimenti federali in energia pulita. 

In questi mesi, l’EPA ha congelato 20 miliardi di dollari di sovvenzioni per progetti sul clima, assegnati attraverso il Fondo per la riduzione dei gas serra (concepito per sbloccare oltre 100 miliardi di dollari di capitali privati per consentire alle comunità di tutti gli Stati Uniti di abbandonare i combustibili fossili) e ha formalmente revocato una sovvenzione di 7 miliardi di dollari concessa al Climate United Fund per presunte “frodi programmatiche, sprechi e abusi” (accuse prontamente respinte dal Climate United Fund). 

Nel frattempo, l'EPA starebbe progettando anche di eliminare il suo ufficio di ricerca scientifica, licenziando fino a 1.155 chimici, biologi, tossicologi e altri scienziati, pari al 75 per cento del personale del programma di ricerca, che contribuisce a fornire le basi scientifiche per le norme che tutelano la salute umana e gli ecosistemi dagli inquinanti ambientali. L'ufficio, ad esempio, ha condotto in passato test su larga scala che hanno rilevato livelli elevati di sostanze chimiche nocive nel fiume Cape Fear, nella Carolina del Nord, che minacciano l'acqua potabile. 

Secondo alcuni documenti visionati da ProPublica, l’Epa sarebbe intenzionata anche a eliminare l’obbligo per le aziende di raccogliere e comunicare le loro emissioni di gas serra. La misura interesserebbe migliaia di impianti industriali in tutti gli Stati Uniti. 

I dati, raccolti nel Greenhouse Gas Reporting Program e messi a disposizione della cittadinanza, guidano le decisioni politiche e costituiscono una parte significativa delle informazioni che il governo trasmette all'organismo internazionale che calcola l'inquinamento globale da gas serra. Attualmente, circa 8.000 strutture all'anno comunicano le loro emissioni al programma. In base alla nuova norma, gli obblighi di comunicazione si applicherebbero solo a circa 2.300 strutture in alcuni settori dell'industria petrolifera e del gas.

“Sarebbe un po' come staccare la spina all'apparecchiatura che monitora i segni vitali di un paziente in condizioni critiche”, spiega Edward Maibach, professore alla George Mason University. “Come potremo mai gestire questa incredibile minaccia per il benessere dell'America e dell'umanità se non monitoriamo effettivamente ciò che stiamo facendo per aggravare il problema?”.

La scure di Trump non si ferma qui. La Casa Bianca ha deciso di tagliare i fondi destinati all’US Global Change Research Program (USGRP), l'ente che redige il principale rapporto del governo federale sul clima e ogni quattro anni fa il punto sugli effetti dell’aumento delle temperature globali sugli Stati Uniti. Si tratta dell'analisi più completa, approfondita e aggiornata sulla crisi climatica, che poi informa le politiche locali e nazionali in materia di agricoltura, produzione energetica e uso del suolo e dell'acqua. “Il licenziamento del personale dell'USGRP smantella l'intero ecosistema della ricerca e dei servizi climatici”, ha detto al Guardian un membro dello staff che ha chiesto di rimanere anonimo. 

I tagli si abbattono anche sul Servizio meteorologico nazionale che ridurrà gli aggiornamenti delle previsioni meteorologiche a causa della “grave carenza” di meteorologi e altri dipendenti, secondo un documento interno dell'agenzia

Accanto ai tagli, ci sono poi gli incentivi diretti all’industria dei combustibili fossili, tra cui il carbone, un settore soppiantato dal gas naturale, molto più economico, e dalla rapida crescita delle energie rinnovabili. 

Nonostante sia il combustibile fossile che più di tutti produce emissioni di CO2, Trump ha firmato ai primi di aprile alcuni ordini esecutivi che hanno l’obiettivo di promuovere l’industria del carbone.

E l’Europa? La guerra dei dazi e il Green Deal

Sul nuovo indirizzo dato alle politiche industriali ed energetiche negli Stati Uniti, si innestano i dazi più volte annunciati e ritirati e poi nuovamente riproposti in una sorta di guerra commerciale nei confronti degli altri paesi più volte brandita da Trump. E qui arriva l’Europa, e in particolare il Green Deal europeo.

A fine febbraio Trump aveva annunciato di voler imporre dazi del 25 per cento sulle auto e altri beni, tra cui acciaio e alluminio, importati dall’Ue. Bruxelles aveva prima pensato a delle contromisure e aveva poi proposto agli Stati Uniti di eliminare reciprocamente i dazi su auto e beni industriali. Questa proposta è stata però respinta da Trump che ha invece rilanciato sostenendo che l’unico modo per ottenere una tregua commerciale sarebbe stato l’acquisto di 350 miliardi di dollari in combustibili statunitensi, in particolare gas naturale liquefatto (GNL).

Perché Trump ha fatto questa richiesta e ha imposto dazi del 25 per cento all’Ue sui beni industriali e sulle auto considerato che già il 50 per cento del GNL europeo proviene dagli USA.? L’Europa si stava già autonomamente rivolgendo a loro per sostituire le forniture russe e con gli Stati Uniti non c’era uno squilibrio (il 3 per cento) tale da giustificare una guerra commerciale. 

Il vero obiettivo è un’altro: minare il Green Deal europeo. Come mette in evidenza un’analisi del think tank ECCO, più del 50 per cento dell’export commerciale americano in Europa riguarda prodotti fossili dal cui utilizzo l’Ue e gli stati di tutto il pianeta si stanno disimpegnando dopo gli accordi sul clima di Parigi del 2015 (dai quali gli USA si stanno nuovamente sfilando).

Attraverso il Green Deal, l’Ue si sta rendendo indipendente dalle fonti fossili e sta costruendo la propria indipendenza, sicurezza energetica e competitività. 

Basti pensare che nel solo settore della produzione elettrica, dall’implementazione del Green Deal nel 2019, le rinnovabili hanno permesso di evitare importazioni di combustibili fossili per 59 miliardi di euro. Per questo motivo il Green Deal rappresenta una seria minaccia per Trump e le politiche industriali ed energetiche che sta perseguendo negli Stati Uniti, già principali esportatori di GNL nel mondo, in nome del “drill, baby drill”.

L’obiettivo di Trump – spiega ECCO – è dunque imporre all’Europa di acquistare gas nel lungo periodo scongiurando che diventi indipendente dai combustibili fossili e si rivolga ad altri paesi, in prima battuta la Cina, che a differenza degli USA stanno sviluppando la transizione energetica e stanno diventando dominanti nel mercato delle fonti di energia pulita.

In questo contesto, sarà importante capire cosa farà l’Europa e quale ruolo avrà l’Italia che, negli anni del governo Meloni, ha più volte affermato di voler puntare sul Gnl e di voler fare dell’Italia un hub energetico del gas. 

Da parte dell’Ue, le parole del commissario europeo per l’Energia Dan Jørgensen, pur manifestando un interesse per l’acquisto di Gnl americano, sembrano non lasciare spazio a un disimpegno da Green Deal che oggi, scrive ancora ECCO, “rappresenta una leva strategica per rafforzare la competitività europea e italiana, promuovendo l’innovazione nei processi produttivi, nei prodotti e nella gestione efficiente dell’energia”. Abbandonare il Green Deal significa ancorarsi a modelli economici superati, legati ai combustibili fossili, e “allinearsi alle politiche di Trump, che puntano a preservare in maniera manifesta unicamente interessi di parte”. 

“The great climate disconnect”

“Il ritorno di Trump dovrebbe rappresentare un impulso per rilanciare il Green Deal europeo e spingere l’Ue e gli Stati membri a superare le divisioni politiche e a unirsi intorno all'obiettivo della decarbonizzazione”, spiegano Simone Tagliapietra e Cecilia Trasi del think tank Bruegel.

Tuttavia, i segnali provenienti dai vari paesi europei non sono incoraggianti. Stiamo assistendo a una disconnessione sempre più profonda tra crisi climatica e le politiche messe in atto, riflette la giornalista del Financial Times, Pilitia Clark. Sembra che tutto il pianeta si sia messo d’accordo per mettere in pausa il contrasto al riscaldamento globale e le azioni necessarie per affrontare il cambiamento climatico, proprio mentre ogni anno è il più caldo di sempre e gli eventi meteorologici estremi continuano a intensificarsi.

Nella più grande economia europea, la Germania, il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) ha avuto un grosso successo elettorale promettendo anche di abbattendo i parchi eolici, definiti “mulini a vento della vergogna”. 

In Austria, il partito di estrema destra Övp ha incentrato la sua campagna elettorale su un ripensamento totale delle politiche climatiche. Il partito fa parte di Patriots for Europe, il terzo gruppo più grande del parlamento europeo, i cui leader di estrema destra hanno attaccato l'ideologia del “green deal” durante un comizio a Madrid.

La narrazione, portata avanti da questi gruppi, secondo cui le politiche verdi sono un onere per i lavoratori comuni, sta riscuotendo sempre più consenso. Lo abbiamo visto lo scorso anno con le proteste degli agricoltori nell’Europa centrale.

Nel frattempo, l'elenco delle aziende che ridimensionano i propri sforzi ecologici continua a crescere. Persino il gruppo energetico norvegese Equinor, che sette anni fa ha cambiato nome da Statoil per puntare sull'energia verde, ora prevede di aumentare la produzione di combustibili fossili e dimezzare la spesa per le energie rinnovabili. 

Questo è lo scenario in cui si celebra il decimo anniversario dell'accordo di Parigi del 2015, il patto globale che dovrebbe accelerare le misure per rallentare il riscaldamento globale.  “Perché sta succedendo tutto questo adesso? Cosa è cambiato dal 2020, quando aziende e paesi si stavano affrettando a sostenere politiche di azzeramento delle emissioni nette?”, si chiede Clark. “Non esiste una risposta univoca, ma non è un caso che la reazione contro le politiche climatiche sia emersa proprio nel momento in cui i governi hanno iniziato ad attuare le azioni necessarie per arrivare a emissioni zero nette”. 

E il varco per i combustibili fossili si fa sempre più ampio e ghiotto.