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Dazi nostri. Social standard: un ostacolo all’unità operaia internazionale

L’articolo del professor Emiliano Brancaccio dal titolo «Nè con il liberismo né col protezionismo: un “social standard”», pubblicato su “Il Manifesto” del 13 aprile, offre spunti interessanti di riflessione.

Brancaccio sostiene che liberismo e protezionismo sono due estremi dello sfruttamento capitalista, inestricabilmente annodati l’uno all’altro.

Per dimostrare questa affermazione Brancaccio non fa riferimento a meccanismi economici, legati alle caratteristiche del ciclo del capitale, ma porta come dimostrazione il comportamento altalenante dell’amministrazione USA relativamente ai dazi e, più in piccolo, le proposte che la presidente del consiglio italiana ha portato all’incontro con il presidente USA.

Ho l’impressione che sia scattato in certo qual modo il meccanismo del determinismo economico, per cui le ragioni delle scelte economiche dei governi vanno ricercate nell’onnipotenza del Capitale, piuttosto che nelle scelte di potenza dei governi. Anche gli esempi addotti da Brancaccio, piuttosto che dimostrare in che modo le scelte dei governi si adeguino alle esigenze del capitale, dimostrano che in realtà il capitalismo è più o meno favorito a seconda delle esigenze di potenza dei governi. Il capitalismo, in ultima analisi, non è che una forma di dominio, mascherata dalla libertà degli scambi, che lascia inalterata la separazione fra una minoranza privilegiata, che ha in mano le leve del dominio politico ed economico attraverso la proprietà privata dei mezzi di produzione e la violenza concentrata nelle mani dello Stato, e una maggioranza costretta a lavorare per mantenere questa minoranza. Quando il capitalismo non è in grado di legittimarsi, di giustificare questo sfruttamento, allora interviene il governo e la libertà e l’uguaglianza borghesi cadono a terra, rivelando il carattere di rapporto di dominio del capitalismo, basato sulla violenza di pochi privilegiati contro la maggioranza sfruttata.

Piuttosto che dire che protezionismo e liberismo sono due facce della stessa medaglia capitalista, preferirei si dicesse che sono due aspetti della politica di dominio dei governi, che con la loro violenza permettono al modo di produzione capitalistico di sopravvivere.

Questione di parole, dirà qualcuno. Alla fine, siamo sempre noi, le classi sfruttate, i ceti popolari a pagare il fio delle politiche governative. Non è solo una questione di parole perché, se il ruolo dei governi è quello di perpetuare i rapporti di dominio, perde di senso la proposta che Brancaccio fa nell’ultima parte dell’articolo, cioè di un “social standard” che impedisca una concorrenza al ribasso dei salari, dei diritti e delle garanzie ambientali fra le varie economie nazionali.

Si tratta di una vecchia idea del professore, che ha assunto prima la forma dello standard contrattuale europeo, volta al coordinamento europeo della contrattazione finalizzata a contrastare la tendenza agli squilibri della bilancia dei pagamenti e alla deflazione salariale all’interno dell’Unione; successivamente nel 2016 ha proposto al Parlamento Europeo l’adozione di uno standard sociale sui movimenti internazionali di capitale. In questo articolo propone il rilancio del cosiddetto social standard per la regolazione dei movimenti internazionali di merci e di capitali.

Il nucleo dello standard, sostiene Brancaccio, consiste in una limitazione dei commerci con quei paesi che attuino politiche di competizione al ribasso sui salari, sulle condizioni di lavoro, sui regimi di tutela ambientale e sanitaria, rispetto a un comune obiettivo di riferimento e alla posizione da cui partono.

Quanto sta accadendo negli Stati Uniti, e in particolare nel settore automobilistico, può aiutare a comprendere la portata di questa proposta.

Una proposta simile al social standard è il cavallo di battaglia che il senatore Bernie Sanders e la deputata Alexandra Ocasio-Cortez, democratici di sinistra, utilizzano nella loro campagna attraverso gli USA per combattere quella che definiscono la nuova oligarchia. Anche il potente sindacato dell’automobile UAW ha un atteggiamento possibilista sulle tariffe di Trump, perché potrebbero creare nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti.

La speranza dell’UAW – dopo che gli Stati Uniti hanno perso 682.000 posti di lavoro a causa del NAFTA (accordo di libero scambio nordamericano) – è che le tariffe punitive incentivino la produzione interna e ricostruiscano la base manifatturiera statunitense. “Con queste tariffe, migliaia di posti di lavoro ben pagati nel settore automobilistico potrebbero essere riportati nelle comunità operaie degli Stati Uniti nel giro di pochi mesi.”, ha detto il presidente della UAW Shawn Fain. In seguito, Fain si è rimangiato la sua dichiarazione, affermando che ci vorranno anni per costruire un nuovo impianto; ha affermato comunque che le tariffe potrebbero essere un “incentivo” per aumentare i posti di lavoro laddove le aziende hanno eliminato i turni, come nello stabilimento Volkswagen nel Tennessee, dove il sindacato sta negoziando un primo contratto. Fain ha affermato inoltre che Stellantis potrebbe ripristinare i 2.000 posti di lavoro persi quando la produzione del pick-up Ram è stata trasferita in Messico.

Nella contrattazione c’è una “regola”: se l’azienda non ti dà una risposta scritta, allora non crederci. La promessa di nuovi posti di lavoro legati alle nuove tariffe è appunto una promessa. Quello che è certo è che non verranno costruite nuove fabbriche, ma i prezzi delle merci aumenteranno perché le aziende produttrici scaricheranno i costi dei dazi sugli acquirenti; la produzione invece sarà ridotta a causa del calo delle vendite e delle difficoltà logistiche, il che probabilmente si tradurrà in nuovi licenziamenti. Questa la prospettiva, sia che l’aumento dei dazi avvenga nella modalità confusionaria di Trump sia che avvenga in quella più elegante e politicamente corretta di Sanders ed Ocasio-Cortez, ripresa da Brancaccio.

Se i capitalisti approfittano della divisione della classe operaia per spostare le produzioni là dove essa è più debole o il prezzo della mano d’opera è più basso, la risposta non è nell’azione dei governi, nel protezionismo, negli incentivi. Se la classe operaia è divisa, il problema è unirla al di là delle barriere nazionali. Questa unione è difficile, ma non si risolve il problema aumentando le barriere fra gli stati e rendendo più difficile l’unità internazionale di classe. La soluzione dei dazi alla divisione della classe operaia non è una soluzione.

In realtà il capitalismo sopravvive solo attraverso il costante aumento dello sfruttamento, che si ottiene riducendo il prezzo della capacità lavorativa, anche al di sotto del suo valore. Dazi, inflazione, tasse, sono tutti strumenti che i governi usano per abbattere il costo della capacità lavorativa e per ridurre il tenore di vita delle classi sfruttate. L’azione del governo, di qualsiasi colore, non può mai essere a favore della classe operaia. Credere che i dazi in base al social standard risolvano il problema della delocalizzazione significa essere ingenui o in malafede, in ogni caso ostacolare il percorso della classe operaia verso l’unità internazionale.

Lona Lenti

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1 giorno 2 ore ago