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La distruzione della parola

Se per la nostra specie la parola ha il compito di dare un senso condiviso alle cose (con-senso), o meglio, di rendere ciò che è reale realtà umana, oggi il linguaggio è sempre meno oggetto di mediazione, si sta allontanando da questa sua fondamentale missione. Nella cosiddetta era della comunicazione la parola «verità» è diventata un termine problematico, scivoloso che si cerca di eludere. L’accavallarsi delle informazioni, spesso contraddittorie, finisce per annullare il messaggio. Restiamo perplessi e smarriti perché le parole contano sempre di meno, si svuotano e perdono ogni valore. Con il postmodernismo si arriva a dire che il tutto e il suo contrario sono entrambi ammessi. Ci avevano insegnato che la verità esprime ciò che è, ora invece, richiamando Nietzsche, ci dicono che tutto è interpretazione e che ci sono più verità.

PAROLE VUOTE. Il moltiplicarsi dei mezzi facilita la diffusione della parola. Dovunque, tutti parlano, anche allo stesso tempo. Si parla troppo e le parole sono vuote. A dire il vero non si sa cosa dire e si finisce per non dire nulla. Come non si ascolta non vi è mediazione e ognuno va per conto proprio. La solitudine del sonnambulismo quotidiano esprime l’angoscia di questa mancanza di senso, di un meccanico ripetersi ed imitare parole spente. In realtà, la parola non è «vuota», il vuoto non esiste, è solo una aspettativa, indica che qualcosa non c’è. La parola inerte con le sue lettere c’è, ma non dice nulla. Delude, è un recipiente che rivela solo una assenza, manca il contenuto.

Come mai il linguaggio soffre questo deficit di contenuto? Perché non cerchiamo di riprendere, dare forma e rendere umano tutto ciò che accade, come abbiamo sempre fatto? Siamo sfiniti dalla velocità dell’elettronica e non gestiamo i loro ritmi? Forse la robotica e l’artificiale intelligenza ci rendono sempre più passivi? Chissà più che stanchi e assuefatti siamo pugili storditi con lo sguardo perduto nel nulla. Attendiamo rassegnati che suoni quanto prima la campanella della fine. Purtroppo le parole invece di svegliarci dall’impassibilità, ci colpiscono e finiscono per aggiungere all’assuefazione un ulteriore strato d’incredulità. Le quotidiane violenze e la disumanità delle guerre sono accompagnate da un linguaggio altrettanto aggressivo, fatto di insulti, offese e intimidazioni. Scopriamo che le parole sono state arruolate, anche loro embedded, e sono ora parte inerte dei combattimenti in corso. Nella scacchiera globale ogni elemento in gioco è stato reindirizzato verso un mondo molto lontano da quello che abbiamo sognato. Ogni cosa risulta sempre più distante da quel mondo più equo per il quale molti hanno dato la vita. Siamo anche lontani dalla critica che voleva rivolgere Nietzsche al positivismo. Oggi che la concorrenza spietata del capitalismo globale è diventata legge indiscussa, la guerra dilagante è approdata al linguaggio, alle parole, distruggendo anche esse. Il problema è che senza parole non c’è salvezza possibile. Se gli esseri umani non credono più a quello che dicono e ascoltano, nessuna civiltà è possibile. Ogni accordo diventa carta straccia. Si ritorna allo stato di natura dove prevale la forza, vince il più forte e ha ragione, ha più potere e ne avrà più diritti. Tutto ciò non è diverso da quello che da sempre predica il neoliberismo, è proprio il suo corollario.

DARWINISMO SOCIALE. La razionalità mercantile che governa la globalizzazione supera perfino la logica utilitaristica della Realpolitik. La ricerca di sempre maggiore profitto è l’unica regola etica in ogni ambito del sociale e del governo della cosa pubblica. Ogni argomentazione si piega e cede perché: «l’importante è vendere!». Dentro questa cornice, lo abbiamo già capito, può succedere ogni cosa perché nel liberismo senza regole della giungla vince chi riesce a piegare l’avversario. Nel gioco del libero mercato occorre eliminare la concorrenza. La civiltà umana però, si fonda su un principio imprescindibile: siamo tutti uguali e gli esseri umani sono universalmente soggetti di diritto. Sono conquiste secolari condivise sulle quali poggia l’ordine sociale. Non esistono le razze, non esiste la nobiltà né le caste, si ripudia la schiavitù ecc. Anzi, le persone più deboli (bambini, anziani, malati) hanno più diritti. Ora siamo testimoni di come questo principio prioritario di civiltà si stia lentamente logorando, sono anni che questo declino corrode l’ordine giuridico in ogni parte del mondo. Si è imposta la logica dei potenti: chi è più forte ha più strumenti e quindi più diritti. L’unica grammatica globale è quella del mercato. Il valore di ogni cosa è stabilito dalla domanda e dalla offerta. Anche l’etica cede, non è necessario entrare nel merito della valutazione, è tutto molto facile e veloce: vince il numero. La molteplicità di elementi che entrano in gioco nella qualità è discutibile, opinabile, la quantità no, «più è meglio» rimane l’unico metro di ogni cosa. Non importa se la quantofrenia del capitalismo senza argini abbia saturato il pianeta e distrutto l’ambiente, si va avanti perché l’importante è crescere, vendere, produrre. Questa razionalità ceca vive solo in un presente continuo, senza domani e le conseguenze sono proprio la distruzione del futuro. Ora la logica delle guerre e dell’eliminazione dell’altro definita anche darwinismo sociale, è arrivata alle parole. Sembra che non abbia più senso parlare, pensare, definire, cercare di capire. La riflessione, è necessariamente lenta, è un ritorno e ha bisogno di tempo, mentre dall’altra parte, i potenti che costruiscono il reale lo hanno già cambiato.

IL REALE VINCE SULLA REALTA’Nell’era di Donald Trump, succede però che le parole del presidente della prima potenza globale superano di continuo ogni previsione razionale. Si cerca di capirlo per prevedere quali saranno le sue mosse, la sua strategia, ma si rimane continuamente sbalorditi e sorpassati dalle sue dichiarazioni o messaggi sui diversi media. Un linguaggio fatto di frasi ad effetto, brevi, ironiche che mirano a colpire l’avversario. Tutto avviene di corsa e la velocità è l’unica arma vincente, anche sui (anti)social. Non possiamo dire che non eravamo stati avvertiti. Anni fa, per fare un esempio, in una conversazione tra Ron Suskind, giornalista del New York Times, e Karen Hughes, ex direttrice della comunicazione di George W. Bush, quest’ultima gli disse: Voi credete che le soluzioni vengano fuori dalla vostra giudiziosa analisi della realtà osservabile (…). Non è più così che il mondo va realmente. Ora siamo un impero e quando agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, con tutto il giudizio che volete, noi agiamo di nuovo e creiamo realtà nuove (…) e a voi, a tutti voi, non resta che studiare quello che noi facciamo. La conversazione è datata nel 2004 ed è stata anche resa pubblica nel nostro paese, ma non ha suscitato grandi preoccupazioni. La parola ha perso ogni credibilità si è svuotata, è diventata pura astrazione. Assistiamo ad un confronto tra il mondo reale e il mondo delle parole, un universo di senso, costruito da noi a cui chiamiamo realtà e che sembra ci sia sfuggito di mano. Marx diceva a proposito di Feuerbach che i filosofi finora si erano limitati ad interpretare il reale quando occorre agire per cambiarlo. Occorre tornare al mondo reale, materiale e concreto e ridare senso umano alle inerzie che guidano la razionalità economica. La nostra non è una guerra, è proprio l’opposto, un disegno dove solo con l’Altro ha senso di parlare di umanità.

 

Redazione Italia

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