Lo sappiamo. C’era questo gruppo su Facebook, Mia Moglie. Circa trentaduemila uomini iscritti, postavano fotografie delle loro mogli, fidanzate, amiche, parenti senza consenso esplicito, anzi, in alcuni casi con la specifica del contrario: lei non sa, lei è ignara. Non erano fotografie d’autore, non erano nudi patinati da rivista quelli pubblicati sul gruppo, ma seni fotografati di straforo col telefonino e spaccati di ordinario casalingo. Pezzi rubati alla vita quotidiana, insomma: il fondoschiena al supermercato, la coscia abbronzata in spiaggia, la tetta in piscina, l'incavo della scollatura in un vestito da sera, e i cuscini del divano, la tappezzeria del letto su cui alcune di queste donne dormivano, del tutto inconsapevoli. Le facce? No, quelle no. E non certo per pudore o rispetto delle dirette interessate, ma, più probabilmente, perché se qualcuno le avesse riconosciute o si fosse riconosciuta, gioco o giocatori sarebbero stati a rischio. Quasi sempre cancellati, oscurati da emoji, sfocati, i volti erano tagliati via come frattaglie di macelleria, non servivano al consumo. Restava il corpo. Restava la parola moglie, il ruolo breve, domestico e subordinato che le viene attribuito. E restava – anzi, bastava, ed era già tutto lì - l’aggettivo possessivo: mia. Più che scelta casuale, il nome del gruppo faceva da radiografia di un pensiero collettivo.
C’era anche un sito, o forum che dir si voglia, si chiamava Phica. Anche qui, nomen omen. Viene da leggerci la furbizia di chi gioca con le lettere, forse chi l'ha inventato si è sentito un genio: il ph rimanda a photo, l'assonanza triviale a fica fa il resto. Anche questo spazio virtuale ha accolto, ora dopo ora e giorno dopo giorno, per anni, fotografie di donne inconsapevoli, pubblicate da uomini che a volte conoscevano e altre no. Scatti presi dai social, rubati, manipolati con l’intelligenza artificiale per eludere o cancellare il vestiario, come da ragazzini ci si illudeva di fare con gli occhiali a raggi x. Un archivio sterminato, dentro c’era di tutto: ragazze comuni, attrici, politiche. In molte hanno denunciato. Ma il punto non sono i nomi. Il punto sono i numeri e l'abitudine. La naturalezza che fa più timore della perversione. La normalità con cui tutto questo è stato fatto per mesi e anni. La sicurezza che fosse pressoché legittimo o consentito poiché possibile e facile. Aderire, spartire, guardare e consumare corpi di donne, come street food esposto a bancarella.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Breve timeline di una vergogna: scoperta, denunce, chiusura
Tutto è cominciato diversi anni fa, ma la scoperta, la denuncia, il successivo dibattito pubblico e la chiusura di questi ritrovi online, ha inizio in un giorno d’agosto: una 35enne toscana – Federica, infermiera – scorrendo Facebook si imbatte in una foto. Il seno di una donna, postato da un anonimo, con richiesta esplicita di commenti da parte di altri utenti. Si insospettisce, controlla, fa quello che chiunque dovrebbe fare: segnalare a Facebook. Risposta della piattaforma Meta: nessuna violazione delle linee guida, tutto regolare, procedere oltre. Federica ci riprova con la Polizia Postale, niente anche qui.
A quel punto scrive a Carolina Capria, scrittrice, sceneggiatrice e attivista su Instagram con la pagina @lhascrittounafemmina. Capria pubblica tutto, segnala, denuncia. Lo fa anche il profilo No Justice No Peace. Il caso diventa virale. Da lì in poi piovono segnalazioni, ne parlano giornali e tv, la stampa estera si accorge della vicenda, la accomuna al caso Pelicot e punta il dito contro Meta. Arrivano le prime denunce, anche dal Codacons. La Polizia Postale si muove, Meta non può più fare finta di niente: “Abbiamo rimosso il Gruppo Facebook Mia Moglie per violazione delle nostre policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti”. È la formula standard e suona come: abbiamo buttato via la spazzatura, non chiedeteci come è stato possibile che si accumulasse fino al soffitto. La storia però non finisce con un comunicato, perché gli affezionati del gruppo avevano già preparato il piano B: nuovi canali su Telegram e su WhatsApp, dove i “moralisti” non arrivano o non dovrebbero arrivare. Gruppi del genere a volte vengono individuati e segnalati, qualcuno viene chiuso, ma è il solito gioco delle talpe: tappi una buca, ne spuntano altre tre. È il caso, ad esempio, del sito/forum Phica e della sua chiusura a distanza di pochissimi giorni dal caso “Mia Moglie”. Lì la questione che tiene banco non è solo la denuncia e le dichiarazioni di donne più o meno note – deputate e politiche, giornaliste, Meloni, Schlein – ma anche gli utenti in fuga che chiedevano la cancellazione del proprio profilo e dei contenuti pubblicati.
Se fossi maschio, io denuncerei (altri maschi)?
L'estate 2025 è quella in cui Annalisa canta: “Se fossi maschio, io mi venderei”. La questione, però, non è cosa farebbe una donna se fosse un uomo per un giorno o una notte, ma cosa hanno fatto troppi uomini per troppo tempo sentendosi tali. In molti, ad esempio, hanno parlato di scherzo, di gioco, di passatempo. È il caso dell'architetto in pensione che racconta a Giusy Fasano: “Siccome non c’è più niente di interessante da guardare su Internet – sempre guerra in Ucraina o in Israele – allora...”. Allora ecco: c'erano altri uomini a chiedere a dei mariti se le loro mogli si sentissero sole con tanto di coordinate geografiche o con esplicita dichiarazione d'interesse a commettere un reato: “Ciao, chi fa incesto…”. La voce delle donne, raccolta ad esempio da D.i.Re - Donne in rete contro la violenza, conferma la banalizzazione dei fatti: “Lui mi urla contro e mi accusa di voler sfasciare il nostro matrimonio per una scemenza. Dice che sto esagerando (…) che il suo era solo un gioco per vantarsi della mia bellezza”. Sulla pagina e sul sito Bugie Uomini, più o meno la stessa storia. Forse che gli uomini direttamente implicati minimizzassero potevamo immaginarcelo: del resto, da uno capace di esporre la compagna in un mercato digitale non ci si può poi aspettare grande sensibilità, empatia o giudizio morale. A rubricare la faccenda a “gioco virtuale” ci sono, però, altre voci maschili non direttamente coinvolte e non iscritte. In un’intervista a Rosanna Scardi durante il Bergamo Sex, il porno-attore, regista e produttore Rocco Siffredi, ha parlato di Onlyfans (“le donne vendono il proprio corpo o si prostituiscono (...) credono che i video li vedano solo i fan. Invece, sappiamo che quando immetti online materiale, ci resta per sempre”), della maestra d'asilo licenziata per l'account sulla piattaforma (“Sarò bigotto, ma nella vita devi scegliere che strada intraprendere”), infine di Mia Moglie. Qui Siffredi sembra cambiare registro: non c'è alcun puritanesimo di sorta, non è menzionato il rispetto di una strada o di un vincolo di fiducia o matrimoniale, e che il materiale condiviso senza consenso possa restare in giro per sempre, non pare più un gran problema: “Una volta la mentalità era che le mogli erano da tenere solo per noi, adesso vengono spiattellate. Segno questo che i rapporti sono cambiati. Lo considero un gioco sopra le righe, ma pur sempre un gioco virtuale (…) Non ci vedo nessuna cattiveria terrificante. E poi non credo che tutte le donne non lo sapessero. Il mondo è pieno di scambisti”.
Ovviamente, spostare l'attenzione sull'eventualità che alcune donne fossero a conoscenza dei fatti non aiuta né è attualmente sostenuta da testimonianze in merito. Ma seppure, su 32mila iscritti, la metà fossero stati parte di una coppia consenziente di scambisti o ci fosse stata qualche donna d'accordo con l'essere visivamente condivisa con una pletora di sconosciuti, come la mettiamo con i restanti 16mila che proprio nella mancanza di consenso delle consorti sembravano trovare la maggiore eccitazione? E cosa diciamo alle donne che hanno segnalato e testimoniato di chi essere del tutto ignare della condivisione? Quasi subito Siffredi è ritornato sulla questione, correggendo il tiro con nuove dichiarazioni: “Ero convinto che si trattasse di una piattaforma di scambisti. Dicevo: “Ma dai, cosa avranno mai fatto… Una goliardata maschilista? Invece mi sono reso conto che non era quello che pensavo io (…) Credo che non ci sia rispetto da parte degli uomini in questo caso e hanno fatto bene le donne a denunciare”.
A pochi giorni dalla scoperta del gruppo Facebook, la vicedirettrice della polizia postale Barbara Strappato dichiarava, in un'intervista al Corriere: “Stiamo raccogliendo tutte le informazioni, alcune donne si sono riconosciute e hanno sporto denuncia (…) Tutti i commenti finiranno nella nostra informativa, i reati vanno dalla diffamazione alla diffusione di materiale intimo senza consenso. Ammetto che mai prima di oggi ho visto frasi tanto disturbanti”. In questo contesto, stona però il video con cui proprio la Polizia Postale invitava le donne coinvolte a sporgere denuncia, ma redarguendole bene: “Per evitare situazioni analoghe, state attente a ciò che condividete online, soprattutto contenuti intimi, assicuratevi di avere impostazioni di privacy adeguate, evitate gruppi anonimi...”. Siamo, dunque e di nuovo alla diffusione dell'idea che una donna non possa e non debba rilassarsi mai, non per strada, non sul web e neppure all'interno sentimentale, domestico e, in alcuni casi, giuridico di una relazione. Il carico mentale è nuovamente spostato completamente sul soggetto femminile, quasi il problema sia la libertà personale di scattarsi una foto e pubblicarla. Soprattutto, non vi è il minimo accenno né al ruolo esecrabile degli uomini coinvolti in questa vicenda né, tantomeno, è presa in considerazione l'eventualità che sia un altro uomo coinvolto nella vicenda a denunciarne altri o autodenunciarsi. Perché? In fondo un gruppo non esiste senza partecipanti e, magari, qualcuno di loro potrebbe averne oggi un moto di coscienza o senso di rimorso, aiutare a far luce. È invece più probabile e possibile leggere nell'assenza della loro menzione una sottile ammissione. Forse anche agli occhi di chi vigila su questi reati, gli iscritti al gruppo o al sito ne approvano tacitamente i comportamenti abusivi e gli atteggiamenti lesivi, dunque da loro, con buona probabilità, non ci si può aspettare granché.
Nell'intervista di Youssef Taby, Giacomo Zani, presidente del collettivo Mica Macho, usa una parola che in questo dibattito mancava: tristezza. Se il valore personale di un uomo cresce e si misura sul corpo di una donna, la sua presunta avvenenza, la sua disponibilità anche soltanto visiva, il risultato non cambia. Anche quando l’immagine è finta, o generata dall’intelligenza artificiale, resta un’esibizione di preda, resta un trofeo. E il profilo degli iscritti a questi gruppi e siti non aiuta a raccontarsela. Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini adulti, pienamente integrati, con famiglie, lavoro, una posizione sociale riconosciuta. Insomma: più vicino di scrivania che adolescente in cerca di brividi. Non si tratta dunque di devianza estrema, ma di uomini percepiti come “normali”, talvolta persino con nome e cognome in chiaro – tanto, chi vuoi che controlli? – più spesso al riparo di un nickname, segno che sapevano di fare qualcosa di socialmente inaccettabile. È il primo cardine di ogni buona ipocrisia di gruppo: separare il “rispettabile” dal “segreto”, come se il digitale fosse uno scantinato.
Il potere del membro anonimo
C'è poi una dicitura tanto ovvia quanto rivelatrice: “membro anonimo”. Qui l’analogia con l’alibi del “non tutti gli uomini” è inevitabile. Perché il punto non è salvare la propria dignità maschile individuale prendendo le distanze dal fenomeno, ma riconoscere la logica di un branco o almeno di un gruppo e la complicità che c'è dietro. La differenza tra autore di un post o di un thread e il suo pubblico è quasi nulla quando non c’è soltanto chi condivide e chi commenta, ma anche chi osserva e consuma senza esporsi, chi sa e non parla, o chi perpetra o lascia andare questo tipo di pratiche in altri ambiti. Non si può cioè fingere di ignorare una dinamica più che evidente: parliamo di cultura dello stupro o quanto meno di sessismo e applicazione di un sistema patriarcale. Seppure volessimo, per assurdo, sostenere che dietro Mia Moglie e dietro Phica ci fosse un mero spirito goliardico o pazziella sfuggita di mano (e non è questo il caso), dovremmo comunque ammettere che il “gioco” si basava sull’esposizione del corpo femminile e sul suo commento più o meno volgare, esplicito o abusivo, e che tale attività era diffusa e portata avanti perché strumento di riconoscimento sociale maschile, parte del linguaggio di appartenenza al genere e coefficiente di approvazione sociale. L'obiettivo del “passatempo” sarebbe stato, quindi, ottenere il consenso di altri uomini violando o bypassando il consenso di una donna ed esibendo così il proprio potere su di lei prima ancora del possesso. Togliendo di mezzo il paradosso, resta il fatto che gli uomini sanno perfettamente che, per ottenere o fare determinate cose è necessario l’accordo e l'approvazione di altri, e rispettano questa regola in diversi contesti. Le cose cambiano, però, quando a quella regola partecipa la voce di una donna, la sua volontà: allora il principio sembra decadere, la svalutazione di un sì o di un no femminile può essere usata a proprio vantaggio, la sua opinione considerata secondaria, il suo volere aggirato, forzato o ignorato del tutto. Il tutto con il permesso, se non con il plauso, di altri spettatori.
Come ha scritto Jennifer Guerra, la definizione più corretta è “image-based sexual abuse”, ovvero abuso sessuale facilitato da immagini. Il lessico non è un dettaglio, perché concentra l’attenzione sulla realtà di una violenza pubblica, collettiva, reiterata. Non c’è un ex rancoroso che vuole vendicarsi, ma un branco di uomini che prende pezzi di quotidiano femminile e li ribalta in pornografia. È la trasformazione automatica della normalità e quotidianità del corpo femminile in materiale sessuale, la certezza che qualsiasi gesto di una donna sia potenzialmente segno di una disponibilità sessuale e dunque offerto allo sguardo e al consumo maschile. Gruppi e siti prosperano non perché manchi un'offerta pornografica dichiarata, varia e pressoché infinita, ma perché l’eccitazione sta nell’appropriazione e violazione della fisicità e dell'immagine di una donna, del suo privato e persino della fiducia che ripone nel suo compagno, marito, amico o semplicemente nei confronti del maschile. E questo non è erotismo, candaulesimo o altro genere di fantasia sessuale: questo è potere. Esercitato, tutelato, spalleggiato, impastato di cultura e sottocultura italiana, nascosto dietro “ è solo una ragazzata”, una “cosa da maschi”.