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Il Pride di sabato scorso a Roma

Indubbiamente, e tutti coloro che vi hanno partecipato possono confermarlo, il Pride di sabato scorso a Roma non è stata solo la giornata dell’orgoglio delle comunità LGBTQIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali con il + che si apre a quelle che più semplicemente possono essere definite come “libere soggettività”), ma è stata occasione di esprimere libertà, dignità e diritti per tuttə (ossia tutte e tutti) eterosessuali compresi, perché diritti, libertà e felicità o sono per tuttə oppure semplicemente non esistono.

Una marea umana di centinaia di migliaia di persone provenienti da tutta Italia, coloratissima e gioiosa si è mossa da Piazza della Repubblica, finalmente liberata dal cantiere della fontana dell’Esedra e restituita al suo naturale ruolo di punto di partenza delle grandi mobilitazione nazionali (si trova accanto alla Stazione Termini).
Ha proseguito il suo percorso passando intorno al Colosseo e all’Arco di Costantino, che emozione!, è arrivata al Circo Massimo e ha svoltato a sinistra, te pareva, per concludere il proprio percorso nel villaggio allestito di fronte alle Terme di Caracalla dove, né più né meno come nelle feste dell’Unità di un tempo, erano allestiti stand gastronomici, previsti interventi musicali e da un palco si alteravano al microfono gli interventi delle diverse realtà presenti.

Sfinito dalla lunga marcia sotto il sole cocente, da cattivo cronista non mi sono fermato ad ascoltare gli interventi, ma ho gradito il fatto che, mentre passavo sotto al palco, un intervento applauditissimo tuonasse (contro ogni tentazione campista) per denunciare l’Internazionale nera trasversale che comprende Trump, Putin, Erdogan, Orban, Meloni, Salvini e camerati.

Cosa aggiungere? Età media decisamente bassa.

Il mio amico Enrico Calamai (l’ex Console chiamato lo Schindler di Buenos Aires, per via delle centinaia di militanti braccati dopo il golpe che mise in salvo anche fornendo passaporti… creativi e in linea con i valori della Repubblica che riconosce il diritto d’asilo) mi ha confidato: “Ero il più vecchio, erano giovanissimi. Che belli, che bello!”
Enrico reggeva lo striscione di Rifondazione Comunista, ma i simboli delle forze politiche organizzate erano una goccia d’acqua nell’oceano.

La loro era tuttavia una presenza, legittima e da nessuno contestata: nel Duemila, durante il Giubileo, la Chiesa Cattolica voleva impedire che sfilasse un corteo così blasfemo.
Solo l’impegno di tutte le forze della sinistra (moderata e radicale), che avevano dalla loro parte la Costituzione, impedì ogni inconcepibile censura. Ancora ricordo dietro lo striscione di Rifondazione il senatore Cossutta in giacca e cravatta, così fuori contesto eppure, al tempo stesso, così sorridente con inusuale autoironia.

Questa fiumana umana, questa moltitudine variopinta, non era tuttavia soltanto e per forza di cose intrinsecamente incompatibile con ogni forma di fascismo e di autoritarismo, ma lo era anche dichiaratamente, come consapevole scelta di campo.

Cartelli e striscioni antifascisti, contro la guerra, il riarmo e il militarismo ovunque e poi, sorprendentemente, centinaia di bandiere palestinesi, sui carri e ovunque lungo il corteo, insieme a decine di migliaia di simboli portati sul proprio corpo, Kefiah, spillette, adesivi denunciavano chiaramente il genocidio in corso, attuato dallo Stato israeliano con la complicità dell’intero Occidente e la solidarietà alla causa del popolo palestinese.

Il perché è semplice: è la risposta definitiva al pinkwashing dello Stato Sionista, il ripudio della strumentalizzazione islamofoba che lo Stato genocidiario fa, non solo della sedicente difesa della democrazia e della libertà delle donne (come se non esistesse un fondamentalismo ebraico misogino ed omofobo) ma anche la pretesa di proporsi come paladino difensore dei diritti civili delle comunità LGBTQIA+ quando a Gaza le nostre sorelle e i nostri fratelli muoiono sotto le bombe e di fame.

Insomma, il Pride è stato anche il più grande corteo pacifista, antifascista, contro il genocidio in corso e di solidarietà con il popolo palestinese degli ultimi anni.

Non casuale era del resto la presenza sul carro dell’ArciGay dell’attivista italo-palestinese Maya Issa, il cui intervento abbiamo pubblicato integralmente e autonomamente da questo articolo.

https://www.pressenza.com/it/2025/06/maya-issa-al-gay-pride-la-solidarieta-non-e-vera-se-non-e-anche-contro-loppressione-del-popolo-palestinese/

Infine parole chiare circa l’opposizione alla guerra: “Mentre in Medio Oriente continua l’escalation di violenza – ha detto Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay – i nostri Pride diventano marce per i diritti e per la pace, il disarmo e la nonviolenza. Ogni bandiera arcobaleno sventolata in queste giornate è un no alla guerra, un sì alla risoluzione pacifica dei conflitti.

La nostra comunità, che conosce sulla propria pelle la violenza dell’odio, non può che schierarsi dalla parte delle vittime di ogni oppressione. Oggi i nostri Pride marciano per i palestinesi che resistono a Gaza e per tutti i popoli costretti a fuggire dalle bombe di questo tempo assurdo, che sta macchiando in maniera indelebile la nostra storia”.

Insomma checché ne dicano certi “militanti severi, e chiedo scusa a vossia” con questa fiumana di giovani, che dietro i loro camion che sparavano musica a palla, non hanno affatto marciato, ma danzato per chilometri sotto il sole, e dio solo sa come abbiano fatto, con questa gioiosa e allegra fiumana di vita è scesa in campo la sola, immensa, vera e possibile forza reale di opposizione alla guerra e all’abisso in cui l’umanità sta precipitando.

Quelli della mia generazione (ho appena compiuto sessant’anni) dopo decenni di sconfitte, non possono dare lezioni a nessuno su come si fanno i cortei e su come si fa opposizione seriamente; si mettessero umilmente al loro fianco e, se non riescono più a danzare, almeno camminassero curiosi tra di loro.

Mauro Carlo Zanella

Fonte
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