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Blocchiamo tutto

Ci siamo, qualcosa si sta muovendo. Centinaia di migliaia di persone – c’è chi addirittura dice un milione! – sono scese in piazza contro la guerra e il genocidio in Palestina lunedì 22 settembre per lo sciopero generale convocato da USB, CUB e altre sigle di base. La novità però non sta tanto nei numeri, comunque eccezionali negli ultimi anni per uno sciopero convocato da sindacati di base, o nella concretezza della parola d’ordine “Blocchiamo tutto!” che certamente è riuscita a trasformare la protesta in azione materiale. La novità sta nel fatto che alla fine delle manifestazioni, che si sono tenute in oltre 80 località, in alcune città non si è tornati a casa. Quello stesso giorno o nei giorni immediatamente successivi nelle piazze delle città, nelle aree industriali o portuali sono nati presidi permanenti, con tende, gazebi e assemblee. Iniziative simili stanno continuando a nascere anche a distanza di giorni. Dopo settimane di assemblee e manifestazioni locali contro il genocidio in Palestina e a sostegno della Global Sumud Flotilla, che si sono tenute a ritmi serrati segnando l’inizio di settembre, lo sciopero generale ha aperto una nuova più intensa fase di mobilitazione. Con l’agitazione aperta nei porti e in molti luoghi di lavoro, con i presidi permanenti, si sta pian piano superando la dimensione delle singole giornate di mobilitazione, e si inizia a costruire una dimensione quotidiana della lotta. Una dinamica in evoluzione, in cui vediamo estendersi la partecipazione e il coinvolgimento di settori della società che non erano ancora scesi in piazza. Certo continuano ad avere un ruolo centrale le segreterie sindacali influenzate da tendenze politiche autoritarie. Ma va considerato che l’opposizione alla guerra ha già dimostrato di coinvolgere lavoratorx, indipendentemente dalla loro affiliazione sindacale, e settori sociali molto più ampi. Per questo è fondamentale fare la nostra parte, portando chiaramente l’antimilitarismo al centro là dove possibile, nella consapevolezza che in una situazione così fluida possono non solo trovare spazio pratiche e metodi libertari, ma anche temi e obiettivi nuovi e radicali.

La giornata del 22 settembre è stata una sorpresa per molti. È stata definita inaspettata, ma in realtà è stata preparata a lungo. Gli scioperi contro la guerra degli scorsi anni in cui la componente anarchica e anarcosindacalista presente nel sindacalismo di base si è impegnata a fondo sono sicuramente stati un terreno comune di confronto per provare a rimettere lo sciopero generale al centro dell’opposizione alla guerra, nella convinzione che solo la classe lavoratrice ha la forza di fermare la produzione e il commercio di armamenti, di fermare la corsa al riarmo e l’arruolamento dell’intera società nella politica guerrafondaia dei governi. L’attività di alcuni gruppi di lavoratorx, come il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova, il Gruppo Autonomo Portuali di Livorno, Ferrovierə Contro la Guerra, l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, che pur partendo da posizioni anche molto diverse, e anche con numeri ristretti hanno in questi anni organizzato reti solidali e specifiche campagne, sensibilizzando sul ruolo di infrastrutture e istituzioni nelle politiche militariste, costruendo nei posti di lavoro le condizioni per prendere l’iniziativa contro la guerra. Le condizioni perché questa giornata di sciopero riuscisse le ha create la stessa arroganza dei governi, dell’attuale governo guidato da Giorgia Meloni e dei principali partiti parlamentari nel sostenere la politica di riarmo, l’aumento delle spese militari, il sempre maggiore coinvolgimento italiano nelle guerre, l’appoggio allo stato di Israele. Inoltre, questo sciopero è stato preparato in alcuni contesti territoriali da percorsi organizzativi allargati e comunque convocato in un clima di crescente attenzione sulla situazione a Gaza e sulla Flotilla. Così, nonostante la disinformazione sul diritto di sciopero, nonostante la poca visibilità data dai media ufficiali, nonostante la Commissione di garanzia sia intervenuta contro alcune sigle che avevano aderito allo sciopero, in particolare contro l’USI-CIT, niente ha potuto fermare la spinta della giornata del 22 settembre. Anche lo sciopero della CGIL, presentato falsamente come sciopero generale, convocato per venerdì 19 settembre, anziché smontare lo sciopero generale del 22 – come avrebbe certo voluto qualche burocrate – alla fine ha avuto quasi l’effetto contrario.

Non era comunque scontato questo risultato, dal momento che si trattava di uno sciopero tutto politico, in solidarietà a Gaza, alla Global Sumud Flotilla, uno sciopero contro il riarmo e contro l’economia di guerra. Ma che proprio per questo è riuscito a catalizzare l’opposizione alla guerra presente nella società e a portare sul piano politico la tensione umanitaria che già nelle settimane scorse aveva mobilitato decine di migliaia di persone nelle raccolte di materiali per la Flotilla. In un momento in cui i potenti del mondo giocano alla guerra in modo sempre più pericoloso, rischiando di provocare un’estensione del conflitto in Europa orientale. Mentre lo stato di Israele sta portando alle estreme conseguenze i propri piani di deportazione e genocidio nei confronti della popolazione palestinese di Gaza. Da molte parti si sente dire che siamo di fronte alla nascita di un nuovo movimento. Certo è che non si potrà più dire, come molti han fatto finora, che l’opposizione alla guerra è solo nei sondaggi e non nelle piazze. Con i blocchi dei varchi portuali, delle uscite autostradali, delle stazioni dei treni, delle grandi arterie di comunicazione, è stato dato uno sbocco politico concreto a questa opposizione. A Livorno, a Taranto, a Genova ci sono state delle vittorie, parziali certo, ma delle vittorie, perché la mobilitazione di lavoratorx e di un ampio movimento di solidarietà ha bloccato effettivamente le operazioni di scarico di navi con carico militare o comunque ritenute implicate nella politica genocida e militarista dello stato di Israele.

In questo momento bisogna saper andare fino in fondo. Ciò significa non solo portare nelle parole una prospettiva antimilitarista e internazionalista, insomma rivoluzionaria in queste mobilitazioni. Ma soprattutto diffondere la pratica dell’azione diretta fuori e contro la mediazione istituzionale, favorire forme di autorganizzazione e di orizzontalità decisionale per estendere la partecipazione, moltiplicare i blocchi perché diventino una pratica di massa. Facciamo tremare chi vuole imporci il governo del terrore e della paura. Facciamo crollare la terra sotto i piedi a chi fa la guerra.

Dario Antonelli

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