Quando uscirà questo numero di Umanità Nova saranno passati ottanta anni dalla fondazione della Federazione Anarchica Italiana. Nel 1945, e precisamente dal 15 al 19 settembre, si riunirono a Carrara realtà anarchiche (Federazioni, gruppi, circoli) in rappresentanza della stragrande maggioranza del movimento anarchico di lingua italiana, e diedero vita alla FAI. Per ricordare questo evento, e soprattutto per far conoscere i problemi che si trovò ad affrontare la Federazione all’inizio del suo cammino, abbiamo deciso di pubblicare uno stralcio tratto dal libro di Gino Cerrito “Il ruolo dell’organizzazione anarchica”.
Per quanto riguarda in particolare il movimento anarchico italiano, bisogna tenere anche conto del fatto che esso aveva sofferto la dittatura fascista. Durante il ventennio, gli esuli – nonostante le polemiche dissolventi che caratterizzavano ogni emigrazione politica – avevano vissuto esperienze indubbiamente utili ma erano rimasti staccati dalla vita reale del paese, ove intorno al 1945 tornavano nutrendo sogni spesso lontani dalle obbiettive possibilità del movimento. I rimasti, sorvegliati, processati, condannati al carcere e al domicilio coatto, furono talvolta indotti dalla lotta ad inserirsi nelle cellule comuniste e nei gruppi di «Giustizia e Libertà», vivendo così esperienze necessariamente autoritarie che ne sottrassero diversi all’anarchismo e che impoverirono il patrimonio antiautoritario di altri. La cospirazione, del resto, è un fenomeno di natura autoritaria che lascia negli individui che la soffrono indiscutibili segni, attenuati solo dal contatto con i confinati e poi con gli esuli.
La ricostituzione del movimento fu inizialmente opera dei rimasti nel paese e particolarmente dei confinati. Anche per ciò essa si verificò con notevole ritardo di fronte a quella degli altri partiti politici. Com’è noto, uno degli effetti del crollo del regime mussoliniano fu la liberazione dei prigionieri politici: ebbene gli anarchici, per ordine superiore, rimasero nelle carceri e nelle isole per parecchi mesi ancora; e si trovarono liberi verso il settembre 1943 alla spicciolata e spesso per atti
di forza compiuti collettivamente o individualmente. In tali condizioni ogni ritrovamento dei compagni per la ricostituzione dei gruppi appariva difficile.
Nel Sud, i gruppi rinacquero fra enormi difficoltà e con essi comparve, fin dal 1944, qualche periodico stampato a Napoli. In quel medesimo anno si tennero diversi convegni locali; e finalmente, nel settembre, i delegati dei gruppi calabresi, pugliesi e campani si riunirono a Napoli e giunsero a definire un orientamento anarchico, che risentiva della preoccupazione di cadere nel revisionismo autoritario dei partiti. I motivi di questo timore derivavano dalla constatazione della degenerazione del movimento sindacale, dal disgusto verso lo spirito gregario coltivato dai regimi di Mussolini e di Stalin, dall’isolamento in cui molti dei convenuti erano rimasti durante il ventennio, da una comprensibile reazione contro l’affluenza nel Partito comunista perfino di anarchici. Tutto ciò produsse una profonda diffidenza nei confronti di una organizzazione impegnata del tipo di quella del 1920, che i congressisti giudicavano acriticamente superata. Nei confronti poi del problema del movimento operaio, il congresso stigmatizzava la ricostituzione al vertice della C.G.I.L. per opera dei partiti di governo; e senza tentare neppure di ricostituire una libera organizzazione operaia (quanti dei congressisti avevano effettivi contatti con operai e con contadini?), invitava i compagni di Roma a revocare espressamente la partecipazione anarchica al Consiglio direttivo della C.G.I.L., che era stata richiesta da Bernardino De Dominicis già dirigente dell’Unione Sindacale Italiana. Sul medesimo piano si ponevano, poco dopo, gli anarchici siciliani, che nell’individualista Paolo Schicchi di Palermo ammiravano un esempio da imitare.
Sostanzialmente diversa era la posizione degli anarchici nell’Italia centrale e settentrionale, ove essi parteciparono attivamente alla Resistenza ed ebbero numerosi caduti. Periodici, numeri unici e manifesti di propaganda vennero pubblicati saltuariamente a Firenze, a Genova, a Torino, a Milano, a Ravenna ed altrove; mentre dopo l’aprile del 1945 ogni città del Centro e del Settentrione ebbe praticamente il suo organo di stampa.
È chiaro che, già dal 1943-44, queste pubblicazioni erano l’espressione di gruppi e di federazioni nati con denominazioni diverse. A Roma, per esempio, ove durante la Resistenza numerosi anarchici erano stati passati per le armi e tre di essi proprio alle Fosse Ardeatine, nasceva subito dopo il maggio 1944, per opera di compagni di diverso orientamento, una Federazione Comunista Libertaria che dopo la diffusione di qualche numero unico, iniziava nel dicembre la pubblicazione settimanale di «Umanità Nova». A Firenze, le prime consistenti conferenze anarchiche si tennero nell’aprile e nel maggio 1943, con la partecipazione di delegati di varie città della Toscana, della
Liguria, dell’Emilia, del Lazio, i quali costituirono la «Federazione Comunista Anarchica Italiana», animata dal vecchio Pasquale Binazzi di La Spezia e attiva particolarmente a Livorno, a Firenze ed a Pistoia. Proprio qui, nel 1939, erano sorti due gruppi giovanili anarchici alcuni membri dei quali erano finiti nel 1940 innanzi al «Tribunale speciale per la difesa dello Stato» o alla «Commissione provinciale per l’assegnazione del confino di polizia». Il 10 settembre 1943, il compagno Lato Latini tuttavia su posizioni individualiste stampava nella sua tipografia il n. 343, a. III di «Umanità Nova» Giornale anarchico, espressione della rinascita di cui abbiamo discorso. Il foglio veniva poi continuato clandestinamente, per altri 13 numeri, nel corso dell’estate 1944 e dell’autunno-inverno 1944-45, sotto l’amministrazione alleata, da Lato Latini, Augusto Boccone ed E. Puzzoli.
A Genova, a Milano, a Torino si tennero durante l’occupazione nazista varie riunioni interregionali e si decisero iniziative comuni, trasmesse poi ai compagni delle località che non avevano potuto inviare delegati con il solito mezzo del venditore ambulante di merci varie e del personale viaggiante delle ferrovie e delle poste. Talvolta, in alcuni centri, per necessità locali e per effetto di quelle convinzioni alleanziste che si erano andate diffondendo durante il ventennio, i compagni parteciparono come membri di diritto ai «Comitati di Liberazione Nazionale» e poi, dopo la liberazione, si impegnarono persino nella ricostruzione delle amministrazioni pubbliche locali, [due esempi di ciò si ebbero a Balsorano (AQ) e Bucchianico (CH) dove rispettivamente Bifolchi e Fedeli assunsero la carica di sindaco nel ’45 – nota editoriale] con l’illusoria speranza che si andasse incontro ad una situazione nuova che richiedeva un impegno più «realistico» degli anarchici. Era la prima volta che in Italia gli anarchici partecipavano, in quanto tali, e sebbene per poco tempo, all’amministrazione della cosa pubblica, convinti di non potere sottrarsi a questo «dovere». Indubbiamente influiva su loro non soltanto la vicenda della guerra partigiana con i suoi ovvi compromessi, ma anche l’attività del precedente periodo cospirativo e gli stessi avvenimenti spagnoli di cui – come si è detto – non c’era stato il tempo di approfondire adeguatamente i problemi. La confusione ideologica e tattica caratterizzava in genere tutto il movimento, che nonostante tutto sembrava realmente unito e la cui situazione generale, all’atto della liberazione, era in netta fase ascendente al Sud e assai brillante in tutta l’Italia centrale e settentrionale.
Nella stessa capitale industriale del paese – che era notoriamente la roccaforte del socialismo legalitario – gruppi numerosi delle correnti partigiane e dei contingenti operai delle industrie si orientavano verso l’estremismo anarchico: sicché a Milano l’organizzazione «Comunista Libertaria» contava parecchie migliaia di aderenti. Ancora più solida era la posizione dell’anarchismo a Livorno, ad Ancona, a Genova e particolarmente a Carrara e nella zona del marmo, di cui sono note le tradizioni libertarie. Sicché, quando nel giugno del 1945 gli anarchici dell’«Alta Italia» si riunirono a Milano, risultavano rappresentate 14 federazioni e 8 gruppi non federati, per alcune decine di migliaia di soci, come appunto venne affermato.
Per la maggior parte, quelle organizzazioni avevano sostituito alla vecchia denominazione di Federazione anarchica, quella di Federazione comunista-libertaria. I motivi ci sembrano ovvi: in primo luogo gli anarchici avevano ricostituito le federazioni ed i gruppi durante e subito dopo il conflitto, sapevano di avere contro di loro grossolani pregiudizi e avversioni tradizionali; in secondo luogo essi ritenevano utile definire il loro programma anche nel nome dei gruppi ricostituiti, mettendolo di fronte a quello autoritario del Partito comunista; infine non è forse da escludere che a spingerli verso la nuova denominazione fosse la convinzione della rivoluzione sociale imminente (convinzione comune allora nel nostro paese) e intanto la necessità di aprire le porte del movimento alla quantità, che i vecchi compagni si proponevano di maturare nel tempo. La nuova denominazione si richiamava, è vero, al programma malatestiano, ma non dava la sensazione del rigore ideologico. Anzi, per legare al movimento i numerosi giovani affiliati, venuti all’anarchismo
perché spinti da entusiasmo contingente, da sfiducia nei partiti politici tradizionali, della cui politica peraltro non conoscevano perfettamente né i difetti né i pregi eventuali, e dal desiderio di menar le mani, vennero adottate le tessere ed i distintivi, il che suscitò scandalo fra gli intransigenti.
L’adozione della legge del numero, che era stata la base della ricostituzione della Federación Anarquista Iberica del luglio 1937, era poi accompagnata da altre non meno interessanti e indicative deliberazioni. Le discussioni e le conclusioni del Convegno rispondevano perfettamente al carattere che il movimento aveva assunto nel Settentrione. Si auspicava cioè la costituzione di un’associazione nazionale anarchica omogenea ed efficace. Del resto il nome stesso datosi dal movimento del Nord preludeva alla formazione di un’organizzazione di tendenza, che rilanciava ed irrigidiva i caratteri di quella costituita a Bologna nel 1920. I convenuti riconoscevano poi la necessità dell’unità sindacale e della partecipazione degli anarchici al movimento operaio, onde imprimere alle masse lavoratrici le «direttive» libertarie. Incaricavano un apposito comitato di prendere contatti con il Comitato di Liberazione Nazionale «Alta Italia», affinché «sia assicurato il diritto ai nostri compagni di entrare in tutti quei comitati ove il nostro ingresso sia ritenuto necessario ed utile ai fini del controllo e della preparazione rivoluzionaria». Infine consigliavano alla stampa anarchica di porsi su un piano di rinnovamento: discutendo i problemi vitali della società e trasformandosi da strumento riservato ai già «convinti», in mezzo di penetrazione nelle masse popolari. Era proprio ciò che faceva la redazione del settimanale della Federazione comunista
libertaria lombarda guidato da Mario Mantovani. «Il Comunista Libertario» che dal 1946 diventava «Il Libertario» fu certamente il periodico più moderno e più aderente ai problemi del momento, quasi per tutto il periodo della sua pubblicazione cessata nel settembre 1961.
Furono questi i raggruppamenti (non così perfettamente delimitati) che parteciparono al Iº Congresso anarchico nazionale del dopoguerra, tenutosi a Carrara nel settembre 1945.
Senonché, la coerenza ideologica degli anarchici dell’Italia del Nord, cioè dei «comunisti libertari», era inficiata dall’esistenza fra loro di un gruppo di delegati che si presentavano con l’intenzione di operare una revisione radicale dell’anarchismo, trasformando il movimento in partito a base marxista. Per cui coloro che temevano un’organizzazione «impegnata» come l’inizio di un’offensiva contro la «purezza» dell’Ideale, trovarono una giustificazione calzante al loro estremo «puritanesimo». Essi, invero, non erano molti: traevano però la loro forza dalla saltuaria, incerta e oscillante adesione di tutti coloro che, pur definendosi comunisti anarchici, nutrivano una profonda e a volte inconscia avversione per l’organizzazione, che accettavano per le necessità della lotta e come transazione con i principi.
A Carrara, oltre a numerose individualità ed ai redattori dei periodici libertari, sono presenti i delegati di 25 federazioni regionali o provinciali e di 36 gruppi non federati, in rappresentanza di tutte le regioni d’Italia. Il clima è rivoluzionario e da «fronte unico». Tutti i congressisti sembrano formalmente d’accordo, almeno nelle conclusioni, di non rompere quella unità entusiasmante, fatta di abbracci fra vecchi combattenti e di propositi rivoluzionari. A questo clima, dopo le prime schermaglie, non resiste neppure il gruppo di revisionisti ai quali abbiamo fatto cenno. E infatti, il Congresso non approva alcun programma ideologico, giacché un programma ideologico uniforme significherebbe indubbiamente frattura; e si ricollega perciò alle più vecchie iniziative associazionistiche del movimento, che vanno dal lontano Congresso di Saint-Imier del 1872 a quello di Amsterdam del 1907. Così il Congresso terrà formalmente unite le tendenze che lo compongono, in un’associazione che darà agli organizzatori di varia gradazione l’illusione di avere
creato uno strumento efficiente e funzionale, e che rassicurerà al contrario gli antiorganizzatori circa il significato di quella funzionalità. Ciascun gruppo comprende quindi le cose a modo proprio e si reputa praticamente soddisfatto o quasi dei risultati raggiunti, salvo marginali eccezioni. E nessuno si chiede perché mai a Carrara si ritiene necessario imporre a tutto il movimento anarchico italiano una nuova denominazione, quella di Federazione Anarchica Italiana (F.A.I.); dato che è chiaro che la F.A.I. si identifica perfettamente con il movimento nel suo insieme, rappresentando rispettivamente quelle tendenze e quei gruppi che lottano per l’anarchismo, sulla base di principi fondamentali formalmente, ma solo formalmente, identici e di scopi piuttosto comuni. È d’altra parte chiaro che, essendo gli anarchici contrari alla guida delle maggioranze ed alla subordinazione delle minoranze, il disaccordo interno continuo e basilare tra le tendenze non tarderà ad esplodere, e sarà capace di stroncare numerose iniziative, compromettendo tutta l’azione della Federazione italiana in campo nazionale ed in campo locale. Salvo il caso che una sostanziale tolleranza, che dovrebbe essere il frutto di una straordinaria comprensione della ideologia, non riesca a fondere il tutto in una «sintesi» che impedisca ai contrasti di ostacolare un’incisiva azione collettiva.
Da quest’impostazione della F.A.I. – Movimento scaturiscono ovviamente le norme organizzative; le quali in realtà – con le loro cavillose e ingenue precisazioni sulle riunioni periodiche degli organismi aderenti ecc. – obbediscono alle istanze degli organizzatori, mentre con le loro lacune riguardanti fra l’altro i compiti della Commissione di Corrispondenza, rispondono all’orientamento degli antiorganizzatori. Notevole è la differenza di tono tra il Patto dell’U.A.I. del 1920 e le «direttive» (interessante questo lapsus venuto fuori dalla penna di Cesare Zaccaria, esponente del «purismo» congressuale) della F.A.I. da cui traspare la convinzione che l’organizzazione è accettata come male necessario, piuttosto che come garanzia di libertà. Invece di porre l’accento sull’obbligo morale del rispetto degli impegni, le «direttive» ribadiscono in maniera sintomatica il concetto dell’autonomia senza limiti, o – come avrebbe detto Malatesta – senza quella necessaria integrazione o garanzia dell’autonomia stessa, che consiste nell’obbligo morale del rispetto dell’impegno associativo, sentito piuttosto come diritto. Stando così le cose, è chiaro che le «direttive» non possono stabilire che le deliberazioni generali dei congressi impegnino materialmente e moralmente tutta la F.A.I.. Allo stesso Ufficio di Corrispondenza, ora Consiglio Nazionale, si attribuisce solo il compito di curare l’organizzazione secondo le deliberazioni congressuali – ma non si spiega come – e di assicurare il collegamento tra i gruppi; mentre alle spese si decide di provvedere mediante sottoscrizioni volontarie, escludendo il criterio di contributi fissi. Il fatto è più importante di quanto non sembri a prima vista: un’attività politica sistematica che richieda delle spese regolari e che voglia rimanere legata a tutta una formazione deve evitare di dipendere da contributi occasionali di individui e di gruppi. Giacché l’attività politica abbandonata alla generosità saltuaria di individui o gruppi rischia il fallimento, almeno come attività continua. Non sarebbe poi impossibile che essa cadesse sotto il controllo ideologico, più o meno esercitato, di individui e di gruppi. È d’altra parte chiaro che il contributo fisso è una specie di costrizione che ripugna a molti anarchici, per i quali gli
impegni si rispettano finché si continua ad essere d’accordo con essi. In questa convinzione perfettamente legittimata dai principi ai quali si richiama, e non meno lineare anarchicamente con quell’altra riguardante l’impegno associativo e l’obbligo morale come garanzia di libertà e come affermazione di maturazione ideologica, sta la dimostrazione della necessità della distinzione e della differenziazione delle tendenze del movimento, cioè dell’impossibilità – almeno attuale – di un’organizzazione anarchica di «sintesi» e forse della possibilità di esistenza di una serie di organismi federali fondati sulla rispettiva identità di convinzioni ideologiche e tattiche, e sull’incontro dei medesimi in una specie di confederazione che comprenda anche i gruppi autonomi e che offra la possibilità di incontri periodici per scambi di opinioni ed accordi eventuali per azioni comuni […].
Sugli altri problemi il Congresso di Carrara adotta una serie di deliberazioni di cui talune veramente pertinenti: prende posizione contro i Comitati di Liberazione Nazionale, considerandoli manifestazioni autoritarie; costituisce un «Comitato di Difesa Sindacale» con il compito di coordinare l’azione dei Gruppi di Difesa Sindacale già inseriti dagli anarchici nella C.G.I.L, con il compito di trascinare i lavoratori al metodo dell’azione diretta; esclude ogni accordo permanente con i partiti politici e con le organizzazioni da essi controllate; ribadisce l’antiparlamentarismo anarchico anche di fronte alle prossime elezioni della Costituente e al Referendum istituzionale; afferma la necessità di agitare il problema della libertà del popolo spagnolo, di lottare contro i miti della Russia-comunista, dell’Inghilterra-liberale e dell’America-popolo libero.
Gino Cerrito
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