Uno sparo in faccia a Palermo.
Un ragazzo viene ucciso nella notte nel tentativo di sedare una rissa.
Una città si sveglia colpita in faccia da una violenza atroce e disperata.
Ucciso a 21 anni perché ha deciso di non restare indifferente, di non farsi gli affari propri, in una Palermo nella quale mettersi in mezzo è considerato un affronto imperdonabile.
È successo ancora una volta, come se fosse inevitabile. Come se fosse un dolore congenito, inestirpabile. Questa volta è stato il centro di Palermo il teatro della tragedia. Letteralmente.
Questa violenza ha il sapore disperato dell’abbandono, di chi solo nel branco abusante sa trovare il proprio momento di rivalsa.
Questa brutalità ha radici antiche ed espressioni moderne. Ha a che fare con la ricerca di identità perdute da ricostruire affannosamente attraverso l’affermazione di una supremazia primigenia.
La demonizzazione dei quartieri è il modo più diretto per continuare l’opera di abbandono.
La retorica della sicurezza non farà altro che alimentare un fuoco, che aizza incendi e distoglie lo sguardo.
Non saranno i presidi delle forze dell’ordine e i proclami alla repressione a risolvere la situazione.
Amore, città e altre catastrofi, dicevamo. Parole con cui ci confrontiamo ogni giorno in una città che si ritrova a raccogliere i frutti di una politica dell’abbandono e del profitto a discapito della cura e del mutuo soccorso.
Crediamo nella trasformazione della catastrofe e crediamo che non sia più rimandabile l’inizio di percorsi che possano creare opportunità, generare crescita e sviluppo intesi come motori sociali e umani.
Crediamo nel fallimento perché da questo è possibile sperimentare pratiche solidali e percorsi collettivi.
Investire sull’educazione, investire in spazi dove poter sperimentare e crescere, investire nei nostri quartieri per non lasciare nessuno indietro.
A Palermo il cielo oggi è nero, é una catastrofe.
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