Soumaila Diawara, rifugiato maliano e attivista politico, racconta il suo drammatico viaggio verso l’Europa e analizza le ferite ancora aperte del colonialismo e le nuove forme di dominio che opprimono l’Africa. Nel suo nuovo libro L’Africa martoriata, denuncia le responsabilità esterne ma anche quelle interne, invitando a un risveglio politico e culturale africano.
A cura di Marco Trovato
Soumaila Diawara, originario del Mali, è scrittore, attivista politico e rifugiato. Cresciuto a Bamako, si è formato nei movimenti studenteschi dell’opposizione democratica. Dopo il golpe militare del 2012 è stato costretto a fuggire. Ha attraversato il deserto e il Mediterraneo, arrivando in Italia nel 2014. Un viaggio, a tratti drammatico: «Una notte il nostro gommone è naufragato. Eravamo in 120, solo in 30 ci siamo salvati. Io sono rimasto in mare per più di un’ora prima di raggiungere la costa. Ho visto persone morire, essere uccise, ho vissuto l’inferno dei centri di detenzione in Libia». Dopo il memoir Le cicatrici del porto sicuro, firma ora un nuovo libro: L’Africa martoriata (Abra Books 2025, 318 pp. 20 €), un saggio appassionato e rigoroso sulle ferite del colonialismo europeo e sulle nuove forme di dominio che ancora gravano sul continente africano.
Il suo libro parte da una riflessione storica: perché è così importante guardare al passato per capire l’Africa di oggi?
È fondamentale perché non si può costruire un futuro solido senza analizzare a fondo gli errori del passato, non solo quelli dei colonizzatori, ma anche quelli compiuti dagli africani stessi. La politica africana spesso continua a essere ostaggio di logiche neocoloniali, talvolta rafforzate proprio da leader locali corrotti, che restano tra i principali responsabili del mancato progresso. Serve una vera assunzione di responsabilità da parte di tutti, africani in primis, per costruire una politica più libera, democratica e rivolta ai bisogni reali delle persone. E una maggiore stabilità in Africa non è solo nell’interesse degli africani: è un vantaggio per il mondo intero.
Quali sono le eredità più gravi che il colonialismo ha lasciato in Africa?
Le più evidenti sono le strutture di potere autoritarie che persistono in molti Paesi. In Togo, per esempio, la stessa famiglia è al potere da decenni. In Gabon i Bongo si sono tramandati il governo per tre generazioni. Ma ci sono anche eredità economiche pesanti, come i debiti contratti durante l’epoca coloniale che ancora oggi strangolano gli Stati africani. Si tratta di debiti imposti da potenze europee, spesso tra governi e banche dello stesso Paese colonizzatore, e che oggi ostacolano seriamente lo sviluppo africano.
Lei analizza i diversi modelli di colonialismo: chi si è macchiato delle responsabilità più gravi?
Il Belgio, senza dubbio. È assurdo pensare che un Paese così piccolo, che all’epoca della Conferenza di Berlino nemmeno era una grande potenza, abbia potuto compiere atrocità tanto gravi nel solo Congo. Parliamo di oltre 10 milioni di morti – forse anche 20 secondo alcuni storici – e di mutilazioni inflitte ai bambini per punire i genitori che non raccoglievano abbastanza caucciù. Poi ci sono le violenze italiane in Etiopia, come l’uso di gas contro i civili; l’Italia ha avuto una parte oscura e violenta nel suo colonialismo, e minimizzarla è un errore storico e morale. Senza dimenticare il genocidio dei Nama e Herero in Namibia da parte dei tedeschi. Storie spesso ignorate, ma che parlano chiaro.
Dopo oltre 60 anni dalle indipendenze, non è comodo per alcuni governi africani continuare a dare la colpa al colonialismo per i problemi attuali?
Concordo. Alcuni regimi, al potere da decenni, continuano a usare il colonialismo come scusa per giustificare il proprio fallimento. Ma se la Francia, ad esempio, non è più presente in Mali e i problemi restano, significa che dobbiamo guardarci dentro. Non si può denunciare l’imperialismo occidentale e poi sottomettersi a quello di altre potenze come la Russia o la Cina. L’Africa deve uscire da questa logica di dipendenza, smettere di aggrapparsi al vittimismo e avviare una profonda pulizia interna. Solo così potremo costruire un’autentica sovranità africana.
Lei parla anche delle nuove forme di dominio economico: cosa pensa del ruolo di Cina e Russia nel continente africano?
La forma è cambiata, ma la sostanza resta. Il neocolonialismo oggi si presenta in modo più subdolo. La Cina costruisce strade, scuole, ospedali… ma spesso si tratta di infrastrutture pensate solo per collegare le miniere ai porti, non per migliorare la vita delle persone. La Russia, invece, funge da braccio armato, in Mali o nella Repubblica Centrafricana. Si parla tanto di cacciare i francesi, ma domani potremmo fare lo stesso con i russi? Dubito. Le nuove potenze fanno i propri interessi. L’Africa deve imparare a scegliere i partner in base al rispetto e alla reciprocità, non all’ideologia o alla convenienza del momento.
Chi sono, oggi, i leader africani più credibili nella lotta per l’indipendenza economica e politica del continente?
Purtroppo sono pochi. Spesso ci si illude su certe figure: il ruandese Kagame, per esempio, è visto come un panafricanista, ma in realtà destabilizza il Congo e ne sfrutta le risorse. Uno dei pochi che mi sembra stia davvero tentando di cambiare le cose, nel rispetto dei diritti umani, è Bassirou Diomaye Faye in Senegal. Ha condannato le repressioni e tende la mano ai giovani. Si può rompere con il colonialismo senza chiudere ogni dialogo con l’Europa. Serve equilibrio, non populismo.
In Mali oggi governa una giunta militare. È una risposta alla corruzione dei governi precedenti o un nuovo problema?
È un problema peggiore. I militari al potere hanno favorito una nuova élite, fatta di giovani legati alla giunta che improvvisamente sono diventati miliardari. È la fotocopia del regime di Moussa Traoré. Chiunque osi criticare viene messo a tacere, arrestato, perseguitato. I veri opinion leader sono spariti dalla scena pubblica. È un sistema autoritario, senza trasparenza né libertà.
Cosa pensa del Piano Mattei promosso dal governo italiano?
L’idea originale di Enrico Mattei negli anni ’50 era interessante, ma oggi quel piano non è più attuale. L’Africa non è quella degli anni ’50, la popolazione è triplicata, le sfide sono nuove. Parlare di sviluppo con 5 o 10 miliardi è pura propaganda. È un piano pensato più per garantire accesso alle risorse africane che per creare un vero partenariato. Servirebbe qualcosa di profondamente diverso.
In Italia si parla spesso dell’Africa come minaccia, come origine di un’invasione migratoria. Cosa pensa quando sente queste narrazioni?
Mi indigno. Sono narrazioni costruite ad arte per seminare paura. Gli africani in Italia sono una minima parte della popolazione migrante. Parlare di invasione è falso. Inoltre, lo stesso governo che si lamenta della migrazione irregolare chiede 500.000 lavoratori africani regolari. Allora perché non partire da chi è già qui? Regolarizzarli, formarli, insegnare loro la lingua, integrarli? È assurdo giocare sulla pelle delle persone solo per qualche voto in più.
Lei è passato anche dalla Libia. Cosa ha pensato della liberazione del generale Osama al-Masri?
Una vergogna. Quest’uomo è responsabile di stupri, torture, schiavitù. Ha fatto costruire un aeroporto privato con la manodopera dei migranti che lui chiamava “i suoi schiavi”. Il governo italiano lo ha accolto con onori, perdendo un’occasione storica per affermare i valori del diritto internazionale. È una sconfitta morale, oltre che politica.
In molti Paesi africani stanno nascendo movimenti giovanili che protestano. Cosa chiedono? Ce la faranno a cambiare davvero le cose?
Chiedono diritti, istruzione accessibile, lavoro, trasparenza. Vogliono concorsi pubblici senza raccomandazioni, tasse universitarie più basse, meno corruzione. Forse non ce la faranno subito, ma stanno già muovendo le coscienze. I governi non possono arrestarli tutti. E anche l’Occidente dovrebbe capire con chi collaborare: con i popoli, non con chi li opprime.
Spesso si dice che l’Africa non ha futuro. Lei cosa risponde?
L’Africa sorprenderà ancora. La sua forza viene dalla sofferenza, ma anche da una nuova consapevolezza. I giovani sanno che il cambiamento non verrà da fuori. Hanno le capacità, la volontà e la forza per costruirsi un futuro. Non bisogna più guardare agli africani come a soggetti passivi. Chi lo fa alimenta il pensiero neocoloniale. Guardiamo a Ghana, Botswana, Sudafrica: l’Africa può farcela, e il suo riscatto sarà anche una chance per l’Europa.