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Netanyahu ha ora la guerra che voleva: chi ne pagherà il prezzo?

È possibile scatenare una guerra a tutto campo con un paese attivamente impegnato in negoziati con la più grande potenza dell’Occidente, nonché propria principale alleata, come gli Stati Uniti? Accampando come ragione del nuovo conflitto, quando è ancora in corso quello su Gaza, il sospetto che quel paese si doti della stessa, ipotetica arma nucleare che era oggetto proprio dei negoziati?  

Evidentemente sì, per Israele è possibile. Tanto che ha riversato contro l’Iran una vera tempesta di fuoco che ha raggiunto decine di strutture militari e nucleari in tutto l’Iran, e di complessi residenziali nel cuore della capitale e in altre città. Fino ad uccidere non solo uomini chiave della dirigenza politica e militare della Repubblica Islamica, ma anche, solo nel primo giorno di guerra, un’ottantina di civili. Un attacco notturno al quale Teheran ha risposto, la notte successiva, con centinaia di missili su Gerusalemme e Tel Aviv, uccidendo tre israeliani e ferendone altri ottanta.

Israele ha innescato questo nuovo conflitto apparentemente ignorando la contrarietà dello stesso Presidente USA, Donald Trump, che però si è poco dopo accodato al suo principale alleato in Medio Oriente intimando ai vertici iraniani di accettare la sua proposta per un accordo prima che diventi troppo tardi. L’ennesima incoerenza di Trump su questo tema: nei mesi precedenti aveva sempre dichiarato di preferire la via diplomatica alla guerra, anche se era stato ondivago sui termini con cui una nuova intesa si sarebbe dovuto raggiungere: se lasciando cioè a Teheran la possibilità di arricchire l’uranio al di sotto del 5%, autoproducendoselo così per impieghi civili, o privandola del tutto di questa facoltà, con lo smantellamento di tutte le strutture nel suo territorio. O magari permettendogli di continuare con l’arricchimento a basso livello, come emerso dalle ultime indiscrezioni sulle proposte avanzate da Washington nei colloqui, finché non fosse stato creato, con i paesi arabi del Golfo, un consorzio che lo facesse per suo conto. 

Non che l’ostacolo fosse di scarso rilievo: infatti, mentre Teheran rivendicava quello di arricchire l’uranio come diritto derivante dalla sua adesione al Trattato di non proliferazione nucleare, la pressione dei falchi anti-iraniani, negli USA come in Israele, aveva spinto Trump e il suo negoziatore Steve Witkoff ad assumere posizioni più intransigenti, che così sono passate dall’affermare che l’Iran non doveva possedere un ordigno nucleare al perseguire l’obiettivo di non permettergli l’arricchimento tout-court. In ogni caso, per quanto arduo si mostrasse il ricomporre questa divergenza, proprio l’idea di un consorzio destinato a subentrare  va messa tra i fattori che hanno fatto andare avanti i colloqui, fino all’appuntamento – ora revocato da Teheran - di domenica 15 giugno

Ma di fronte a una guerra guerreggiata di tali dimensioni sul suolo iraniano, come quella cominciata nelle prime ore del 13 giugno 2025, e proseguita con il contrattacco su Israele, ha ancora senso parlare dei negoziati che avrebbero dovuto riprendere in Oman solo due giorni dopo? 

Noi pensiamo di sì, perché il frastuono assordante delle bombe, dei missili, dei droni e delle esplosioni, e il bellicismo delle minacce e delle ritorsioni, non coprano per sempre la voce più pacata della razionalità messa in campo al tavolo di quei colloqui che avrebbero dovuto garantire una allentamento delle tensioni, se non la pace. 

Negoziati USA-Teheran, a che punto eravamo 

E dunque facciamo un passo indietro, al giorno prima: a quel 12 giugno in cui la diplomazia ha cominciato a scivolare dal crinale su cui era rimasta fino ad allora, in una corsa che lo stesso Trump non ha voluto arrestare. 

È la mattina del 12 giugno quando il Consiglio dei 35 governatori dell’AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha infine votato a maggioranza una risoluzione da tempo annunciata, e che dichiarava, per la prima volta in un ventennio, che l’Iran non rispettava i suoi obblighi in materia di non proliferazione. Una risoluzione che apriva alla possibilità che venissero re-imposte le sanzioni ONU, sospese dieci anni prima con l’accordo multilaterale raggiunto con Teheran, il JCPOA, per volontà dell’amministrazione Obama: una possibilità che sarebbe definitivamente scaduta, proprio per effetto di quello stesso accordo, nel prossimo ottobre. 

All’origine della risoluzione, voluta dagli USA e dai partner europei di quell’accordo (Francia, Gran Bretagna e Germania), l’ultimo rapporto degli ispettori dell’AIEA che confermava che l’Iran aveva ormai scorte per oltre 400 kg di uranio arricchito al 60%, un quantitativo sufficiente – se ulteriormente arricchito al 90% - per produrre una decina di ordigni nucleari in qualche settimana. Anche se, dicono gli esperti, sarebbe necessario fino a oltre un anno perché Teheran possa utilizzare missili armati di tali ordigni. All’Iran è stata inoltre contestata una scarsa trasparenza in merito a tre siti da tempo dismessi (Marivan, Turquzabad and Varamin) ma non dichiarati, in cui erano state trovate tracce di uranio impiegate in attività precedenti al 2003 (ritrovamenti contestati a loro volta da Teheran, secondo cui erano stati frutto di un sabotaggio da parte dell’intelligence di Israele).

Insomma, le cose non si mettevano affatto bene per la Repubblica Islamica che continuava però a tenere aperta la strada dei negoziati.

Netanyahu: guerra all’Iran per la sopravvivenza di Israele

Ma per il premier israeliano Benjamin Netanyahu era invece necessario scatenare ora, e non dopo un dichiarato fallimento delle trattative con gli USA, “un’operazione militare mirata – come l’ha definita - per contrastare la minaccia iraniana alla sopravvivenza stessa di Israele”. Questo dopo che “negli ultimi mesi, l'Iran ha adottato misure mai prese prima, misure per trasformare questo uranio arricchito in un'arma e, se non verrà fermato, l'Iran potrebbe produrre un'arma nucleare in brevissimo tempo. Potrebbe essere tra un anno, potrebbe essere entro pochi mesi”. E così Israele ha deciso di “colpire al cuore” non solo il programma nucleare iraniano, ma anche quello dei suoi missili balistici, ora capaci - ha sostenuto - di portare ciascuno una tonnellata di esplosivo, in grado di uccidere “centinaia di persone”, anche se in prospettiva potrebbero trasportarne dieci volte tanto.

In un raffronto comparativo con la guerra a Gaza, dove sono morte almeno 55 mila persone, emerge d’altronde che la stessa Israele – secondo un rapporto ONU - ha usato bombe fino a 2.000 libbre (quasi un tonnellata, appunto) contro edifici residenziali, campi profughi e scuole. E solo nei primi due mesi di guerra, osservava Euro-Med Human Rights Monitor, aveva scaricato sulla Striscia l’equivalente di due ordigni atomici. Evidentemente – ma questa è l’opinione di chi scrive – per il governo di Israele non sono le vite umane a contare: al contrario, contano più i rischi possibili in un indeterminato futuro per le vite dei cittadini di Israele di quanto valgano quelle dei palestinesi, indiscriminatamente uccisi dalle bombe di Israele o dall’evidente uso della fame come arma di guerra.

Ma non è questo il solo caso di conclamato doppio standard, da parte di Israele, nel guardare ai paesi vicini. Sempre ad avviso di chi scrive, infatti, troppo spesso si omette di dire che Israele, che da decenni lancia l’allarme sul rischio di un Iran armato di un ordigno atomico, ha un proprio arsenale nucleare non dichiarato. E questo grazie anche al fatto che non aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare al quale invece aderisce Teheran.

Cosa potrebbe succedere ora e chi ne pagherà le conseguenze

Forse non più tanto a lungo, in realtà. Uno degli effetti dell’attacco di Israele su Teheran, già ampiamente previsto in caso di un’offensiva, era infatti che l’Iran uscisse dallo stesso Trattato, lasciandosi così le mani libere sull’eventuale passaggio al nucleare militare. Una decisione che dovrebbe comunque considerarsi una “reazione” ad azioni esterne percepite come “ostili”, come accaduto nei precedenti passi nell’accelerazione sul programma nucleare iraniano: a partire dall’abbandono unilaterale da parte di Trump dell’accordo del 2015, nel 2018, dalla successiva incapacità o non volontà dei paesi europei – fra i quali i tre succitati sostenitori della risoluzione del 12 giugno dell’AIEA, accusati dall’Iran di sette anni di inadempienza dagli impegni presi con Teheran - e dall’uccisione del generale Qassem Soleimani nel 2020. Fino all’attacco di venerdì 13 giugno, appunto.

Non è facile al momento alcuna previsione per il futuro. La guerra d’Israele contro Teheran mira appunto a chiudere la strada ad ogni residua speranza nella diplomazia e in un nuovo accordo con Teheran, come bene illustra un articolo di Mu Rosenberg sulla piattaforma Substack. “Israele – scrive - ha spinto per questa guerra. Ha sabotato la migliore alternativa alla guerra. Ha insistito sul fatto che non ci fosse altra via. Ora vediamo a cosa porta questa strada: caos, distruzione e proprio il pericolo che il JCPOA aveva prevenuto. Non era necessario che accadesse. Ma è stato fatto accadere da coloro che credevano che le bombe fossero sempre meglio degli accordi. Si sbagliavano, come sempre i falchi israeliani. E ne stiamo pagando le conseguenze”. Un commento in linea con quanto chi scrive ha sempre sostenuto su questo sito, mettendo in evidenza i rischi di ogni avventurismo bellico. 

Al tempo stesso, l’azione di Israele ha messo a nudo le tante vulnerabilità della intelligence e dei sistemi di preallarme e di difesa iraniana. Un fatto che ha sorpreso diversi osservatori, e che sembra avere infranto una diffusa convinzione che l’Iran, nonostante decenni di embargo e di precedenti infiltrazioni da parte dell’intelligence di Tel Aviv, fosse comunque pronto a intercettare e contrastare i tanto annunciati attacchi militari diretti. E invece le cronache del primo giorno di guerra rilevano non solo che Israele ha lavorato anni a questa operazione contro i programmi nucleari e missilistici dell'Iran, ma è riuscita perfino a costruire una base di droni all'interno del paese e introdurvi sistemi di armi di precisione e gruppi operativi. 

Legittimo chiedersi, dunque, fino a che punto il sistema è tanto debole, evidentemente anche nei più cruciali gangli militari e dell’intelligence, da farsi penetrare così profondamente. E se questa vulnerabilità non sia da ricondursi anche a quel sempre più ampio divario tra società civile e dirigenza della Repubblica Islamica che i movimenti di piazza degli ultimi anni (e in particolare il movimento Donna Vita Libertà, ma non solo) hanno rivelato. Una distanza che potrebbe avere approfondito le divisioni interne anche del fronte conservatore, già spaccato tra un’ala più militarista e ostile all’Occidente e un’altra più propensa alla mediazione. 

“In queste ore la base sociale della dirigenza più radicale si attende una risposta molto forte contro Israele e contro gli USA, che nessuno in Iran crede siano estranei all’accaduto – sottolinea un attento osservatore che preferisce rimanere anonimo - , cosa che può essere estremamente pericolosa per tutti”. Certo, la vulnerabilità dimostrata da Teheran in queste ore, e il precedente indebolimento della cintura di sicurezza rappresentata dalle milizie filoiraniane dislocate nella regione - pesantemente attaccate dall’esercito israeliano dopo il 7 ottobre anche in Libano, in Siria e nello Yemen - potrebbero alimentare le speranze che la prosecuzione di questa nuova guerra di Israele dia la spallata finale alla Repubblica Islamica: uno scenario bene esplicitato, appunto, da Netanyahu, quando ha invitato gli iraniani alla rivolta. 

Ma è ugualmente legittimo pensare che la nuova guerra di Israele dia invece concretezza allo spettro di un più ampio, tragico e inarrestabile conflitto su scala regionale. E chiedersi chi ne pagherà le conseguenze. Di certo gli iraniani e la società civile che lotta da anni per un cambiamento dall'interno, e non certo per un intervento bellico dall'esterno. E poi l'intera regione di nuovo trascinata nell'instabilità. E anche noi europei probabilmente, perché sarebbe un'altra guerra alle nostre porte che irresponsabilmente non abbiamo saputo evitare.

Immagine in anteprima: frame video Sky News via YouTube

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