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SAWTNA: Gaza, è il momento di metterci in gioco tutti insieme

Si è svolto martedi 10 giugno a Firenze, presso LUMEN, l’incontro “SAWTNA, Storie di Donne, Resistenza e Palestina”, con la partecipazione di Valentina Venditti Responsabile Medio Oriente CISS, Gabriel Illescas Alvarez Responsabile Unità Advocacy CISS, Tina Marinari, Coordinatrice Campagne di Amnesty International Italia, Micaela Frulli Docente di Diritto Internazionale all’Università degli Studi di Firenze, Amal Khayal Coordinatrice D’Area Gaza CISS e l’attrice Gaia Nanni con le letture delle testimonianze. Quest’ultime molto toccanti e commoventi così come il racconto di Amal, uscita da Gaza poco dopo l’attentato del 7 ottobre e che ora lavora a Palermo a supporto dei progetti per la Palestina e Gaza e che ha ancora parenti e amici che si trovano nell’inferno di Gaza.

Valentina Venditti ha ricordato che Sawtna significa “La nostra voce”, quella delle storie delle lotte e delle ingiustizie subite delle donne di Gaza e palestinesi in generale e ha rimarcato che prima del 7 ottobre molti avevano dimenticato la Palestina, nessuno parlava più dei diritti, del sacrosanto diritto del popolo palestinese alla sua auto-determinazione, alla libertà e alla giustizia. Non è dal 7 ottobre, ma è dal 1948 che le donne palestinesi sono state imprigionate e hanno subìto vessazioni all’interno delle carceri. Molto spesso fare prigioniere le donne viene utilizzato come una leva per fare pressione su coloro che partecipano alla resistenza, quindi per costringere i loro familiari ad arrendersi. Dall’ottobre del 2023, 490 donne sono state imprigionate, tra queste abbiamo attiviste per i diritti umani, parlamentari come Calida Gerrar, avvocatesse, giornaliste, studentesse come quella di di Birzeit, arrestata in quanto palestinese.

Con la detenzione vediamo come il corpo delle donne viene trasformato in un’arma, un’arma che viene utilizzata contro di loro per infliggere sofferenza. Le violazioni che abbiamo registrato sono appunto violenze fisiche, sessuali, psicologiche, privazioni di cibo, privazioni di beni di prima necessità come i prodotti igienici, l’impossibilità di allattare i bambini, questo “per indebolire la loro resistenza psicologica e la loro capacità di affrontare collettivamente la violenza”.

Sono state ricordate le tecnologie, come quelle di riconoscimento facciale e oculare che rappresentano dei sistemi di raccolta di dati di massa che poi servono per attuare quello che possiamo chiamare “genocidio automatizzato”. Basta pensare ai sistemi che hanno come Lavender o The Gospel che servono proprio a identificare il bersaglio e automatizzare l’eliminazione della persona ricercata o, ancor peggio, il sistema Where is Daddy, “dov’è il mio papà”, che è utilizzato per rintracciare la casa della persona e colpire anche la sua famiglia proprio all’interno della sua abitazione.

Le donne vengono spesso denudate, anche di fronte a soldati uomini e costrette a azioni umilianti pena restare anche senza vestiti: “io sono la numero 5, ci ha detto una donna, con tutto quello che ci riviene in mente quando sentiamo queste parole”.

Tina Marinari ha ricordato il rapporto che Amnesty International ha pubblicato il 5 dicembre 2024 e che descrive i crimini e il genocidio in atto, con le motivazioni raccolte le testimonianze e gli interventi delle colleghe. “C’è una convenzione del 1948, la convenzione sul genocidio, che elenca 5 azioni che possono essere commesse per eliminare completamente o in parte un gruppo etnico nazionale: l’uccisione dei membri appartenenti a quel gruppo, arrecare gravi danni fisici e mentali a quel gruppo etnico nazionale, creare condizioni di vita che portano alla distruzione di quel gruppo, prevenire nuove nascite all’interno del gruppo e spostare i minori da quel gruppo verso un altro gruppo”. Amnesty International si è concentrata su 3 delle 5 azioni, ma è stato sottolineato che per la convenzione basta anche solo una di queste azioni per portare avanti un’accusa di genocidio con la volontà di distruggere un gruppo etnico nazionale. Amnesty International ha portato le prove per analizzare e confermare le prime 3 azioni.

I bombardamenti (sulle abitazioni sulle scuole, le chiese, le moschee, gli ospedali, le strade, i pali della luce, i campi da coltivare e per allevare gli animali…) sono avvenuti con bombe pesanti, cioè tra i 110 e i 900 kg. Una bomba di 900 kg non lascia via di scampo, distrugge palazzi per intero, non danno la possibilità di sopravvivere e di salvarsi in alcun modo. “Ci tantissime famiglie che hanno perso tutti i familiari, 30 persone, due o tre generazioni di famiglie che sono state distrutte in un’unica notte”, in un unico bombardamento: tutto questo contravviene a quei “princìpi del diritto internazionale umanitario che sono il principio di distinzione, precauzione e proporzionalità che dovrebbero salvaguardare la popolazione”.

E se tutto questo non bastasse va aggiunto “l’impedimento da parte dell’esercito israeliano di far passare i beni di prima necessità. Israele ha deciso di chiudere Gaza, per più di 80 giorni, non è entrato più nulla”. Prima del 7 ottobre a Gaza si viveva grazie all’ingresso di 500 TIR al giorno che portavano acqua, cibo, medicinale, carburante: questo numero non è mai stato più raggiunto.

Oggi si parla di almeno 60.000 morti, ma in realtà questo numero non è reale, perché sappiamo che questo numero è quello delle persone che sono state registrate in qualche modo da qualche autorità, ma sappiamo che sotto le macerie ci sono persone morte che non sono state identificate. Lo stesso discorso vale per i feriti, si parla di oltre 120.000 feriti, ma quante persone non sono riuscite a raggiungere un posto per essere identificate e curate”? A questo si aggiunga che a Gaza è ormai impossibile essere curati e che la popolazione palestinese vive ogni giorno così da ormai 19.

Dopo l’intervento di Micaela Frulli, che ha rimarcato il concetto di genocidio, ma si è soffermata anche su tutta quella serie di comportamenti che “possiamo classificare ormai, per fortuna, tra virgolette, come crimini di guerra e crimini contro l’umanità”, c’è stata la testimonianza toccante e emozionante di Amal Khayal che ci ha permesso di ascoltare le esperienze dirette, personali e dei familiari e amici rimasti a Gaza, denunciando, non solo quello che sta succedendo da dopo il 7 ottobre, ma ormai da più di 80 anni, con gli stessi accordi di Oslo disattesi dopo solo una settimana con nuovi insediamenti di coloni. Il popolo stava accettando molte cose perché vogliamo la pace e vogliamo vivere una vita normale anche se ha dovuto “normalizzare” in tutti questi anni di vivere sotto occupazione.

Valentina Venditti ha concluso rimarcando che “se noi vogliamo che il diritto internazionale riesca a svolgere il suo lavoro, vuol dire che ci dobbiamo mettere tutti assieme, quindi basta di fare lotte separate, mettiamoci in rete, in rete con quelle istituzioni che vogliono lavorare con noi, spingiamo le università, … mettiamoci assieme, ONG, universitari, giuristi, tutti, supportiamo i lavoratori portuali che bloccano le navi della morte”.

In questo modo noi diamo anche forza al lavoro incredibile che ha fatto la giustizia internazionale: loro ci hanno dato il quadro, ci hanno detto ‘siete dalla parte giusta della storia’, ve lo stiamo dicendo anche noi, adesso dimostriamolo e, come ci hanno detto i palestinesi che abbiamo incontrato a Rafa, dobbiamo essere più coraggiosi, questo è il momento di alzare l’asticella delle azioni che facciamo, è il momento in cui dobbiamo mettere realmente in gioco i nostri corpi e lo dobbiamo, non solo alla Palestina, ma davvero a tutta l’umanità, perché qua è in gioco tutta l’umanità, non solo la Palestina.

La mattina dell’11 giugno Amal è stata invitata a tenere un altrettanto ricca e emozionante testimonianza in Palazzo Vecchio alla Commissione 7 presieduta da Stefania Collesei dedicata alla discussione della mozione “Rete degli Enti locali per i diritti del popolo palestinese” che è possibile rivedere in streaming a questo link.

L’incontro è stato replicato a Livorno l’11 giugno e Sesto Fiorentino il 12 giugno.

Paolo Mazzinghi

 

Paolo Mazzinghi

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