Oltre 1.500 civili potrebbero essere stati massacrati durante un attacco al più grande campo profughi del Sudan ad aprile, in quello che sarebbe il secondo crimine di guerra più grave del catastrofico conflitto che sta devastando il paese.
Da due anni il Sudan è teatro di un conflitto brutale tra due generali rivali, con conseguenze devastanti: milioni di persone sfollate, carestie in aumento, un numero imprecisato di morti e stupri di guerra. Nel silenzio della comunità internazionale, il paese è travolto da una pulizia etnica che nessuno sembra in grado di fermare.
Le due principali fazioni in guerra hanno commesso abusi terribili contro i civili. Da un lato, c’è la Sudan Armed Forces (SAF) con a capo il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente de facto del paese ma con scarsa autorità effettiva; dall’altro, il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (RSF), guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come "Hemedti" e che ha le sue radici nei Janjaweed, accusati di crimini contro l’umanità per le violenze esercitate nel Darfur negli anni del dittatore Omar al Bashir.
Le RSF e le milizie loro alleate hanno compiuto uccisioni deliberate e su larga scala di persone, molti delle quali appartenenti a determinati gruppi etnici. In questi due anni le RSF hanno commesso violenze sessuali diffuse, in particolare stupri di gruppo, e saccheggi. Hanno anche distrutto, spesso bruciando, città e villaggi e saccheggiato in modo massiccio gli aiuti umanitari.
Dall'altra parte, le SAF hanno effettuato attacchi aerei contro infrastrutture civili, compresi ospedali, hanno ucciso e hanno ripetutamente e deliberatamente ostacolato l'arrivo degli aiuti umanitari a chi ne aveva bisogno. Un rapporto dello scorso giugno di Human Rights Watch aveva riscontrato che gli attacchi aerei delle SAF, avvenuti nella regione del Darfur meridionale lo scorso febbraio, erano stati indiscriminati e non indirizzati verso obiettivi militari specifici, e questo si configurava come un crimine di guerra.
Ora un’indagine del Guardian ha rilevato che un attacco compiuto tra l’11 e il 14 aprile dalle forze paramilitari Rapid Support Forces (RSF) al campo di Zamzam, nel Darfur settentrionale, il più grande del paese per sfollati di guerra, potrebbe essere il più grave massacro nella regione dopo uno simile perpetrato due anni fa nel Darfur occidentale.
Secondo una commissione istituita per indagare sul massacro, avvenuto alla vigilia di una conferenza guidata dal governo britannico a Londra con l'obiettivo di portare la pace in Sudan, le vittime dell’assalto sarebbero più di 1.500, e non 400 come rilevato finora da rapporti precedenti. Anche l’ONU aveva parlato di “centinaia” di morti. Mohammed Sharif, membro della commissione dell'ex amministrazione di Zamzam, ha affermato che il bilancio finale sarà molto più alto, poiché molti corpi non sono ancora stati recuperati dal campo, ora controllato dalle RSF.
Il Guardian ha raccolto ripetute testimonianze di esecuzioni di massa e rapimenti su larga scala. Centinaia di civili risultano ancora dispersi.
Un esperto di violenze di questo genere, con decenni di esperienza nel Darfur, che ha intervistato decine di sopravvissuti di Zamzam, ha affermato che possano essere state uccise fino a 2.000 persone. Parlando in condizione di anonimato, ha aggiunto che i livelli di violenza erano impressionanti persino se paragonati al genocidio dei gruppi etnici africani nel Darfur durante gli anni 2000. “Ogni singola testimonianza di chi è fuggito parlava di familiari uccisi. È qualcosa che non ho mai visto prima”, ha detto al Guardian.
L’attacco ha preso di mira “una delle popolazioni più vulnerabili al mondo”, aggiunge Claire Nicolet, vice responsabile delle emergenze di Médecins Sans Frontières (MSF). I sopravvissuti hanno subito “saccheggi diffusi, violenze sessuali e altre aggressioni nei campi di transito”.
Decine e decine di donne sono state rapite e risultano ancora disperse. Sharif ha affermato di essere a conoscenza di oltre 20 donne portate a Nyala, roccaforte dell'RSF a 160 km da Zamzam.
“Il massacro di Zamzam, che da oltre 20 anni ospita sfollati, è uno dei crimini più atroci della storia recente. Eppure non ha suscitato alcuna indignazione a livello globale”, commenta Abdallah Abugarda, della Darfur Diaspora Association del Regno Unito. Circa 4.500 membri della sua organizzazione (che conta circa 30mila iscritti) conoscevano un amico o un parente ucciso nell'attacco. Almeno 2.000 residenti di Zamzam risulterebbero ancora dispersi.
Non se ne è parlato nemmeno durante la conferenza di Londra sul Sudan che si è tenuta all’indomani del massacro. La dichiarazione conclusiva ha ignorato gli orrori del Darfur. Zamzam non è stato nemmeno menzionato. “È stato come se avessero fatto finta che non fosse mai successo”, ha dichiarato una fonte delle Nazioni Unite.
Il mese scorso, la Corte Penale Internazionale ha dichiarato di avere “motivi ragionevoli” per concludere che nel Darfur si stanno commettendo crimini di guerra e crimini contro l'umanità.
Tra i modelli più inquietanti, ha affermato la viceprocuratrice Nazhat Shameem Khan, vi è l'uso mirato della violenza sessuale, compresi stupri, rapimenti e aggressioni basate sul genere, una campagna spesso diretta contro donne e ragazze appartenenti a specifiche comunità etniche.
Tutti questi crimini devono essere tradotti in prove affinché la Corte e il mondo possano ascoltarli, ha sottolineato Khan. Ma per farlo la CPI si trova ad affrontare una serie di ostacoli, tra cui l'ostruzionismo e l'ostilità nei confronti degli investigatori sul campo, la grave carenza di fondi, la cooperazione limitata da parte di alcuni Stati e le difficoltà relative all'arresto e al trasferimento delle persone ricercate dalla Corte Penale Internazionale.
Nonostante questo, il Team Unificato del Darfur della CPI è riuscito a raccogliere oltre 7.000 elementi di prova grazie anche a una maggiore cooperazione con la società civile e i gruppi delle vittime.
Nel frattempo, la situazione umanitaria peggiora. I convogli umanitari sono presi di mira, gli ospedali bombardati e il cibo e l'acqua vengono deliberatamente negati, riferisce l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).
All'inizio di giugno, cinque operatori umanitari sono stati uccisi in un'imboscata nel Darfur settentrionale, mentre i raid aerei nel Kordofan occidentale hanno ucciso oltre 40 civili, tra cui pazienti e personale sanitario.
A El Fasher, capitale del Darfur settentrionale, i bombardamenti attivi e l'accerchiamento armato da parte delle forze RSF hanno di fatto tagliato fuori i civili dall'assistenza vitale. Le segnalazioni di estorsioni e dirottamento degli aiuti nelle zone circostanti hanno ulteriormente aggravato la crisi.
L'epidemia di colera si sta diffondendo nelle zone di conflitto e il Darfur sta ora registrando casi di trasmissione transfrontaliera verso il Ciad e il Sud Sudan. I funzionari sanitari avvertono che la stagione delle piogge in corso potrebbe aggravare l'epidemia contaminando le già scarse risorse idriche.