Dalla Flottilla alla solidarietà con la Palestina: nelle piazze italiane rinasce una voce collettiva che il potere tenta di zittire. Ma quando la società si muove dal basso, l’anarchismo torna a essere pratica viva.
C’è un’aria nuova che attraversa le piazze, le scuole, i luoghi di lavoro e perfino i paesi più piccoli. Da settimane vediamo crescere cortei, presìdi, assemblee. Non sono le solite manifestazioni rituali o le sfilate di partito: sono spazi vivi, dove ci si guarda negli occhi, dove si discute, si litiga, si costruisce insieme. È il ritorno di una parola che da troppo tempo sembrava sepolta sotto le macerie della rassegnazione: autorganizzazione.
La “Flottilla”, con il suo coraggio e la sua determinazione, ha avuto il merito di rompere il silenzio e rimettere in moto le coscienze. Ha spinto milioni di persone a prendere posizione, a non restare neutrali davanti all’ingiustizia, a scegliere da che parte stare. Non è necessario definirsi anarchicə per sentire che, quando una popolazione assediata viene bombardata e affamata, chi le tende la mano compie un atto di umanità e di ribellione. Ma per chi l’anarchismo lo vive ogni giorno, questa ondata di partecipazione è un segnale importante: l’azione diretta torna ad essere percepita come naturale, necessaria, giusta.
La solidarietà con la Palestina è diventata il punto d’incontro di una consapevolezza più ampia. Nelle strade si sente che la guerra di Gaza non è solo una tragedia lontana, ma lo specchio delle nostre stesse oppressioni: il controllo, la censura, la disinformazione, la repressione poliziesca. Quando nelle università si vietano assemblee, quando si schedano le persone che manifestano, quando si criminalizzano i simboli della solidarietà, non si difende la libertà: la si calpesta. Eppure, nonostante tutto, le piazze si riempiono.
Non è un ritorno romantico del passato, ma qualcosa di profondamente nuovo. Le nuove generazioni non aspettano più mediatori, non si fidano di partiti né di leader. Scendono in strada perché sentono che è l’unico luogo in cui la propria voce conta davvero. E accanto a loro tornano volti che non si vedevano da anni: chi lavora, chi studia, chi è in cerca di un futuro, chi da sempre resiste. È un incontro tra esperienze diverse, un intreccio che genera forza e intelligenza collettiva.
Questo risveglio non nasce dal nulla. È figlio di anni di precarietà, di disuguaglianze crescenti, di un sistema politico che ha svuotato di senso la parola “democrazia”. Ma quando la misura è colma, qualcosa si rompe. Si rompe la paura. Si rompe il mito della delega. Si riscopre che il potere può e deve essere sfidato dal basso, direttamente, senza intermediari.
Nelle assemblee popolari che si moltiplicano in queste settimane si rivede la pratica dell’ascolto, del consenso, della costruzione collettiva. Non c’è un verbo unico, non c’è un centro che decide: c’è il bisogno di riprendersi la parola. E dentro questa parola collettiva, l’anarchismo ritrova spazio e senso. Non come ideologia imposta, ma come pratica concreta: solidarietà, mutualismo, autogestione.
La solidarietà non si chiede: si pratica. Si manifesta, si costruisce, si vive. E quando migliaia di persone si muovono insieme, senza aspettare il permesso di nessuno, quella è azione diretta. È il filo rosso che lega la Flottilla a chi sciopera, a chi occupa, a chi apre spazi sociali o difende un quartiere. È la consapevolezza che nessuna autorità restituirà mai ciò che ci spetta: dobbiamo prendercelo insieme, con intelligenza e determinazione.
Oggi, in Italia, si respira di nuovo qualcosa che somiglia a una speranza. Non ingenua, non messianica, ma umana e concreta. È il desiderio di giustizia che nasce dal basso e che non può più essere ignorato. Se sapremo coltivarlo, se sapremo intrecciare le nostre lotte, forse questa volta il vento non passerà invano.
Totò Caggese
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