Il secondo anniversario delle stragi del 7 ottobre 2003 si commemora in Israele ancora all’ombra della guerra, della paura e della riforma giudiziaria, ma anche della flebile speranza che il piano proposto dal presidente Trump salvi miracolosamente lo Stato ebraico dall’abisso concreto e morale nel quale è precipitato.
L’esasperante prosecuzione delle azioni militari da due anni a questa parte ha impedito la concreta conduzione di inchieste nei confronti della leadership politica e militare israeliana la quale persevera nella negligenza anteponendo i propri interessi personali anche al riscatto degli ostaggi.
E mentre al governo le élite ultraortodosse mungono finanziamenti e i sionisti religiosi assoldano le forze dell’ordine ai loro disegni messianici, l’opposizione è debole, ambigua e frammentata. La sinistra liberale fatica infatti a voltare le spalle al mito dell’esercito e a confrontarsi con il cancro dell’occupazione, preferendo demonizzare Netanyahu o concentrarsi sul dramma degli ostaggi anziché ammettere le responsabilità di Israele. Non per niente, nonostante la costanza e l’affluenza, anche il movimento di protesta arranca nel portare a casa risultati.
La sinistra radicale e gli attivisti per i diritti umani sono gli unici a confrontarsi con la verità denunciando e documentando lo sterminio in corso, ma se all’estero vengono ammirati come piccoli eroi, all’interno del paese vengono ignorati, liquidati come traditori della patria, minacciati, aggrediti e spesso arrestati arbitrariamente. Se tuttavia gli ebrei riescono ancora a mettere i propri privilegi a servizio della causa, i palestinesi di cittadinanza israeliana sono per lo più silenziati e tenuti a bada da un ingranaggio di repressione e censura le cui maglie si vanno stringendo.
Complici di indifferenza, rimozione e contraddizioni sono i media main stream, a cominciare dai principali canali televisivi 11,12 e 13 che, arruolati alla propaganda, silenziano la critica e soprattutto omettono di riportare quanto avviene a Gaza. Così facendo i commentatori hanno plasmato le coscienze degli israeliani che si confrontano con le accuse di genocidio, il bds (boicottaggio, disinvenstimento e sanzioni) e il crescente antisemitismo come se provenissero da Marte. Non solo, ma trasmettendo senza sosta le storie delle vittime del 7 ottobre, degli ostaggi, dei feriti e dei caduti hanno condannato gli ascoltatori a sprofondare in una dimensione di lutto che ne corrode la salute mentale, alimentando rabbia, angoscia, impotenza e tristezza.
Benché negli ultimi mesi i sondaggi siano chiari sul desiderio della maggioranza dei cittadini di porre fine al conflitto e raggiungere un accordo, le diserzioni tra i laici sono ancora un fenomeno minoritario (gli ultraortodossi rifiutano di arruolarsi) e i riservisti portano sulle spalle un peso insostenibile con risvolti psico-fisici, familiari e lavorativi. L’economia è in crisi, il turismo assente, il mercato immobiliare in stallo, e, mentre il caro vita cresce in modo esponenziale, i finanziamenti dall’estero diminuiscono e molti israeliani trasferiscono parte del loro patrimonio temendo il peggio. Inoltre solo nel 2024 avrebbero lasciato il paese circa 80.000 cittadini e la corsa ai passaporti europei continua.
Benché la tolleranza e la simpatia per Israele continuino a scendere, e nonostante i processi per corruzione a suo carico, le accuse del Tribunale Internazionale e lo scandalo del Qatargate lo attanaglino, Netanyahu continua apparentemente a restare a galla sfruttando a suo favore i mutamenti geopolitici nella regione e non è escluso che possa vincere anche le elezioni previste per il 2026.
Non solo, ma nonostante la modalità deprecabile con la quale è stato imposto ai palestinesi, se accolto da Hamas il piano Trump potrebbe sortire l’effetto di riportare a casa gli ostaggi, garantire una tregua e dare inizio a urgenti e auspicabili processi di ricostruzione. Tanto gli interventi alla Trump che aspira al Nobel per la Pace, quanto gli assetti concernenti gli Accordi di Abramo che pure escludono i palestinesi dai giochi mediorientali, detengono il potenziale per traghettare lo Stato ebraico fuori dalla crisi politica economica e militare: il rischio è che simili manovre consolidino l’infantilizzazione della società israeliana impedendole di intraprendere un serio processo di revisione al proprio interno.
Si tratta di abbandonare il vittimismo figlio della Shoah e dell’esperienza di minoranza perseguitata, assumendosi le responsabilità sottesa alla condizione di soggetto politico sovrano e si tratta, ovviamente, di porre fine al genocidio, all’occupazione e alla sistematica oppressione del popolo palestinese. Queste ultime sono condizioni imprescindibili affinché questa immane crisi si traduca in un’opportunità di riparazione, un’operazione collettiva in cui ogni gruppo dovrà lavorare al proprio interno smettendo di additare l’altro come colpevole, fino a raggiungere un nuovo equilibrio che privilegi l’unità alle politiche di settore.
Secondo Haviva Pedaya, studiosa di origine irachena e docente di storia e pensiero presso l’Università di Ben Gurion, la velocità con cui un evento localizzato in Israele-Palestina si è trasformato in un fenomeno globale, che coinvolge ormai le piazze di tutto il mondo, dimostra che ci troviamo di fronte a un’intersezione di cammini dove avvengono repentini scambi di ruoli tra colonizzati e coloni, vittima e carnefice, colpevoli e innocenti. Storicamente gli ebrei sono stati caricati di un simbolismo eccessivo, favorito dal fatto che si trattava di una minoranza straniera priva di territorio, che li ha resi rappresentanti dell’universale, della visione profetica, dell’etica e dei valori dell’umanesimo. Con la fondazione di un loro Stato, però, si è passati su un piano di realtà concreta. Oggi più che mai l’ebreo è incastrato tra la dimensione universale e quella particolare: da vittima e simbolo di alterità viene additato anche come autore di un nuovo genocidio e questo carico simbolico rende ancora più difficile per Israele procedere verso un nuovo assetto, ragione per cui il pericolo aumenta e le persone soffrono per i lutti e la sciagura.
In questa circostanza complessa e aggrovigliata anche la lingua ha ceduto sotto il peso della violenza inaudita e le parole si rivelano inadatte e non meno pericolose delle armi. A tale proposito, l’abuso di richiami del nazismo e della Shoah nella comunicazione riguardo l’attuale guerra a Gaza può rivelarsi dannoso alimentando una spirale di violenza che allontana qualunque prospettiva di pace.
Secondo Pedaya, per approdare a una nuova realtà di pace, accordi e compromessi, il discorso richiede l’adozione di una nuova semantica all’insegna della morbidezza, nella quale opposizione, critica e decostruzione si coniughino a percorsi di costruzione e riparazione del mondo. Accanto ai politici, un ruolo essenziale nel modificare la semantica e il discorso pubblico spetterà a intellettuali, insegnanti, operatori della salute mentale e rabbini. Agli ebrei israeliani si richiede prima di tutto di tornare all’universale, alla morale dei Dieci comandamenti, coniugandola con delicatezza a principi di rinuncia, modestia e tolleranza.
Inoltre, la situazione attuale è frutto sia delle circostanze storico-politiche di questi anni, sia dell’incontro di queste ultime con determinate categorie della teologia ebraica. Anche l’ebraismo stesso, dunque, viene chiamato in causa e dovrà rispondere a nuovi interrogativi sulla propria relazione con il sionismo e sull’incontro tra l’accezione demografica e la democrazia minacciata da istanze messianiche e nazionaliste.
A operare una rivalutazione critica del significato stesso dell’identità ebraica moderna sono chiamate per forza di cose anche le comunità della diaspora nelle quali, come ha affermato recentemente Peter Beinart, è oggi soggetto a maggiore riprovazione chi muove critiche al sionismo rispetto a chi non si conforma ai precetti religiosi tradizionali. Chi, infatti, può definirsi ebreo oggi? Il sionismo è forse il nuovo ebraismo? È possibile parlare di un superamento del sionismo? Certamente il termine “antisionismo”, attualmente abusato fuori da Israele-Palestina, all’interno assume sfumature diverse che contemplano una critica del sionismo, preservando tuttavia il diritto di entrambi i gruppi nazionali ad autodeterminarsi.
Infine, pur comprendendo il sospetto nei confronti della cosiddetta normalizzazione, ovvero della collaborazione con gli ebrei israeliani che si spendono per la causa comune, è difficile immaginare un cambiamento che prescinda da uno sforzo congiunto. Come scrive il celebre storico palestinese Rashid Khalidi nelle conclusioni al suo Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza:
“Sebbene vada riconosciuta la natura essenzialmente coloniale dello scontro tra palestinesi e israeliani, oggi in Palestina ci sono due popoli, a prescindere da come siano nati, e il conflitto tra loro non potrà avere soluzione finché l’esistenza nazionale dell’uno verrà negata dall’altro. [...] Un elemento trascurato ma essenziale dell’agenda politica palestinese è il lavoro all’interno di Israele, in particolare quello per convincere gli israeliani che esiste un’alternativa alla continua oppressione dei palestinesi” (Khalidi, Laterza 2025 pp. 297, 306).
Nell’introduzione al volume “The Arab and Jewish Questions” (Columbia University Press 2020), i curatori Bashir Bashir e Leila Farsakh propongono di accostarsi alla questione ebraica e a quella palestinese considerandole come intersecate sotto il profilo storico, politico e sociale. Nonostante le loro evidenti differenze, le questioni storiche ebraica e araba riguardano i diritti politici dei gruppi oppressi e la loro inclusione all’interno di comunità politiche escludenti, fonti di tensione in Medio Oriente, Europa e Stati Uniti. Tale approccio, se adottato, consente di uscire dalle logiche di partizione, colonialismo di insediamento, imperialismo e Stato-nazione gettando nuova luce sulle intricate relazioni tra orientalismo, antisemitismo, islamofobia e colonialismo. Nel caso del conflitto tra Israele e Palestina, guardare alle lotte arabe ed ebraiche per l'autodeterminazione e l'uguaglianza politica come intersecate aiuterà ad immaginare scenari migliori e condivisi per il futuro, come quello di un binazionalismo egualitario che possa sostituire la forma dello Stato etnico esclusivista che si sta provando pericolosamente fallimentare. Intanto non resta che attendere la risposta di Hamas, nella speranza che la stipula di un accordo immediato salvi quante più vite possibili da entrambe le parti.
Immagine in anteprima: frame video France24 via YouTube