Riceviamo e pubblichiamo dal nostro lettore Ludovico Bennicelli
Costruire è restare: incontro con Awdah Hathaleen in un pomeriggio di mezz’estate
Una testimonianza delle parole di Awdah Hathaleen, attivista nonviolento e punto di riferimento della resistenza palestinese a Umm al-Khair (Cisgiordania), recentemente colpito a morte da un colono israeliano.
Awdah Hathaleen, professore d’inglese, attivista nonviolento e portavoce della resistenza anticoloniale nel villaggio di Umm Al-Khair nella Cisgiordania occupata, è stato colpito mortalmente lo scorso 28 Luglio dai proiettili esplosi da Yilon Levi, colono israeliano già noto alle forze dell’ordine per i suoi attacchi alle comunità palestinesi nella regione di Masafer Yatta, nel sud di Hebron.
Recentemente, il flagello post-7 Ottobre, il successo del premio Oscar “No other land” -a cui lo stesso Awdah ha lavorato- e la recente scomparsa dell’attivista, hanno attirato l’interesse di una parte di mondo su Masafer Yatta, dove da decenni gli abitanti dei villaggi, fra cui Umm al-Khair, resistono alle insidie dei coloni israeliani.
Il 17 Luglio 2023 ho avuto la fortuna di visitare proprio Umm al-Khair e di chiacchierare con Awdah che, seduti sulle altalene dell’unico parco giochi del villaggio, mi ha raccontato con freddezza il fardello di cui lui e la sua comunità si fanno carico dal 1967, quando, all’indomani della Guerra dei sei giorni, hanno iniziato a resistere alle occupazioni illegali di Israele.
A questo incontro è seguita una corrispondenza elettronica durante la quale l’attivista, contribuendo alla stesura della mia tesi di laurea, mi ha aperto le porte alla storia di Umm al-Khair: una storia di resilienza, ostinazione e legame alla propria terra, scandita da costanti processi di distruzione e ricostruzione.
Di seguito alcune testimonianze dell’attivista che ho potuto ascoltare e annotare.
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Fra le primissime cose su cui Awdah ha insistito c’è la prepotenza dei coloni e della polizia israeliana (il villaggio cade nella cosiddetta “area C”, ovvero la porzione di Cisgiordania a totale controllo civile della Knesset).
A tal proposito, come testimoniava l’attivista, gli abitanti di Umm al-Khair hanno diritto a sette ore di acqua a settimana, che, nonostante le richieste di distribuirne una al giorno, sono concesse esclusivamente il mercoledì notte.
Anche il tentativo da parte degli abitanti di costruire un pozzo è stato osteggiato con il sequestro degli attrezzi da lavoro e l’obbligo di firmare un documento con clausola di non ripetizione.
Dalla padella alla brace, anche la situazione energetica è più che precaria.
Nonostante la presenza di pannelli solari donati dalle ONG, l’elettricità è praticamente assente nelle case, in tessuto e lamiera, di Umm Al-Khair.
Nonostante ciò, il villaggio è comunque sorvolato dai cavi elettrici che riforniscono 24 ore al giorno le case in muratura della colonia confinante.
Come se non bastasse, l’insediamento possiede anche generatori elettrici in caso di blackout improvvisi, mentre il villaggio palestinese si arrangia al più con torce elettriche e a olio.
Un altro tema su cui Awdah ha insistito molto durante le nostre conversazioni sono le demolizioni e le violenze subite nel corso degli anni.
Per quanto riguarda le prime, la più traumatica mi ha riferito esser stata nel 2007, quando, nell’ambito di un’operazione di demolizione di 7 case, è rimasto sfollato insieme ad altre 28 persone e ha dovuto dormire all’aria aperta per diverse settimane, in inverno.
Da quel momento fino al 17 luglio 2023 sono state rase al suolo 108 strutture.
Come raccontato da Awdah, la polizia arriva sempre di mattina presto, impedendo agli adulti di andare al lavoro e ai bambini di andare a scuola.
Questi ultimi si sono visti privati persino del proprio campetto da calcio.
Quando ho chiesto ad Awdah come riuscissero a spiegare la situazione ai bambini, mi ha confidato che spesso dice loro che le demolizioni sono in realtà finalizzate alla costruzione di edifici più belli.
Sulle aggressioni, Awdah ha menzionato un episodio durante il quale 18 coloni hanno aggredito la madre rompendole il ginocchio e compromettendone parzialmente l’utilizzo di una gamba.
Anche lo zio Haj Suleiman, leader e punto di riferimento per tutto il villaggio, era stato vittima poco più di un anno prima del nostro incontro di un attacco mortale da parte della polizia israeliana, intervenuta per sequestrare delle auto palestinesi.
Giunti in loco si erano trovati di fronte alla resistenza nonviolenta dell’uomo, che è stato investito e lasciato sanguinante a terra, per poi morire dopo 12 giorni di terapia intensiva.
Per ironia, proprio come per il funerale di Awdah avvenuto il 13 Agosto, anche in quel caso la polizia ne avevano osteggiato lo svolgimento, minacciando gli abitanti di Umm al-Khair di “prendere misure drastiche se anche una sola pietra fosse volata in direzione dei coloni”.
Anche in quel caso come in quello di Awdah Hathaleen, l’omicidio è rimasto impunito.
Parlando della sua vita personale, Awdah mi ha raccontato con fierezza che il suo nome significa “ritorno”, concetto fortemente identitario nella cultura palestinese che indica il diritto di ripopolare la cosiddetta “Palestina storica”, progressivamente sottratta ai palestinesi dal 1948.
Non a caso, il significato del nome di uno dei figli di Awdah è proprio “patria”, ad indicare il legame indissolubile delle persone di Umm al-Khair con la propria terra, a costo di condurre una vita precaria sotto la costante pressione, violenza e provocazione dei coloni.
Questo legame non è frutto solo della mancanza di alternative: come mi ha tenuto a specificare, almeno nel suo caso, Awdah disponeva dei mezzi economici per cercare una vita migliore altrove (pochi giorni dopo essere stato ospite da lui, l’ho incontrato casualmente per le strade di Hebron e mi ha detto che da lì a poco sarebbe andato a Roma in vacanza), ma che non si sarebbe mai perdonato una scelta del genere.
Resistere, a costo di morire, era l’imperativo morale della sua vita.
Come lui, tanti altri fra i 180 abitanti di Umm al-Khair sono laureati, professionisti, avvocati e insegnanti.
Awdah era un insegnante di inglese, anche se mi ha confidato di non amare particolarmente il suo lavoro; aveva scelto di imparare la lingua perché lo considerava il mezzo più potente per riferire al mondo la realtà dell’occupazione, una scelta dettata dalla necessità più che della passione.
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Ad oggi è difficile prevedere quale sarà l’eredità che Awdah sarà in grado di lasciare a Umm al-Khair e al resto della Palestina.
La sua storia, dall’incendio che da piccolo gli ha sfigurato il viso fino alla demolizione della sua casa nel 2007, passando per l’amore per i suoi figli e il suo lavoro da professore di inglese, merita di essere raccontata.
Oggigiorno, quando Palestina è sinonimo di numeri di morti, posizioni geopolitiche e talk show televisivi, è importante approfondire la storia personale di certi palestinesi, di quelli del tipo di Awdah -nonviolenti, resistenti, ostinati- e del suo villaggio Umm al-Khair.