Gli organi di informazione occidentali hanno riportato con una certa enfasi la notizia di grandi manifestazioni di massa in Israele contro le politiche del governo Netanyahu.
Per la verità la reazione da parte degli attivisti pro Palestina di casa nostra è stata molto tiepida se non addirittura critica. In effetti la larga maggioranza dei manifestanti che riempiono le piazze di Israele ha come obiettivo la salvezza degli ostaggi in mano ad Hamas, (o quanto meno il recupero dei loro corpi), mentre solo una minoranza è realmente interessata al futuro dei palestinesi. La cosa tuttavia non può essere liquidata con queste poche battute.
Va detto innanzitutto che è comunque un fatto positivo che le contraddizioni attraversino il fronte sionista. È comunque un bene che il macellaio Netanyahu venga messo in difficoltà a casa sua, anche per motivazioni non condivisibili, o scarsamente condivisibili. Bisogna inoltre anche considerare che le dinamiche dei movimenti di opposizione non sono sempre facilmente prevedibili, e possono anche mettere in moto ipotesi di lotta e possibilità di cambiamento come opportunità in origine per nulla considerate. Ma non è solo questo l’aspetto da prendere in considerazione.
È vero che la consistenza di chi si oppone apertamente al genocidio dei Palestinesi, tra i cittadini israeliani, può essere considerata, almeno di primo acchito, abbastanza bassa. Si parla di un numero variabile tra il 20% e il 30% di oppositori radicali. Ciò significa che le strategie di morte e di sterminio possono contare su maggioranze che vengono calcolate tra il 70% e l’80% dei cittadini. Maggioranze che dalle nostre parti verrebbero considerate “bulgare”, giusto per usare un termine ormai divenuto usuale. Bisogna tuttavia stare molto attenti quando si cerca di applicare i nostri standard a situazioni così diverse dalla nostra.
Per noi figli delle democrazie occidentali spesso le competizioni elettorali si giocano sui decimali di punto. Tuttavia, di norma, la distanza tra il programma che oppone la maggioranza vincente alla minoranza degli sconfitti è minima, o comunque relativamente contenuta. La democrazia è anche (seppure non soltanto) questo gioco rituale di scambio di ruoli tra opposti schieramenti. È certamente ben altra cosa rispetto a quell’abisso valoriale che oppone i sostenitori del Grande Israele nei confronti di chi rifiuta le politiche genocidarie.
Al fondo sta il fatto che Israele non è una democrazia, ma una teocrazia, come si può facilmente desumere dalla legge costituzionale approvata nel 2018 dal parlamento che definisce il paese letteralmente come “Stato ebraico”. A questa espressione, l’attuale governo, e purtroppo anche la maggioranza dei cittadini, dà un’interpretazione estrema di integralismo religioso, che finisce con l’identificare il sionismo e l’imperialismo omicida di Israele come uniche espressioni possibili delle politiche del paese.
A questo punto dovrebbe essere chiaro come una opposizione radicale che, stando ai numeri, dovrebbe contare un cittadino israeliano su quattro, non è cosa da poco ma dato rilevantissimo. La speranza che possa divenire una vera e propria mina vagante all’interno della cittadella sionista, potenzialmente in grado di smontare tutte le falsità sulla realtà monolitica del mondo ebraico che si pretende come unicamente rappresentato da Israele e dal suo regime. Una voce contro le menzogne messe in giro sulla identificazione tra antisemitismo e antisionismo. Una possibile opportunità per la resistenza palestinese.
Credo sia nostro dovere sostenere con tutte le nostre forze e dare il massimo di visibilità a queste voci di opposizione entro Israele e il mondo ebraico.
Ogni cosa utile per opporsi al genocidio va fatta con il massimo di determinazione possibile. È questo un nostro preciso dovere.
per approfondire: Ilan Pappé, 10 miti su Israele (Tamu ed.); Ilan Pappé e Noam Chomsky, Palestina e Israele: che fare? (Fazi ed.); Anna Foa, Il suicidio di Israele (Laterza ed.)