Quando lo Stato rimuove i luoghi ma dimentica i loro significati
Lo sgombero di un centro sociale storico non è mai un mero atto amministrativo. È un evento profondamente politico. Un rituale di potere attraverso il quale lo Stato delimita i confini della legittimità, definisce ciò che è “ordinato” e ciò che è “disordinato”, e rivendica il monopolio non solo della forza, ma anche della produzione dello spazio sociale.
L’azione intrapresa a Milano, se analizzata oltre la cronaca, si presta a una decostruzione che svela le aporie di un governo, e di un’epoca, ossessionata dal controllo formale ma miope verso l’ecologia sociale delle città. Per comprenderla, dobbiamo abbandonare il binario semplicistico legale/illegale e interrogarci su cosa significhi, oggi, creare comunità.
Il filosofo francese Michel de Certeau, in “L’invenzione del quotidiano”, distingueva tra le strategie dei potenti che organizzano lo spazio dall’alto, con logiche di controllo e astrazione. E le tattiche dei deboli che usano creativamente e spesso “illegalmente” gli interstizi di quello spazio per sopravvivere e resistere.
I centri sociali sono storicamente il prodotto di una “tattica” che, ripetuta nel tempo, si è solidificata in un’istituzione informale, un luogo in senso antropologico. Il loro sgombero non è quindi la repressione di un illecito, ma l’annientamento di una memoria collettiva e di un presidio di socialità non mercificata. È l’applicazione brutale di una strategia che non tollera ciò che non può amministrare interamente.
Questa iconoclastia selettiva, l’abbattimento simbolico di certi luoghi e la tolleranza di altri, è il cuore della questione. Perché un’occupazione di destra in un palazzo romano, spesso retorica nella sua estetica e sostanzialmente sterile nella produzione culturale, può persistere, mentre un laboratorio di controcultura viene neutralizzato? La risposta non sta nel codice civile, ma in una calcolata fisica del potere.
Il pensiero di Giorgio Agamben sul diritto di eccezione è illuminante: il potere sovrano si afferma non applicando la norma in modo uniforme, ma sospendendola strategicamente. La tolleranza verso certe occupazioni diventa così un lasciapassare politico, un modo per alimentare un conflitto di bassa intensità utile a frammentare il dissenso e presentare certe frange come il male minore. È la creazione di un nemico comodo, la cui presenza giustifica un ordine di cose esistente. Al contrario, un centro sociale che opera una critica radicale e propositiva all’economia neoliberale e alla crisi dei legami sociali è un nemico scomodo. La sua stessa esistenza è una confutazione vivente del modello di città-azienda, performativa e consumistica, che si vuole imporre.
La vera “stortura” denunciata, quindi, non è l’applicazione della legge in sé, ma la sua applicazione sistemica e asimmetrica. È un sistema che criminalizza la povertà culturale e l’esperimento sociale dal basso, mentre normalizza e legittima, per omissione, altre forme di illegalità più consone al suo immaginario. È un governo che, parafrasando il sociologo Zygmunt Bauman, “intercetta i sintomi” (l’illecito formale) ma è totalmente cieco, o addirittura indifferente, alla “malattia” (la desertificazione relazionale, la crisi abitativa, l’impossibilità per i giovani di incidere sullo spazio pubblico).
Il paradosso ultimo è che questi spazi, nati da un atto formalmente illecito, praticano spesso ciò che l’intellettuale americano David Graeber chiamava “l’etica della cura mutualistica”: forniscono servizi, cultura, assistenza e forme di welfare orizzontale laddove lo Stato ritrae la sua presenza, agendo di fatto come un corpo interstiziale che tappa le falle di un contratto sociale in via di sfaldamento.
Questa non è un’apologia dell’illegalità, ma la constatazione di un paradosso strutturale: l’azione che viola la norma di proprietà spesso lo fa per incarnare un principio di giustizia sociale più alto e trascurato. È qui che il pensiero della filosofa femminista e giurista statunitense Sara Ahmed sul killjoy (il guastafeste) diventa utile. Questi spazi svolgono una funzione sociale da killjoy: disturbano la narrazione consolatoria e ottimista del potere, che vuole una città ordinata, produttiva e acritica. La loro esistenza stessa è un atto di disobbedienza epistemologica, poiché mettono in luce le ingiustizie che il sistema preferirebbe lasciare nell’ombra.
La repressione sistemica di tali realtà, quindi, non è semplicemente una questione di ordine pubblico. È un’operazione di normalizzazione culturale. Si elimina non tanto un illecito, ma un contro-discorso, un modello alternativo di comunità che sfida l’egemonia del mercato e della governance tecnocratica. Il governo, in questo senso, non reprime solo un luogo fisico, ma un’idea. Quella di uno spazio urbano che possa essere autogestito, comune e non sottoposto alla logica del profitto o del controllo centralizzato.
La conclusione a cui si è condotti è amara e profondamente culturale. Lo sgombero di un centro sociale storico è il sintomo di una società che, nell’ossessione di applicare la lettera della legge, ne tradisce lo spirito più profondo. Quello di essere strumento di giustizia e benessere collettivo. E che, infine, nel nome dell’ordine, sterilizza gli stessi luoghi in cui la democrazia, conflittuale e vitale, potrebbe rigenerarsi.