di: Andrea Braschayko (Italia), Francesco Brusa (Italia), Szymon Martys (Polonia)
Intravista dalla strada sottostante, la cattedrale di Chełm un po’ domina la città un po’ si ritrae da essa: è infatti una chiesa che spinge il bianco immacolato della sua facciata e delle sue pareti laterali verso l’alto, ma attorno vi è la cinta muraria di un vecchio monastero, appartato e appoggiato in cima a una dolce collina. Nella prima serata di un undici luglio particolarmente uggioso, lo spazio antistante sembra una piazza d’armi.
Assieme ai fedeli raccolti in preghiera, sciamano dai vari lati gruppi di ragazzi e ragazze in divisa che presto si dispongono in file ordinate. Alcuni fra gli avventori reggono, fra il contrito e l’orgoglioso, le biancorosse bandiere polacche, mentre un poco più in disparte una coppia di automobili nere ricordano che per l’occasione è presente anche il neoeletto presidente del paese, Karol Nawrocki.
«Gli ucraini avevano il diritto di lottare per il proprio Stato, ma non di uccidere persone innocenti», dice il sacerdote dall'altare. La funzione che sta celebrando ha un significato solo in parte religioso: in Polonia, da alcuni anni, l'11 luglio è il giorno ufficiale di commemorazione delle vittime dei massacri in Volinia, avvenuti tra la primavera del 1943 e l'estate del 1944, nell’attuale zona dell’oblast’ di Luts’k, in Ucraina.
Tra le 50.000 e le 200.000 persone di origine polacca (ed ebraica) furono uccise dai gruppi nazionalisti ucraini dell'OUN-UPA, in una campagna di pulizia etnica nei territori che prima della Seconda Guerra Mondiale erano sotto il controllo di Varsavia e che in seguito divennero parte dell'Ucraina sovietica. Questa brutale campagna fu anche il culmine di relazioni già tese e tutt'altro che idilliache tra le due comunità.
Tensioni che avevano iniziato a manifestarsi violentemente negli anni Venti e Trenta, quando la grande minoranza ucraina – che costituiva circa il 15% dei quasi 30 milioni di abitanti della neonata Seconda Repubblica polacca – fu costretta a coesistere in base a politiche di assimilazione. Questa situazione portò in superficie rivalità e divisioni di lunga data che si erano sviluppate durante il periodo della dominazione austro-ungarica.
Secondo il censimento del 1931, la città di Chełm era abitata principalmente da ebrei e polacchi, con solo circa 5.000 ucraini (circa un sesto della popolazione); nella contea più ampia (powiat), invece, essi erano oltre 150.000, più del 60% della popolazione totale, principalmente situati in campagna e zone rurali.
La Cattedrale di Chełm è, in un certo senso, un simbolo di queste intricate divisioni e contesti storici: l'edificio attuale sorge su quello che un tempo era un centro di culto ortodosso, a testimonianza della presenza ucraina nella zona. Al calar delle tenebre, le porte della chiesa finalmente si aprono e reparti dell'esercito e delle forze armate escono in gran parata, dando inizio una processione verso il museo municipale dedicato ai massacri della Volinia. È l'unico del paese e di fatto non è ancora operativo, anche se il progetto era sul tavolo da diversi anni: a un certo punto i finanziamenti governativi sono stati ritirati, lasciando le autorità di Chełm nell'impossibilità di completare la struttura.
È qui che prende parola il Presidente Nawrocki: «I polacchi hanno il diritto di ricordare il genocidio della Volinia a prescindere dal cambiamento dei tempi e delle circostanze. E noi lo ricorderemo. E aggiunge: «Faccio appello al Presidente dell'Ucraina affinché acconsenta a portare avanti esumazioni su larga scala (!) in Volinia».
Gli risponde l’ambasciatore ucraino Vasyl Zvarich, anch’egli presente alla cerimonia: «Dobbiamo parlare apertamente di questa storia. Dobbiamo chiamare un crimine in quanto tale. Dobbiamo scusarci, e io mi scuso. Oggi l'Ucraina sta combattendo non solo per la sua libertà, ma anche per la nostra libertà comune. Ma il passato deve essere spiegato in maniera onesta», ha enfatizzato.
Di cosa si parla in questo articolo:
Tensioni diplomatiche per una disputa storica
Il fatto che un rappresentante polacco e uno ucraino si trovino insieme a questa commemorazione non è scontato. La questione dei massacri in Volinia, dopo anni di relativo silenzio e attenzione marginale, è recentemente tornata alla ribalta sia a livello nazionale che internazionale.
All'inizio del 2025, il governo ucraino ha revocato un divieto di fatto di lunga data sulle esumazioni, concedendo alla Polonia il permesso di riprendere il recupero dei corpi delle vittime dai siti delle fosse comuni. La decisione, approvata pubblicamente dal primo ministro polacco Donald Tusk e dal ministro della Cultura Hanna Wróblewska, è stata vista come un passo avanti, atteso da tempo, nella riconciliazione storica polacco-ucraina.
In Polonia, comunque, l’attitudine verso la questione della Volinia non segue necessariamente le linee di divisione dello spettro politico polacco, ed è eccessivamente semplicistico inquadrarla come uno scontro tra conservatori, a favore della giustizia storica a tutti i costi, e liberali, che danno priorità alla riconciliazione. Ad esempio, nel 2024, il Ministro della Difesa e Vice Primo Ministro Władysław Kosiniak- Kamysz, leader del Partito Popolare Polacco (PSL), alleato della Coalizione Civica di Donald Tusk, ha dichiarato che all'Ucraina non dovrebbe essere permesso di entrare nell'UE fino a quando non sarà risolta la questione storica dei massacri dei polacchi in Volinia.
Le sue osservazioni, tuttavia, sono state contraddette dal Presidente polacco, ancora in carica fino ad agosto, Andrzej Duda, membro del partito conservatore Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość), che ha dichiarato: «Se qualcuno dice a questo proposito che bloccherà l'accesso dell'Ucraina all'Unione Europea, sta seguendo la politica di Vladimir Putin. Non so se questa sia l'intenzione di coloro che sono ora al potere». L'intervento di Duda è servito probabilmente anche a intensificare lo scontro politico con il governo Tusk.
Lo storico ucraino Yaroslav Hrytsak, direttore dell'Istituto di studi storici dell'Università nazionale Ivan Franko di Leopoli, osserva che le dinamiche di escalation e di riconciliazione si sono verificate anche senza cambiamenti politici in Polonia, in particolare nelle relazioni tra Zelensky e il governo Tusk.
«Ho assistito a un forte alterco tra Zelensky e [il ministro degli Esteri polacco] Radosław Sikorski in Volinia nel settembre dello scorso anno: si stavano letteralmente urlando contro», ricorda Hrytsak. «Ma in seguito entrambe le parti hanno raggiunto un consenso sul fatto che il conflitto deve essere affrontato, e il più presto possibile. Credo che un ruolo cruciale sia stato svolto dal nuovo ministro degli Esteri ucraino, Andrii Sybiha: è un diplomatico molto abile, conosce molto bene la Polonia e comprende la complessità delle relazioni polacco-ucraine».
Le prime esumazioni si sono svolte ad aprile nell'ex villaggio polacco di Puzhnyky, ora parte dell'Ucraina occidentale, con la partecipazione di specialisti polacchi e ucraini, oltre che dei parenti delle vittime. Nei giorni successivi, i due governi hanno concordato di estendere il lavoro a nuovi siti nella regione ucraina di Lviv e in un villaggio appena oltre il confine con la Polonia.
Questo nuovo processo ha portato il riconoscimento a lungo atteso dalle famiglie delle vittime e ha riportato la memoria della Volinia in primo piano nella diplomazia bilaterale – un'apertura, tuttavia, che è stata presto messa a dura prova dall'incessante attenzione ai massacri durante la campagna elettorale di Karol Nawrocki. Nawrocki, eletto con Diritto e Giustizia e già capo dell'Istituto polacco per la memoria nazionale, ha posto la questione al centro della sua comunicazione politica.
Poche settimane dopo, la leadership dell'Istituto per la Memoria Nazionale ucraino (IUMN) è stata rimescolata – una mossa che assomigliava a un “gioco di ritorsione” tra le due istituzioni che, come nota lo storico ucraino Georgiy Kasianov, rappresentano “non tanto i due Paesi”, quanto i loro settori più nazionalisti, "come le rispettive diaspore".
A sostituire il liberale Anton Drobovych nel ruolo di direttore dell’IUMN è stato infatti lo storico nazionalista Oleksandr Alfyorov, un professore di storia che, negli ultimi anni, ha anche prestato servizio in prima linea con la Terza Brigata d'Assalto – un'unità delle Forze Armate ucraine comandata da Andrii Biletskyi, il fondatore del noto gruppo paramilitare di estrema destra "Azov".
Ciò ha segnato un'accelerazione della polarizzazione tra i due istituti di memoria, dopo una breve fase di apparente riconciliazione ai massimi livelli tra Donald Tusk e Volodymyr Zelensky.
Tuttavia, nonostante il presidente polacco Andrzej Duda abbia firmato la legge sul ‘genocidio della Volinia’ lo scorso 11 luglio, ha detto che il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky è il presidente ucraino con il quale si è trovato più a suo agio, rispetto a Poroshenko, nell’affrontare il tema nelle relazioni bilateriali.
Nella stessa dichiarazione, Duda aveva citato Zelensky, che gli avrebbe confessato in precedenza: "Andrzej, non avevo mai sentito parlare delle uccisioni, degli omicidi di polacchi nell'Ucraina occidentale, in Volinia. Non ce lo hanno insegnato a scuola".
Questa osservazione è stata subito colta dalla propaganda russa, che ha iniziato a far circolare affermazioni infondate secondo cui l'insegnante di storia di Zelensky a Kryvyi Rih era un uomo di estrema destra di Lviv e un devoto ammiratore dell'OUN-UPA.
Domostawa, la "Woodstock dell'estrema destra polacca"
In Polonia, tuttavia, non ci sono solo eventi istituzionali per commemorare i massacri della Volinia. A meno di ventiquattr’ore dalla cerimonia di Chełm, e a meno di cento chilometri di distanza, un’altra “cerimonia” esprimeva infatti un punto di vista molto meno conciliante sulla questione.
Il villaggio di Domostawa è salito agli onori delle cronache l’anno scorso, quando, a differenza di molti altri centri dell’area, si è detto disposto ad accogliere sul proprio territorio un monumento dedicato ai massacri della Volinia, dall’aspetto invero piuttosto crudo: una gigantesca aquila dal volto arcigno, simbolo della nazione polacca, al cui interno è scavata una croce che a sua volta ospita, senza lasciare spazio alcuno all’immaginazione, un tridente “ucraino” a penetrare il piccolo corpo di un infante.
Arrivano con auto e moto e qualche pullman da tutta la regione, alcuni anche dalla capitale Varsavia o da zone più lontane del paese: la strada che costeggia il pezzo di foresta in cui è stato collocato il monumento si trasforma ai suoi lati in un parcheggio. A ritrovarsi in questo ben poco sacrale pellegrinaggio sono gruppi e gruppetti, talvolta si sarebbe tentati di dire vere e proprie squadracce, che compongono una sorta di “Babele” delle tendenze dell’estrema destra nazionalista, xenofoba, anti-ucraina e antisemita: Rodacy Kamraci (noto per la sua posizione apertamente filorussa), Wataha Głosu Obywatelskie, Ruch Bronimy Polskiej Granicy e altri gruppi minori.
C’è chi regge cartelloni contro l’OUN-UPA e contro Stepan Bandera, chi in qualche modo declina i propri dissapori verso Kyiv in senso “pseudo-pacifista” (chiedendosi se a breve, per colpa dell’Ucraina, anche i polacchi dovranno entrare in guerra), chi si veste come si vestivano le milizie nazionaliste negli anni ‘20 e ‘30, chi esibisce i propri figli accanto alle croci celtiche. Spunta anche qualche cappellino di Trump.
«Già due mesi dopo l'inizio dell'invasione russa (quando abbiamo pubblicato uno dei nostri report sull'argomento) abbiamo notato che l'estrema destra polacca stava sfruttando il massacro in Volinia per scopi politici e propagandistici e per fomentare l'odio contro i rifugiati provenienti dall'Ucraina», commenta Łukasz Jakubowski, membro dell'associazione Never Again, associazione antirazzista polacca fondata nel 1996. Never Again organizza numerose campagne, tra cui "Musica contro il razzismo" e "Cacciamo il razzismo dagli stadi", monitora i crimini e gli incidenti razzisti e xenofobi, nonché gli atti di discriminazione in Polonia, in una pubblicazione intitolata "Brunatna Księga" (Il libro marrone).
«L'obiettivo era, ovviamente, quello di scoraggiare i polacchi dal portare aiuto ai rifugiati al confine tra Polonia e Ucraina e poi, dopo un anno, abbiamo osservato numerosi casi in cui la questione della Volinia è stata usata per diffondere l'odio. Attraverso canali Youtube e post online, l'estrema destra combina teorie cospirative con l'odio anti-ucraino, propaganda direttamente dalla Russia di Putin e desiderio di vendetta per eventi passati. I politici di estrema destra e i circoli a essi collegati sfruttano politicamente questo tema da molti anni».
Secondo Jakubowski, l'evento di Domostawa aveva come oggetto tutto fuorché i massacri della Volinia. Molte le figure influenti della destra polacca a essere presenti: la storica nazionalista Lucyna Kulińska o il politico di estrema destra e deputato europeo Grzegorz Braun, che hanno strumentalizzato l'evento per promuovere la loro agenda anti-migranti e sovranista.
Per esempio, Kulińska ha detto: «(...) siamo una nazione praticamente in bancarotta (sic), eppure sosteniamo milioni di persone e paghiamo soldi agli stranieri. Quante di queste persone hanno nonni che hanno ucciso i nostri figli? Quanti appendono oggi bandiere polacche, senza che i nostri servizi indaghino su questo, quanti vivono qui in Polonia con i documenti delle vittime assassinate? E ci chiediamo perché sono anti-polacchi»
Erano presenti anche molti politici del partito di estrema destra Konfederacja (Confederazione), come Andrzej Zapałowski, Janusz Korwin-Mikke, Włodzimierz Skalik e Roman Fritz, o anche del PiS (Diritto e Giustizia), come Przemysław Czarnek e Dariusz Matecki. Per Jakubowski, quindi, «non sorprende che l'82° anniversario del Massacro della Volinia a Domostawa sia stato utilizzato anche per scopi politici. Con il pretesto di commemorare le vittime, molti discorsi sono stati dedicati a suscitare emozioni anti-ucraine e a temi strettamente politici come l'opposizione all'Unione Europea».
Eppure, nonostante i potenziali attriti che ribollono sotto la superficie, la modesta folla (circa tremila persone) attirata a Domostawa è in realtà un groviglio di contraddizioni: si sono ritrovato fianco a fianco gruppi che spesso si detestano - dall'ostentatamente filo-russo Kamraci (i cui leader, Wojciech Olszański e Marcin Osadowski, sono attualmente in carcere) a gruppi più mainstream, come il Movimento Nazionale, che fa parte della Confederazione.
Pubblicazioni virulentemente antisemite vendute nelle bancarelle si mescolano a bandiere che inneggiano a "Cristo Re" e tra gli ospiti figurano, tra gli altri, Robert Bąkiewicz, il fondatore del Movimento per la difesa dei confini, associato al partito Diritto e Giustizia (e in passato organizzatore delle manifestazioni nazionaliste a Varsavia dell'11 novembre) e l'ex sovrintendente all'istruzione della Małopolska e attuale membro del Consiglio provinciale della Małopolska Ewa Nowak.
L'incontro si svolge sotto il patrocinio onorario del Presidente eletto Karol Nawrocki e del Vescovo cattolico di Sandomierz. A dettare i ritmi e i toni della commemorazione sono comunque le autorità religiose, che dal palco a lato del monumento recitano messa attorniate da diverse figure in divisa (non forze dell’ordine ufficiali, ma rievocazioni di fazione armate del passato nazionale). Ci sono anche, e ovviamente, persone comuni: magari parenti delle vittime dei massacri, cittadini che, senza doversi per forza affiliare a qualche sigla specifica, si rivedono nell’impianto ideologico della destra, un po’, ma non molti, curiosi.
È però vero che, proprio per via di queste presenze non così visceralmente militanti, l’atmosfera generale è tutto sommato pacifica, quasi da piccolo festival o sagra da paese. Tanto che, oltre lo spazio più specificamente dedicato alle celebrazioni, regna il merchandising, fra bancarelle di cibo e bevande, punti di informazione e di vendita di magliette ispirate al monumento nella foresta di Domostawa, improvvisate esposizioni di libri (titoli di revisionismo storico legato alla destra polacca, testi “anti-woke” e pamphlet esplicitamente antisemiti).
Il villaggio, composto da un’unica lunga strada che taglia in due le villette a schiera, è praticamente deserto: giusto un signore sulla cinquantina, visibilmente alticcio, si trascina verso l’alimentari. Gli altri, probabilmente, accorsi a dare uno sguardo alla stramba “Woodstock dell’alt-right” che si svolge poco più in là, in cui forse più che ricordare il dolore lasciato da un massacro si fa esercizio di risentimento, si cova un odio ambiguo che rischia di riversarsi nel presente.
L'assenza degli ucraini e di altre voci nella memoria nazionale polacca
Ma se vogliamo guardare alla storia e commemorare le vittime della tragedia della Volinia, è impossibile farlo senza tenere conto della presenza ucraina in Polonia prima della Seconda guerra mondiale. Nella Seconda Repubblica polacca (1918-1939), gli ucraini costituivano la più grande minoranza nazionale. Secondo varie stime, tra i 4,4 e i 5 milioni di persone si identificavano come ucraini o ruteni, pari a circa il 15% della popolazione, superando così gli ebrei, i bielorussi e i tedeschi, tra gli altri.
Secondo il censimento del 1931, i principali insediamenti ucraini in Polonia all'epoca erano le province di Volinia e Stanisławów (entrambe con il 68% della popolazione), Tarnopol (45% della popolazione) e Leopoli (33% della popolazione), ossia regioni che oggi si trovano interamente o prevalentemente entro i confini dello Stato ucraino indipendente. Tuttavia, la mappa della presenza ucraina nella Seconda Repubblica polacca non si esaurisce qui: persone che si identificano come ucraini vivevano in gruppi compatti anche nelle aree delle attuali province di Lublino, Podkarpackie e Podlaskie.
La presenza ucraina non si esauriva nemmeno a Przemyśl, Lubaczów, Hrubieszów, Tomaszów Lubelski, Zamość o Chełm. Le persone che parlavano ucraino (o, come molti ancora dicevano, ruteno), professavano il cattolicesimo greco o il cristianesimo ortodosso e si identificavano in misura maggiore o minore con il gruppo etnico ucraino che si poteva trovare anche nelle zone più occidentali della regione di Lublino.
Nel villaggio di Otrocz (comune di Chrzanów, distretto di Janów), su 940 abitanti, ben 613 dichiaravano di essere membri della Chiesa ortodossa, 343 dei quali si consideravano ruteni (ucraini). La fine di questa comunità avvenne con le deportazioni del dopoguerra a Lutsk e Volodymyr (allora parte dell'URSS) e la graduale polonizzazione delle poche famiglie rimaste.
Una comunità così numerosa era molto diversificata sotto quasi tutti i punti di vista. In termini di religione, gli ucraini che vivevano nelle province di Lviv, Tarnopol e Stanisławów erano per lo più seguaci della Chiesa greco-cattolica (o, come era ufficialmente chiamata, la Chiesa greco-cattolica rutena nella Seconda Repubblica polacca), mentre quelli in Volinia e a Chełm erano prevalentemente ortodossi, ma c'erano anche ucraini cattolici romani, membri di varie comunità protestanti o testimoni di Geova.
Gli ucraini erano anche politicamente divisi: i partiti ucraini esprimevano tendenze nazionaliste, liberali, socialiste e comuniste. Tra i gruppi principali, vale la pena di citare l'Unione Nazionale Democratica Ucraina, il Partito Socialista-Radicale Ucraino, il Partito Comunista dell'Ucraina Occidentale e l'Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, che si posizionavano in modi diversi rispetto allo Stato polacco e alle aspirazioni all'indipendenza della loro nazione.
All'inizio della Seconda Repubblica polacca, in Galizia orientale furono fatti vari tentativi per incoraggiare la popolazione ucraina a sostenere il nuovo Stato, come ad esempio la proposta di legge del 1922 (che alla fine non fu approvata) che concedeva un'ampia autonomia alla Piccola Polonia orientale, prevedendo la creazione di governi locali bilingue e l'istituzione di un'università in lingua ucraina.
Tuttavia, con il rafforzamento internazionale della posizione della Polonia (con il riconoscimento dei suoi confini), crebbe il fervore nazionalista e aumentarono i tentativi di limitare i diritti delle minoranze nazionali (comprese le più numerose). Le autorità polacche negarono la partecipazione all'apparato statale all'intellighenzia ucraina e imposero restrizioni alla portata dell'istruzione ucraina (il numero di scuole ucraine scese da circa 3.000 dopo la prima guerra mondiale a circa 400 alla fine degli anni Trenta).
La più grande ondata organizzata di repressione si registrò poco prima della fine della Seconda Repubblica polacca, nel 1938, quando le nuove autorità, attingendo ideologicamente sia alla tradizione della sanacja che alla democrazia nazionale (fino ad allora considerate due nemici principali), iniziarono la cosiddetta polonizzazione. L'obiettivo era quello di "limitare l'influenza del cristianesimo ortodosso", considerato una religione straniera in Polonia. Di conseguenza, furono demolite tra le 91 e le 127 chiese ortodosse e molti templi furono profanati o i loro arredi distrutti.
La campagna comprendeva la repressione contro i sacerdoti ortodossi e i tentativi di convertire con la forza gli ucraini (e i bielorussi) al cattolicesimo romano. La stampa polacca scrisse ampiamente della "minaccia ucraina" nelle chiese del nord e dell'est della provincia di Lublino e, nell'ambito del presunto ritorno alla polacchità e alle tradizioni cattoliche in queste terre, furono organizzate conversioni di massa sotto la supervisione dell'esercito. A tutt'oggi (nonostante i tentativi del 2008), la Polonia non ha condannato ufficialmente queste azioni.
Anche gli ucraini furono attaccati dalla clandestinità polacca durante la Seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra. Ciò è stato in parte spiegato come una vendetta per la Volinia o come una forma di difesa contro le unità ultranazionaliste ucraine, che esistevano anche in aree all'interno degli attuali confini della Polonia.
È il caso del villaggio di Sahryń, situato nella regione di Zamość (oggi comune di Werbkowice, contea di Hrubieszów, provincia di Lublino). Unità dell'Esercito Interno e dei Battaglioni Contadini uccisero i residenti ucraini dei villaggi di Sahryń, Szychowice, Modryń, Turkowice, Łasków e Miętkie (le stime variano notevolmente: da 150-300 persone, secondo l'Istituto Polacco per la Memoria Nazionale, a oltre 600-1.240 uccisi, secondo alcuni storici ucraini).
Nel villaggio di Wierzchowiny (oggi comune di Krasnystaw, contea di Krasnystaw, provincia di Lublino), il 6 giugno 1945, un'unità delle Forze Armate Nazionali uccise oltre 190 residenti civili del villaggio. Anche in questo caso si è cercato di sfruttare il ricordo ancora vivo dei massacri in Volinia, ma data la natura del villaggio, abitato principalmente da comunisti ucraini (e da una minoranza di Testimoni di Geova), è difficile prendere sul serio questi argomenti.
Sahryń, una tomba alla fine del villaggio
Sarebbe difficile trovare tracce della presenza ucraina tra le due guerre in Polonia, soprattutto se parliamo delle vittime della controviolenza polacca che seguì al massacro dei nazionalisti ucraini in Volinia. A Wierzchowiny, per esempio, non c'è nulla che ricordi il massacro della popolazione ucraina. Situato nella contea di Krasnystaw, il villaggio si trova nella provincia di Lublino, nella Polonia orientale, e il valico di frontiera più vicino dista circa 40 chilometri.
Attraversando la regione di Zamość, è possibile arrivare però a Sahryń, un villaggio dominato dagli ucraini sia prima della guerra che durante la Seconda guerra mondiale. Qui si trova infatti un monumento commemorativo di questi eventi, inaugurato nel 2008 (dieci anni dopo, l'allora presidente ucraino Petro Poroshenko partecipò addirittura alle celebrazioni). Ma se digitate "cimitero di Sahryn" sul vostro GPS, probabilmente sarete indirizzati verso un nuovo cimitero (cattolico romano), che non ha alcun legame con la storia del massacro e che è staccato dal villaggio, circondato da campi e vicino a un piccolo bosco.
La domenica mattina, due adolescenti stanno pulendo una delle tombe. Sanno che da qualche parte c'è un altro "vecchio cimitero", anche se non conoscono molto della sua storia ucraina, ortodossa e prima ancora greco-cattolica, sebbene elementi (post)cristiani orientali possono essere scorti nei luoghi più inaspettati nel Paese. Ad esempio la parrocchia cattolica romana locale ha dei patroni piuttosto insoliti per la Polonia, come San Cirillo e Metodio (dopotutto, si tratta di una ex chiesa ortodossa e prima ancora di una chiesa greco-cattolica).
Una strada sporca alla periferia di Sahryń nasconde dunque il luogo in cui si trova l'unico monumento alle vittime ucraine della clandestinità polacca. "Nasconde" non è un'esagerazione: il cimitero è difficile da vedere perché circondato da enormi alberi. E quando si varca il cancello, il paesaggio è ancora più surreale. Il monumento si nota subito, c'è anche un mazzo di fiori con i colori nazionali ucraini (è difficile dire se dell'Unione regionale degli ucraini in Polonia o del consolato ucraino a Lublino), ma l'ambiente circostante è molto diverso dalle foto della cerimonia a cui ha partecipato il capo di Stato ucraino.
Pur essendo grande, il luogo è molto trascurato, invaso dall'erba alta, molte lapidi (le più giovani risalgono agli anni '40) sono danneggiate, e l'impressione di irrealtà è ulteriormente rafforzata da uno sguardo alle tombe. Abbiamo una lapide con iscrizioni... in bulgaro, un monumento a un sacerdote cattolico, molte croci ortodosse, a volte senza nome, a volte con informazioni sulla vita e le attività dei rappresentanti della comunità ucraina locale, e infine c'è una lapide (apparentemente molto più giovane delle altre), che sembra un elemento di una polemica storica postuma: dal lato opposto infatti sorge il monumento agli ucraini uccisi a Sahryn e nei villaggi vicini, e sulla lapide si commemora un soldato polacco morto combattendo l'Armata Rossa (anche se l'iscrizione non lo menziona, fa riferimento alla morte per mano dei "comunisti ucraini").
Una donna che vive nelle vicinanze assicura di non sapere perché nessuno si occupi più del cimitero (anche se ha sentito parlare di progetti di ristrutturazione della tomba di un sacerdote cattolico romano sepolto lì). Non ricorda quando il sito sia stato definitivamente abbandonato e sottolinea che era «un cimitero per tutti - per ucraini e polacchi, cristiani ortodossi e cattolici».
Tuttavia non dice molto sul crimine in sé, che rimane sotterrato dal complicato flusso della storia, come il cimitero nascosto dagli enormi alberi.
La strada da percorrere
Secondo John-Paul Himka, storico canadese ed esperto di politica della memoria ucraino- polacca, il cambiamento nelle relazioni di memoria fra i due Paesi può essere fatto risalire alla metà degli anni Duemila, un periodo che ha visto l'ascesa al potere di forze nazionaliste su entrambi i lati del confine. «Il cambiamento risale a quando il partito Diritto e Giustizia è salito al potere in Polonia nel 2005 e nello stesso anno Viktor Yushchenko è diventato presidente dell'Ucraina. Si è trattato di vittorie elettorali per la destra nazionalista», spiega Himka.
Se le narrazioni dei governi hanno certamente giocato un ruolo importante nel plasmare l'opinione pubblica, Himka ritiene che anche la memoria popolare, soprattutto tra i cittadini comuni, sia stata un fattore chiave. «La questione dei massacri della popolazione polacca da parte dell'UPA aveva forti radici nella memoria della gente comune di entrambi i Paesi», afferma. «Naturalmente, questi ricordi erano completamente diversi in Polonia e in Ucraina».
Abbiamo visto come queste memorie tendano a divergere e come una tale divergenza, se non affrontate, rischi di minare quella che è stata (e rimane) un'alleanza solida e strategicamente importante tra Polonia e Ucraina. La memoria sulla Volinia è riemersa non solo attraverso le esumazioni e le commemorazioni di Stato, ma anche attraverso strumentalizzazioni politiche, narrazioni cospirative e rancori storici profondamente radicati. Mentre questo complesso passato torna in primo piano nel dibattito pubblico, la sfida è ora quella di distinguere tra il legittimo perseguimento della giustizia storica e l'uso improprio del trauma a fini ideologici o elettorali.
L'Unione europea, da parte sua, potrebbe e dovrebbe fare di più. Ha un ruolo cruciale da svolgere non solo nell’operare una mediazione fra le tensioni tra gli Stati membri attuali e futuri, ma anche nel dare forma a un approccio più coerente e lungimirante alla politica della memoria condivisa. Il caso della Volinia non è isolato: simili controversie irrisolte riguardano molte parti del vicinato orientale e sudorientale dell'UE. Bruxelles dovrebbe prendere più iniziative per promuovere il dialogo, incoraggiare commissioni storiche congiunte e garantire che le politiche della memoria non facciano deragliare i valori democratici o i processi di integrazione.
Questa (contro)revisione storiografica deve andare in entrambe le direzioni. Mentre l'Ucraina è chiamata a riconoscere apertamente i crimini commessi dalle forze nazionaliste durante la Seconda guerra mondiale, la Polonia deve affrontare i capitoli più oscuri della propria storia, dalla repressione tra le due guerre e l'assimilazione forzata alle operazioni del dopoguerra come "Wisła" e le uccisioni di rappresaglia dei civili ucraini.
La presenza di populisti nazionalisti da entrambe le parti, le cui contrapposte narrazioni sono spesso l’una lo specchio dell’altr, è un ostacolo importante. Ma anche il silenzio sulle verità condivise e sul dolore irrisolto. La strada da percorrere è quella di una rivalutazione reciproca e critica, che eviti i miti eroici e abbracci la complessità.
Solo attraverso questi sforzi la Polonia e l'Ucraina possono sperare di trasformare la Volinia da una ferita in uno spazio di riconciliazione e di gettare le basi per un futuro europeo comune. Ma, appunto, è una strada lastricata di ostacoli, dove il risentimento viene forgiato e perpetuato attraverso monumenti in bronzo e la verità è talvolta nascosta da alberi e arbusti che occludono la vista.
Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali.