Ieri sera ho cenato in collina con un gruppo di amici. Eravamo lontani dalla città, lontani da Gaza, lontani da tutto. Eppure, all’ora stabilita, le campane hanno cominciato a suonare sotto di noi, dal fondo del paese. Un suono spettrale, risalito dalla valle come un’eco cupa. Non annunciava festa, ma sembrava evocare spari, bombardamenti, il suono sordo della guerra.
“Suoniamo anche noi”, ho detto. E ci siamo adoperati con quello che avevamo: mani, bicchieri, cucchiai, voce, disperazione compresa. Un gesto goffo, ingenuo forse, ma necessario. Pochi minuti di rumore che non hanno aiutato nessuno, ma che ci hanno fatto sentire meno complici.
Poi è tornato il silenzio. Le campane si sono spente. Il grido che si era fatto forte è morto lentamente, lasciando spazio alla notte. E ai bombardamenti veri. A morte nuova, su un dolore antico.
Abbiamo continuato la nostra cena, tra i sensi di colpa e una certa allegria. Perché la vita va avanti, anche mentre altrove finisce. Questo contrasto è forse la cosa più difficile da accettare: sapere, e non poter fare abbastanza.
E allora ci chiediamo, mi chiedo: qual è il senso di questo rumore?
A Gaza, in queste ore, si continua a morire. L’UNICEF parla di migliaia di bambini uccisi, le Nazioni Unite denunciano una catastrofe umanitaria senza precedenti. Gli ospedali sono al collasso, interi quartieri rasi al suolo. Dopo l’attacco del 7 ottobre, la risposta militare israeliana ha scatenato una violenza devastante sulla popolazione civile. La Striscia è ormai una prigione a cielo aperto. Le comunicazioni sono intermittenti, gli aiuti umanitari ostacolati, le condizioni igienico-sanitarie allo stremo. E mentre i riflettori si spengono, la tragedia continua.
E qui, in Italia, ci affidiamo a un gesto simbolico: il suono delle campane. Non è abbastanza. Ma può essere un inizio. Un richiamo. Un modo per dire che non tutto il mondo è indifferente.
In tutta Italia, ieri, su iniziativa di Pax Christi, le campane hanno suonato per Gaza. Non per retorica, ma per coscienza. A Roma, Firenze, Napoli, Bologna, piccoli campanili e grandi cattedrali hanno fatto risuonare insieme il dolore e la speranza. L’iniziativa ha unito diocesi, parrocchie, centri di spiritualità, associazioni laiche e singoli cittadini in un gesto tanto silenzioso quanto potente.
“Ogni vita è sacra, ogni guerra è una sconfitta”, diceva spesso Papa Francesco. Parole che oggi risuonano più che mai attuali. Ma questa frase non dovrebbe restare confinata a un’omelia. Dovrebbe diventare bussola per chi governa.
Allora forse quel rumore serve, se ci costringe a non voltare lo sguardo. Se riesce a spingerci a fare qualcosa in più: a informarci, a donare, a scendere in piazza, a scrivere, a testimoniare, a curare, ad accogliere. Serve se riesce a tenerci svegli, vigili, presenti. Serve a restare umani davanti all’orrore.
Quel rumore, ieri sera, ha sussurrato anche un’esigenza profonda: quella di un governo capace di fare di più. Un governo che ascolti la volontà dei cittadini, che prenda posizione con chiarezza, che non si rifugi nella diplomazia dell’ambiguità.
Vorremmo sapere con forza da che parte si sta. Vorremmo non dover accettare una politica nebulosa mentre sotto le bombe muoiono civili, bambini, giornalisti, medici.
E allora anche una campana può prendere le distanze dall’indifferenza del potere. Perché la solidarietà, da sola, non ferma le bombe. Ma il silenzio, quello sì, le lascia cadere senza resistenza.