Allineamento ai valori umani
Il dibattito sull’AI si incentra sempre di più sulla problematica dell’allineamento ai “valori umani”. L’urgenza è palese. Questi modelli ormai gestiscono numerosi servizi che riguardano esseri umani, e in futuro ne gestiranno sempre di più. Sempre più spesso sono le AI che decidono se possiamo avere un prestito, se riceveremo un sussidio statale, quale tipo di cura applicare a un paziente. Sono le AI che supportano le decisioni dei medici e in altri settori critici. Quindi, è ormai indifferibile portare avanti una seria discussione su come fare in modo che l’AI rispetti i “valori umani”.
Ma, quali sono esattamente questi “valori umani”? La guerra in Ucraina, gli eventi a Gaza, esprimono “valori umani”? Perché non siamo tutti d’accordo – noi umani - su cosa fare in questi due casi evidenti? Proviamo, quindi, a scavare nella complessità storica dietro le apparenti ovvietà.
La storia ci ha insegnato che l’umanità in sé non esiste, ma è sempre un sottoinsieme di “umani” a decidere per tutti gli altri, un sottoinsieme che in quel periodo storico ha il “potere” negoziale per imporre le sue decisioni e quindi i suoi “valori umani”. Ad esempio, l’articolo 4 della ICERD, la Convenzione del ‘65 sui diritti umani non fu altro che un compromesso faticosamente raggiunto tra le due opinioni in contrasto delle superpotenze dell’epoca: USA e Russia. Gli stessi Stati che non esitavano a silenziare la libertà di espressione all’epoca, imposero la loro idea. Le critiche, anch’esse parzialmente strumentali, non si sprecarono, anche se in Occidente erano per lo più focalizzate sull’ipocrisia degli USA – nel cui territorio era possibile notare le Croci del Ku Klux Klan per le strade - ma rimanendo sordi alle voci strazianti delle minoranze sovietiche.
Il problema è che i “valori umani” non sono una categoria universale e fissa, ma una costruzione storica, politica e negoziale. In qualsiasi momento le negoziazioni interferiscono con le discussioni. Anche l’ONU quando parla di “valori umani” in realtà sta negoziando poteri, confini e interessi geopolitici. Al di là, quindi, delle roboanti dichiarazioni dei grandi leader e delle massime istituzioni sui principi superiori, il quadro dei “valori umani” applicati nel concreto da tutti gli Stati, in realtà è piuttosto sconfortante.
Valori umani applicati nel concreto
1. Potere e dominio: chi può esercitare forza (militare, economica, tecnologica) ha diritto di imporre la propria visione. Esempi storici: colonialismo europeo, guerre mondiali, guerre contemporanee. Anche i trattati “umanitari” nascono sempre dopo che un vincitore ha imposto condizioni.
2. Autoconservazione: la sopravvivenza del gruppo (nazione, etnia, classe dirigente) ha priorità su principi astratti. Esempi: sospensione dei diritti in stato d’emergenza, persecuzioni delle minoranze viste come minaccia, muri e frontiere che selezionano chi può vivere dentro o fuori.
3. Interesse economico: ciò che produce ricchezza e stabilità materiale prevale. Esempi: schiavitù giustificata da bisogni produttivi, sfruttamento industriale di bambini e lavoratori, oggi le supply chain globali fondate su disuguaglianze accettate.
4. Controllo sociale: mantenere l’ordine (più che la giustizia) è considerato essenziale. Esempi: censura nelle democrazie e nei regimi, leggi “antiterrorismo” usate per reprimere il dissenso, persecuzione di chi mette in crisi il potere costituito.
5. Ipocrisia normativa: affermare ideali universali a parole, tradirli nei fatti quando conviene. Esempi: Dichiarazione Universale dei Diritti Umani 1948 (mentre le potenze coloniali continuavano guerre di decolonizzazione), “valori democratici” difesi anche con colpi di Stato.
In questo quadro - una mera ipotesi di lavoro ovviamente - ciò che emerge prepotentemente è che i valori umani applicati nel concreto non sono “universalità, libertà o uguaglianza”, bensì “potere, sopravvivenza, interesse e controllo”. Il richiamo dei “valori umani”, quelli alti e nobili, se rimestiamo nel fango della storia, servono spesso come linguaggio di legittimazione dei valori reali. Esistono, sia chiaro (es. movimenti abolizionisti, diritti civili, emancipazione), ma nascono quasi sempre in opposizione al valore dominante di potere, e faticano a consolidarsi. Spesso accendono resistenze potenti e vere e proprie restaurazioni. Talvolta diventano a loro volta strumenti di potere.
Dalla storia quello che emerge, anche nel 2025, è una gerarchia di valori che potremmo sintetizzare in questo modo:
1. Sopravvivenza: ciò che garantisce vita, sicurezza fisica, accesso a risorse essenziali (cibo, acqua, territorio). Manifestazioni: guerre per risorse, migrazioni forzate, stati d’emergenza. Nota: questo è il valore primario e non negoziabile; tutti gli altri possono essere sospesi per garantirlo.
2. Potere e dominio: capacità di controllare altri gruppi, individui o territori. Manifestazioni: imperi, colonialismo, classi dominanti, conquiste militari. Nota: storicamente, chi detiene potere decide anche il linguaggio dei valori universali.
3. Interesse economico: ciò che assicura accumulazione, stabilità e profitto. Manifestazioni: schiavitù, capitalismo industriale, sfruttamento delle periferie del mondo. Nota: spesso mascherato come “sviluppo” o “progresso”.
4. Controllo sociale e ordine: preservare la coesione interna, evitare caos o rivolte. Manifestazioni: censura, repressione, sorveglianza, leggi speciali. Nota: il controllo è giustificato sia nei regimi autoritari sia nelle democrazie (in nome della sicurezza).
5. Identità collettiva: protezione di ciò che definisce un gruppo: religione, nazione, cultura, etnia. Manifestazioni: nazionalismi, guerre religiose, politiche identitarie. Nota: spesso è il cemento che rende accettabili sacrifici di libertà o giustizia.
6. Valori universali dichiarati (libertà, uguaglianza, dignità): principi alti, richiamati in carte, dichiarazioni e retoriche politiche. Manifestazioni: Dichiarazione dei Diritti Umani, costituzioni democratiche, trattati internazionali. Nota: hanno una funzione legittimante più che regolativa; vengono applicati selettivamente e subordinati ai livelli precedenti.
Storicamente possiamo osservare una piramide capovolta rispetto alla narrativa. In cima al discorso ufficiale si trovano libertà e uguaglianza, ma nella pratica la base della decisione politica è sempre sopravvivenza, potere e interesse. Il principio astratto è relegato a mero ornamento etico e campo di battaglia per le minoranze che sfidano l’ordine dominante (abolizionismo, diritti civili, ecc.).
“Noi” e “loro”
E non è tutto. La “sopravvivenza” nella nostra piramide appare un “valore universale”, ma l’evidenza storica mostra che non lo è. Non si tratta mai della sopravvivenza di tutti, bensì di un “noi” contrapposto a “loro”.
1. Sopravvivenza del gruppo: garantire la continuità del proprio gruppo di appartenenza (famiglia, clan, etnia, nazione, classe dominante). Caratteristica chiave: il “noi” è variabile: a volte ristretto (tribù, élite), a volte più ampio (nazione, civiltà), ma mai davvero universale. Effetto: giustifica l’esclusione, la discriminazione e persino l’eliminazione di chi è fuori dal gruppo, se percepito come minaccia od ostacolo.
La sopravvivenza diventa un meccanismo di selezione. Chi è nel gruppo, chi è “noi”, va protetto. Chi è “loro” può essere sacrificato. L’umanità è sempre più piccola. La nostra piramide rovesciata dei “valori” diventa sempre più sporca e cinica. Riproviamo.
1. Sopravvivenza del gruppo: priorità assoluta alla continuità del noi (famiglia, tribù, etnia, nazione, classe dominante). Nota chiave: il cerchio del noi è variabile e negoziabile, ma sempre esclusivo. Gli altri (i “loro”) possono essere ignorati, sfruttati o eliminati. Esempi: genocidi, frontiere che selezionano chi può vivere o meno, guerre di difesa nazionale.
2. Potere e dominio: chi ha forza (militare, economica, culturale) impone la propria visione. Nota chiave: il potere non solo decide le regole, ma stabilisce chi rientra o meno nel noi. Esempi: colonialismo, imperi, superpotenze moderne.
3. Interesse economico: ciò che assicura accumulazione e stabilità materiale prevale su principi astratti. Nota chiave: spesso viene rivestito di linguaggi moralizzanti come “sviluppo” o “progresso”. Esempi: schiavitù atlantica, sfruttamento industriale, supply chain globali contemporanee.
4. Controllo sociale e ordine: prevenire disgregazione interna, ribellioni, conflitti che minacciano la stabilità del gruppo. Nota chiave: mantenere l’ordine vale più della giustizia. Esempi: censura, sorveglianza, leggi eccezionali, repressione del dissenso.
5. Identità collettiva: protezione dei simboli che cementano il gruppo (nazione, religione, lingua, tradizione). Nota chiave: l’identità è uno strumento potente per rafforzare la distinzione noi/loro. Esempi: nazionalismi, guerre religiose, politiche identitarie.
6. Valori universali dichiarati (libertà, uguaglianza, dignità): principi invocati nei testi normativi e nei discorsi ufficiali. Nota chiave: funzione prevalentemente retorica e legittimante; vengono applicati selettivamente e subordinati ai livelli precedenti. Esempi: Dichiarazione dei Diritti Umani 1948, trattati internazionali invocati per giustificare interventi armati o esclusioni.
L’unità di misura dei valori umani diventa il “noi”. Il cerchio del “noi” si allarga (donne, minoranze) e restringe ma rimane un confine invalicabile in quel determinato contesto, a seppellire tristemente l’universalità dei “valori umani”. A questo punto sorge prepotente un’altra domanda: come si estende (o restringe) quel “noi”? Dissotterrando i cadaveri putrefatti della storia possiamo provare a stilare un elenco di fattori.
Fattori di estensione del gruppo (allargamento del noi)
1. Acculturazione e scambio culturale. Contatto prolungato (commercio, migrazioni, urbanizzazione) porta a integrare usi, lingue, simboli comuni. Esempio: cittadinanza romana concessa progressivamente a popoli sottomessi → da “stranieri” a “Romani”.
2. Universalismi religiosi e ideologici. Religioni monoteiste (cristianesimo, islam) o ideologie moderne (illuminismo, socialismo) hanno proclamato un noi potenzialmente universale. Anche se spesso applicati con contraddizioni, hanno creato cornici concettuali per includere più persone sotto lo stesso orizzonte simbolico.
3. Interdipendenza economica. La cooperazione economica spinge a riconoscere l’altro come parte del noi. Esempio: la nascita dell’Unione Europea come comunità economica del carbone e dell’acciaio → dal nemico tedesco al partner europeo.
4. Esperienze traumatiche comuni. Guerre, catastrofi, pandemie possono estendere il noi se percepite come minaccia condivisa. Esempio: dopo la Seconda guerra mondiale, il noi europeo si rafforza attorno all’idea di pace.
5. Mobilità e mescolanza. Migrazioni, matrimoni misti, città cosmopolite ampliano i confini di appartenenza. Esempio: le polis ellenistiche, o le metropoli globali di oggi.
Fattori di riduzione del gruppo (restrizione del noi)
1. Crisi economiche e scarsità di risorse. Quando le risorse sembrano insufficienti, il noi si restringe per proteggere “i nostri” a scapito degli altri. Esempio: persecuzione di minoranze durante carestie o crisi (pogrom, caccia agli “stranieri”).
2. Conflitti politici e guerre. La contrapposizione bellica rafforza il confine noi/loro e può anche spezzare precedenti inclusioni. Esempio: la dissoluzione jugoslava: da un noi nazionale comune a un’esclusione etnica sanguinosa.
3. Nazionalismi e ideologie identitarie. Ideologie che enfatizzano purezza, radici o sangue riducono drasticamente il perimetro del noi. Esempio: Germania nazista, apartheid sudafricano.
4. Paura e insicurezza sociale. Minacce percepite (terrorismo, criminalità, epidemie) portano a restringere il noi ai “compatibili” e isolare i “pericolosi”. Esempio: internamento dei nippo-americani negli USA durante la Seconda guerra mondiale.
5. Manipolazione politica e propaganda. I leader spesso restringono il noi per consolidare consenso, creando capri espiatori. Esempio: i “nemici del popolo” nelle dittature, oppure i migranti come minaccia in molte campagne contemporanee.
Il “noi” non è un concetto statico, ma dinamico. Si dilata in contesti di prosperità, scambio e cooperazione. Si restringe in contesti di crisi, paura e conflitto. L’acculturazione è la classica forza estensiva, ma basta poco (una crisi economica) per far riaffiorare i vecchi confini del gruppo.
Scarsità di risorse
Un fattore di riduzione che spicca, tra gli altri, è la “scarsità di risorse”. Cosa che ci fa pensare immediatamente al “capitalismo”. Il capitalismo, nella sua forma moderna, non solo si basa sulla scarsità delle risorse, ma la produce e l’organizza.
La scarsità naturale è la condizione di base per le risorse (acqua, cibo) non infinite. E storicamente spinge i gruppi a restringere il “noi” per proteggerli meglio dai “loro”. Il capitalismo, però, si basa su una scarsità di risorse costruita come meccanismo di valore:
- prezzo = equilibrio tra domanda e offerta, che presuppone scarsità.
- proprietà privata = crea esclusione artificiale: chi possiede una risorsa ne limita l’accesso.
- innovazione tecnologica = genera nuove forme di scarsità (licenze, brevetti, monopoli).
Nel capitalismo il valore fondamentalmente si fonda su una mancanza relativa.
Ovviamente, trattandosi di fenomeni complessi, le interferenze sono molteplici. Il capitalismo globale, infatti, ha allargato il “noi” oltre i confini locali (mercato mondiale). In teoria tutti possono entrare nello scambio. Ma in realtà l’accesso alle risorse è filtrato da potere d’acquisto e posizione sociale. In pratica il “noi” diventa “chi può partecipare al mercato”. I poveri non hanno potere economico, quindi sono esclusi. La scarsità diventa un criterio di selezione per far parte di “noi”.
Con la Rivoluzione industriale abbiamo avuto “il progresso per tutti”, ma anche lavoro minorile, sfruttamento, esclusione delle campagne. Con la Colonizzazione, i mercati aperti, ma anche risorse sottratte con violenza e popoli ridotti a forza-lavoro servile. E oggi? Internet come bene “universale”, ma gestito da pochi monopolisti, accesso differenziato, e digital divide.
Il capitalismo è spesso scarsità costruita, non naturale: brevetti, proprietà intellettuale, controllo delle materie prime. Questa scarsità selettiva riduce l’estensione del gruppo, perché crea una divisione tra chi ha accesso e chi no.
Ma, come dicevo, la questione è complessa. Il capitalismo ha anche una spinta all’estensione del gruppo. Non tanto per altruismo, ma perché più persone integrano il sistema (consumatori, lavoratori, cittadini), più cresce il mercato. La globalizzazione, ad esempio, ha esteso i confini del gruppo a livello planetario: un individuo in India o in Africa diventa parte della stessa catena produttiva e di consumo di uno in Europa. L’acculturazione e la standardizzazione culturale (inglese lingua franca, modelli consumistici globali, social media) servono a ridurre differenze che impedirebbero lo scambio. Quindi, l’estensione qui non è “solidarietà universale”, ma piuttosto un allargamento funzionale dei confini del gruppo per mantenere il ciclo accumulativo.
Nel capitalismo la scarsità non è un meccanismo di riduzione del “noi” assoluto, ma selettivo e funzionale. Il sistema deve continuamente integrare nuovi soggetti (nuovi mercati, nuove manodopere) ma al contempo mantenere barriere di scarsità e differenziazione, perché senza di esse non esisterebbe valore. E oggi non è diverso. Con internet abbiamo un meccanismo di inclusione, in quanto potenzialmente tutti possono accedere all’informazione e partecipare, ma anche di esclusione, dato dagli algoritmi, i paywall, la proprietà dei dati e i monopoli.
Capitalismo digitale
Il capitalismo digitale è l’ultima forma osservata di capitalismo. Ma non si differenzia particolarmente dalle altre. La materia prima sono i dati. Formalmente, i dati sono “infinibili” (più persone li generano, più aumentano), ma vengono resi scarsi tramite proprietà, regolamentazione, brevetti e tecnologie di accesso (API a pagamento, dataset chiusi, infrastrutture private). Infatti, un post su un social è “libero” in quanto pubblicato, ma il suo valore sta nell’accesso aggregato, che è proprietà esclusiva della piattaforma. Con il digitale l’estensione è più radicale rispetto al capitalismo industriale. Chiunque navighi, clicchi, respiri online è parte del gruppo perché produce dati. Il Capitalismo digitale universalizza l’inclusione. Fino a farla diventare obbligatoria.
Ma i dati non ti appartengono, se non in base a una fictio giuridica. Li produci, ma sono gli algoritmi che li trasformano in valore (AI, motori di raccomandazione, modelli linguistici), che sono chiusi e proprietari. Ecco la scarsità di accesso: tu contribuisci alla ricchezza collettiva, ma non hai gli strumenti per sfruttarla. I dataset pubblici per addestrare l’AI vengono chiusi o licenziati, così il valore diventa scarso e monetizzabile.
Questo comporta che l’AI includerà tutti come produttori di dati, ma escluderà tantissimi dal controllo e beneficio economico. Esattamente come il capitalismo industriale: tutti potevano lavorare (forza lavoro) ma pochi possedevano fabbriche e capitali. L’unica differenza è che nel capitalismo digitale l’inclusione è totale. Non sei libero nemmeno se non partecipi. Non puoi sottrarti. Anche non avere uno smartphone, non essere sui social, di fatto è un dato utile perché mappa assenze. Sei sempre nel “sistema” anche se credi di non esserci.
Nelle società tradizionali la scarsità era naturale. Nel capitalismo industriale la scarsità era costruita. Oggi la scarsità è performativa. Le piattaforme devono continuamente simulare la scarsità (accesso premium, API a pagamento, modelli chiusi, abbonamenti) per mantenere il valore di ciò che in sé non è scarso (dati, software, copie digitali).
Adesso forse è più chiaro. Tradizionalmente il gruppo è fatto di individui, legati da vincoli fisici, culturali o identitari. Il “noi” include chi condivide territorio, lingua, cultura o affiliazione sociale. Con l’AI e le moderne tecnologie, il “noi” diventa rete di dati e flussi informativi. Ogni persona contribuisce ai dati, ma l’unità di valore non è più l’essere umano, ma il dato aggregato e le connessioni tra dati. Tutti partecipano, anche senza volere. L’algoritmo trasforma in flusso informativo chiunque, misura e classifica tutti, trasformando tutti in “risorse”, basta produrre dati. Ma solo pochi controllano i modelli (OpenAI, Google, Anthropic, ecc.), l’accesso ai dataset e le infrastrutture di calcolo. Ed è chi ha questo controllo che definisce i valori e le regole che orientano l’AI, e quindi determinano chi beneficia, chi viene filtrato e chi viene ignorato.
Oggi l’inclusione è totale, ma la capacità di decidere e beneficiare è concentrata in poche e selezionate mani. Così il “noi” si evolve fino a basarsi sulla partecipazione al flusso di dati. “Loro” non è chi appartiene a una nazione o un gruppo etnico, ma chi non controlla l’AI, non ha accesso ai dataset o non può influenzare gli algoritmi, sia per mancanza di accesso, sia per esclusione sistematica dai benefici derivanti dall’uso dei dati. Il confine del gruppo è completamente ridisegnato: non più umano vs umano, ma dati/utilizzo vs esclusione dall’infrastruttura.
I nuovi “valori umani”
I “valori umani” sono interpretabili, in realtà lo sono sempre stati. Non sono principi astratti, ma etichette e metriche inseribili nei modelli. Le comunità tradizionali esistono ancora, ma sono sottoposte e integrate nella rete più ampia che definisce valore e accesso. La logica è sempre quella del capitalismo industriale, ma amplificata:
- Inclusione totale → tutti partecipano, tutti producono valore.
- Esclusione selettiva → pochi controllano, pochi beneficiano, pochi decidono i valori.
Allora la conclusione non può che essere una: la piramide dei valori umani si è evoluta fino a diventare una piramide dei “valori digitali”:
1. Base: dati come risorsa universale. Inclusione universale apparente: tutti generano dati attraverso le loro interazioni online, indipendentemente dalla loro volontà. Scarsità costruita: nonostante l'abbondanza di dati, l'accesso e l'uso di questi dati sono controllati da entità centralizzate, creando una scarsità artificiale.
2. Secondo livello: algoritmi e modelli predittivi. Esclusione selettiva: gli algoritmi determinano chi ha accesso ai servizi e alle informazioni, spesso escludendo chi non rientra nei parametri prestabiliti. Bias incorporato: i modelli possono riflettere e amplificare pregiudizi esistenti, discriminando minoranze o gruppi emarginati.
3. Terzo livello: infrastrutture e piattaforme. Controllo centralizzato: pochi attori dominano le infrastrutture digitali, determinando le regole del gioco e influenzando profondamente la partecipazione e l'accesso. Monopolio dei dati: Le piattaforme accumulano enormi quantità di dati, utilizzandoli per ottimizzare i profitti e consolidare il loro potere.
4. Apice: potere decisionale e governance. Determinazione dei valori: le decisioni su cosa è considerato “giusto” o “utile” sono prese da chi controlla i dati e le infrastrutture, spesso senza un'adeguata rappresentanza democratica. Sovranità dei dati: La mancanza di controllo sui propri dati personali implica una perdita di autonomia e partecipazione nelle decisioni che influenzano la vita quotidiana.
Quindi il Grande Vecchio dell’età moderna è incarnato nelle Big Tech? Una conferma che i film di fantascienza non sono altro che uno sguardo verso il futuro? Non proprio. Con il secondo mandato di Donald Trump abbiamo osservato un fenomeno piuttosto inquietante. Molte grandi aziende tech hanno beneficiato di allineamenti politici (agevolazioni fiscali, deregulation, contratti pubblici, protezione normativa). I governi hanno interesse a controllare la tecnologia e l’accesso ai dati, sia per sicurezza nazionale sia per influenza geopolitica. Questo non può non avere un effetto indiretto sui “valori”: ciò che è considerato accettabile, sicuro o “allineato ai valori umani” è in realtà filtrato da criteri politici e strategici, non etici universali. Il “noi” nella sua ultima evoluzione non è più solo chi controlla i dati e le infrastrutture, ma chi è anche allineato alle priorità politiche. Chi non le rispetta può essere escluso o penalizzato, con restrizioni su app e servizi in paesi specifici, ad esempio. Da cui emergono algoritmi ottimizzati per favorire contenuti compatibili con le narrative politiche e legislazioni (USA CLOUD Act) che consentono l’accesso governativo ai dati. La rete dei dati non è più neutra - se mai lo è stata - la rete di potere digitale incorpora Stati, governi e interessi geopolitici che ridefiniscono il “noi” e il “loro”.
In questo modo i “valori umani” sono nuovamente ridisegnati da filtri politici e scelte strategiche. Le Big Tech diventano gli agenti intermedi che traducono le priorità governative in funzioni digitali. Sono i nuovi “editori”. L’accesso ai dati e ai modelli non è regolamentato solo dal mercato, ma anche dalla politica.
Ecco, quindi, regolamentazioni che fanno emergere monopoli e barriere all’ingresso dei mercati. Pochi attori sono più facili da controllare che una miriade di piattaforme. Ma questi attori, che ovviamente ricevono in cambio dei benefici, devono mediare costantemente col governo. La rete digitale diventa un campo di negoziazione continua, con effetti sul perimetro del “noi” e sui diritti dei singoli.
Forse un giorno i film di fantascienza che disegnano futuri controllati da mega-corporazioni saranno considerati profetici, ma oggi i governi rimangono ancora decisivi nel plasmare valori e confini del gruppo digitale. L’illusione di neutralità è quindi molto limitata: i valori umani diventano intermediati dai rapporti di potere tra Stati e imprese, non sono più degli assoluti indipendenti, semmai lo sono mai stati.
Il ruolo storico dei Mass Media è sempre stato quello di tradurre e diffondere i valori sociali e culturali in forme accessibili al pubblico, essi selezionano e interpretano ciò che deve essere considerano importante, accettabile e morale. I valori sono interiorizzati attraverso le narrazioni, le notizie e i simboli. Chi produce decide, chi riceve assorbe. Oggi il capitalismo digitale presenta una traduzione dei valori non più solo narrativa, ma gestione di dati, ranking e priorità e visibilità. Il filtro non è solo culturale e giornalistico, ma algoritmico. L’AI decide cosa appare, a chi e con quale priorità. I valori non sono più “spiegati” ma codificati. L’assorbimento dei valori è automatico, meno mediato dalla riflessione, più profondo. L’utente interagisce con un flusso di dati che definisce ciò che è rilevante, sicuro, giusto, senza necessariamente comprendere chi ha definito quei paramenti. Il potere oggi si esprime attraverso meccanismo opachi, e i “valori umani” diventano parametri negoziati tra potere politico ed economico. La centralità dell’individuo diventa illusoria.
“Noi” è chi possiede i dati e definisce i parametri algoritmici. Ed ecco, quindi, che possiamo scrivere la nostra piramide dei “valori digitali” finale:
Base: Generazione dei dati / Produzione di contenuti.
Mass Media: produzione di contenuti giornalistici, culturali e narrativi; l'individuo assorbe i valori attraverso narrazioni curate.
Big Tech: ogni individuo genera dati costantemente (post, click, geolocalizzazione), anche senza consapevolezza; i dati diventano risorsa universale.
Scarsità artificiale: mentre i dati sono potenzialmente infiniti, l'accesso è limitato e controllato dalle piattaforme.
Secondo livello: Algoritmi e modelli.
Mass Media: filtri editoriali e redazionali determinano cosa viene diffuso e cosa no.
Big Tech: algoritmi decidono visibilità, ranking, moderazione; l'esclusione avviene attraverso regole tecniche, non narrative.
Bias e priorità politiche: gli algoritmi riflettono interessi economici e governi.
Terzo livello: Infrastrutture e piattaforme.
Mass Media: pochi media concentrano il potere di diffusione, ma i criteri sono visibili e interpretabili.
Big Tech: controllo centralizzato su server, cloud, accesso ai modelli; le piattaforme dettano le regole di partecipazione e il flusso dei dati.
Filtro politico: gli interessi governativi influenzano le decisioni aziendali, modificando i parametri di ciò che è visibile o ritenuto accettabile.
Apice: Potere decisionale e governance dei valori.
Mass Media: editori e giornalisti decidevano i messaggi e quindi, indirettamente, i valori trasmessi.
Big Tech: pochi nodi tecnologici + governi determinano parametri dell'IA, moderazione dei contenuti, accesso ai dati.
Determinazione dei valori: i "valori umani" sono filtrati da interessi politici ed economici, meno da principi etici universali.
In estrema sintesi:
Effetti sul “noi” digitale:
• Inclusione apparente: tutti partecipano generando dati o consumando contenuti.
• Esclusione reale: solo chi controlla dati, infrastrutture e algoritmi può beneficiare e definire i valori.
• Nuovo confine del gruppo: non più culturale o territoriale, ma basato su accesso al flusso di dati e capacità di influenzarne l'interpretazione.
Quindi:
• Trasparenza ridotta: la definizione dei valori diventa opaca e mediata da algoritmi.
• Interdipendenza potere-governo: i valori trasmessi sono il risultato di negoziazioni tra Big Tech e governi, non principi universali.
• Centralizzazione del potere: il gruppo digitale è ampio in inclusione, ma ristretto in termini di capacità decisionale e influenza reale.
L’evoluzione dai Mass Media ai Big Tech ha cambiato radicalmente il meccanismo di diffusione dei valori umani, spostando il baricentro dal controllo culturale e narrativo al controllo algoritmico e infrastrutturale.
L’uomo al centro
Il ragionamento di mettere l’uomo al centro, sembra non solo corretto, ma indispensabile. In realtà, a ben vedere, nasconde una serie di presupposti sui quali non sempre ci si sofferma a pensare.
Chi è l’uomo?
Non esiste storicamente un “essere umano unitario”. Ogni società, classe, Stato ha idee differenti su chi è “uomo” e quali sono i “valori umani”. Nemmeno oggi, nel 2025, siamo in grado di raggiungere un accordo su questi temi.
“E’ l’uomo che deve decidere” è un paradosso, perché l’uomo delega comunque e ovunque. Gli algoritmi e l’AI non decidono da soli, ma in base a dati di addestramento e software che sono sempre un prodotto umano. Quindi l’AI non fa altro che decidere in base a decisioni umane già incorporate: dataset, metriche, obiettivi. Dire “che decida l’uomo” è tautologico, l’AI è un prodotto umano. Il problema che spesso è un prodotto opaco e monopolizzato. “Valori umani” è diventato un contenitore retorico, un marchio morale da applicare per legittimare azioni di potere.
Invece di chiedere “chi mette l’uomo al centro?”, forse la domanda più radicale è: come rendere trasparenti, plurali e contestabili i valori che inevitabilmente incorporiamo nelle macchine? Forse, più che parlare di “valori umani”, dovremmo parlare di processi di deliberazione umana, cioè: chi decide? Con quali strumenti? Includendo chi? Riconoscendo quali voci minoritarie? La differenza non è banale: i valori non esistono come verità rivelata, ma come risultato sempre contestabile di scelte collettive.
Immagine in anteprima: Leonardo AI