Non è certo che Xi Jinping riesca (o persino voglia) costruire in toto un nuovo ordine mondiale. Di certo però, dopo la settimana "globale" del presidente cinese appena conclusa, sta cercando di rimodellare quello esistente. Prima il summit della SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) a Tianjin, dove è riuscito a riavviare i rapporti con l'India e a mostrare l'intenzione di dare una connotazione più operativa alla piattaforma di paesi non allineati a Stati Uniti e G7. Poi, il bilaterale allargato con Vladimir Putin, in cui ha ottenuto accordi su gas e petrolio a prezzi scontati che rendono la Russia ancora più dipendente economicamente nei confronti della Cina. A seguire, l'imponente parata militare con cui ha celebrato l'ottantesimo anniversario della resa del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale: non solo un palcoscenico per mostrare la potenza di fuoco dell'esercito, ma anche un volano storico-politico per riaffermare il ruolo della Cina nel conflitto e dare maggiore legittimità alle sue rivendicazioni presenti e future, a partire da quelle su Taiwan. Infine, il primo incontro con Kim Jong-un dopo sei anni, che rimette Xi al centro delle dinamiche trilaterali con Corea del Nord e Russia, ma anche della possibile riapertura del dialogo tra Pyongyang e gli Stati Uniti.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il disgelo con l'India
Fondata nel 2001, la SCO è nata come piattaforma regionale di sicurezza tra Cina, Russia e quattro repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan), con l’obiettivo di gestire i confini post-sovietici e coordinare la lotta contro terrorismo e separatismi. Col tempo si è trasformata in un forum politico ed economico a vocazione eurasiatica, allargandosi a India e Pakistan nel 2017, all’Iran nel 2023 e alla Bielorussia nel 2024. Oggi rappresenta circa il 40% della popolazione mondiale e quest'anno c'è stata particolare attenzione intorno al suo summit annuale per due ragioni. Primo: la guerra dei dazi lanciata da Donald Trump ha fatto sì che più paesi avessero il desiderio di mostrare un compattamento (da capire quanto effettivo) per segnalare l'insoddisfazione sulle politiche commerciali e sanzionatorie di Washington. Secondo: l'assenza studiata di Xi dal summit dei BRICS di giugno in Brasile, che ha di riflesso amplificato l'importanza del vertice SCO. Conseguenza: a Tianjin c'era un grande affollamento di leader internazionali. Non solo quelli degli Stati membri, ma anche di altri numerosi paesi osservatori o partner di dialogo come Turchia e Indonesia.
Prima dell'inizio del summit, però, a Xi serviva riannodare i legami con l'India. Non a caso, tra i primissimi leader ricevuti dal presidente cinese c'è stato Narendra Modi. Per la prima volta dal 2018 il premier indiano ha rimesso piede a Pechino, mettendo fine a sette anni di gelo. Dal 2020, con gli scontri sanguinosi sul confine conteso, le relazioni erano precipitate, alimentando una guerra commerciale e una spirale di diffidenze reciproche. Le ragioni di questo disgelo vanno cercate su più piani. Da un lato, ci sono motivazioni economiche: l’India ha bisogno delle forniture cinesi di fertilizzanti e terre rare, mentre la Cina ha interesse a stabilizzare un rapporto che, se conflittuale, rischia di indebolire le sue grandi iniziative multilaterali.
Ma c’è anche un elemento globale. L’incertezza prodotta dal ritorno di Trump, con i suoi dazi punitivi estesi non solo ai rivali ma anche ai partner, ha spinto Nuova Delhi a rivalutare la propria autonomia strategica. Per Pechino, invece, la cornice del vertice SCO offriva l’occasione perfetta per riportare l’India dentro al suo mosaico eurasiatico, trasformando la piattaforma da forum regionale in architettura politica alternativa all’ordine occidentale. Il bilaterale tra Xi e Modi, celebrato a margine del summit, ha confermato alcuni risultati concreti già preannunciati nelle settimane immediatamente precedenti. È stata predisposta la riapertura del commercio transfrontaliero, interrotto da cinque anni, la ripresa dei voli diretti tra i due Paesi e l’avvio di un nuovo meccanismo di dialogo sulla gestione della frontiera.
Se il disgelo reggerà, l’organizzazione potrebbe trasformarsi in un reale strumento di cooperazione economica e di sicurezza eurasiatica. Eppure i nodi irrisolti restano pesanti. Le ferite degli scontri del 2020 sono lontane dall’essere rimarginate nelle rispettive opinioni pubbliche. Il Pakistan rimane un partner storico di Pechino e il nemico giurato di Nuova Delhi: una linea rossa difficilmente superabile. Sul fronte marittimo, l’India guarda con sospetto alla crescente presenza cinese nell’Oceano Indiano, mentre la Cina critica i movimenti indiani a sostegno del Dalai Lama e della diaspora tibetana. Un dossier destinato a tornare in primissimo piano con l'enorme tema della successione di Tenzin Gyatso, con le autorità tibetane in esilio (supportate da Nuova Delhi) e il Partito comunista che rivendicano nello stesso momento il diritto di scelta. Per non parlare della questione dell'acqua, con la Cina che sta costruendo una mega diga sull'Himalaya e l'India che teme che questa possa diventare un'arma per controllare l'accesso alle risorse idriche.
Il disgelo tra Xi e Modi assomiglia quindi più a una tregua tattica che a una riconciliazione strategica. La Cina cerca di cooptare l’India nel suo progetto multipolare, mentre Nuova Delhi prova a massimizzare i benefici mantenendo la propria autonomia. Ma segnalare l'intenzione di migliorare i rapporti è la condizione minima per ambire a rendere più concreta e operativa l'azione dei gruppi multilaterali a guida (o a ispirazione) cinese.
Il summit SCO
Lunedì 1° settembre è stato invece il giorno della sessione plenaria del vertice SCO, così come dell'incontro SCO Plus coi partner di dialogo. Dall'incontro è emerso soprattutto un messaggio politico. Nel suo discorso programmatico, Xi ha chiesto al cosiddetto Sud globale di unirsi contro “bullismo” e “mentalità da guerra fredda”, presentando la SCO come strumento privilegiato per realizzare un multipolarismo “più equo e giusto”. Xi non ha mai menzionato direttamente Washington, ma ha criticato il “bullismo” di alcuni Stati su questioni economiche e diplomatiche, evocando la necessità di un nuovo modello di sviluppo condiviso dal cosiddetto Sud globale. La retorica è quella consueta: rigetto della mentalità da guerra fredda e dei confronti tra blocchi, espressioni che a Pechino servono per attaccare l’America.
La strategia, però, va oltre la retorica. Xi ha chiarito di voler rendere la SCO uno strumento operativo che vada al di là della sicurezza. Ha rilanciato la sua Belt and Road Initiative (la Via della Seta) e ha colto l’occasione per annunciare la nascita di tre piattaforme di cooperazione in settori chiave come energia, economia digitale e industria verde. Ha proposto inoltre un centro di ricerca congiunto sull’intelligenza artificiale e promesso circa un miliardo e mezzo di dollari tra sovvenzioni e prestiti ai paesi membri. Ma è soprattutto sul commercio che si è registrato l’allineamento più marcato: i documenti finali condannano dazi e sanzioni occidentali, definiti “strumenti illegali”. E, forse ancora più significativo, è arrivato il via libera alla creazione di una nuova banca di sviluppo della SCO. L’obiettivo dichiarato è proteggere i Paesi membri dalle sanzioni secondarie, promuovere l’uso delle valute nazionali al posto del dollaro e costruire un sistema di pagamento alternativo. Un progetto discusso anche nei BRICS e assai complesso da realizzare, ma indicativo della volontà di Cina, Russia, India e altri partner di presentarsi come blocco coeso sul fronte commerciale.
Sul fronte strategico questa unità non si è vista. I vari leader hanno portato avanti i rispettivi interessi, spesso diversi tra loro. Putin ha sfruttato la tribuna per attribuire all’Occidente e alla NATO la responsabilità della guerra in Ucraina e, non senza calcolo, ha sottolineato di aver informato Xi e Modi sui colloqui avuti con Trump in Alaska. Un modo per far capire a Stati Uniti ed Europa di non essere isolato, ma al contrario capace di rinsaldare legami con partner cruciali. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha approfittato del summit per intervenire sul conflitto a Gaza, con toni duri contro Israele che sono stati però notevolmente attenuati nel documento congiunto finale. L’Iran ha chiesto l’istituzione di un comitato di crisi sul Medio Oriente dopo il mancato sostegno ricevuto nei mesi scorsi: la sua proposta è stata accolta solo a livello di impegni generici.
Xi, dal canto suo, ha rilanciato l’idea di una governance globale capace di colmare il divario tra Nord e Sud del mondo. Proposta che trova eco nei documenti firmati al termine del vertice: una dichiarazione congiunta e una visione di sviluppo per i prossimi dieci anni (2026-2035) della SCO. Il contenuto è più orientativo che concreto. E risponde innanzitutto alla necessità di rafforzare il simbolismo proposto dal vertice, vale a dire una maggioranza non più silenziosa che vuole teoricamente unirsi per far sentire la sua voce e riformare l'ordine globale esistente. Non a caso, Xi ha citato più volte la centralità delle Nazioni Unite e dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, un modo per rendere il suo progetto politico "propositivo" e non "distruttivo" nei confronti dell'ordine a guida Usa e G7. Eppure non mancano i dubbi e c’è chi legge questo slancio soprattutto come tatticismo: un modo per dire a Trump e all'Occidente che se i Paesi emergenti non verranno trattati con rispetto, hanno la possibilità di unire le forze.
Gli affari con Putin
Dopo il simbolismo multilaterale di Tianjin, Xi è passato agli affari di Pechino. Martedì 2 settembre ha riservato un lungo bilaterale a Putin, diventato poi un trilaterale con Ukhnaagiin Khürelsükhm il presidente della Mongolia. Non è un caso. Il risultato più concreto dell'incontro è stato infatti il via libera al gasdotto Power of Siberia 2, il progetto energetico che più sta a cuore del Cremlino e che è destinato a unire i giacimenti della Siberia occidentale con lo Xinjiang cinese, transitando per la Mongolia. La progettazione di questa infrastruttura è iniziata nel 2020, e il primo annuncio ufficiale risale a inizio 2022, poco prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Per quasi cinque anni, però, Xi ha mantenuto il silenzio. Nonostante la raffica di bilaterali tra i due leader, l’infrastruttura energetica è rimasta sullo sfondo. Nel frattempo, Pechino ha continuato ad aumentare le importazioni di gas e petrolio russi, approfittando degli sconti offerti da Mosca dopo le sanzioni occidentali, ma ha anche negoziato forniture alternative con Kazakistan e Turkmenistan, in un chiaro tentativo di diversificare le fonti e rafforzare la propria posizione negoziale.
Ora, però, è arrivata la svolta con la firma di un memorandum che la stessa Gazprom ha definito giuridicamente vincolante” con la China National Petroleum Corporation, a margine del bilaterale tra Xi e Putin. Il Power of Siberia 2 avrà una capacità di 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno, sfruttando anche riserve precedentemente destinate ai clienti europei prima della guerra in Ucraina. L’entrata in funzione non è prevista prima dell’inizio del prossimo decennio. Nel frattempo, l’intesa prevede che Gazprom aumenti le forniture del già esistente Power of Siberia 1 da 38 a 44 miliardi di metri cubi all’anno, mentre dal 2027 la nuova rotta dell’Estremo Oriente aggiungerà altri 10 miliardi di metri cubi annuali.
Il gasdotto rafforza la dipendenza della Russia dalla Cina, che coprirà circa due terzi delle esportazioni russe precedentemente dirette all’Europa. Per Pechino, invece, Mosca rappresenta circa un quinto del fabbisogno nazionale di gas. L'accelerazione arriva non a caso dopo il ritorno di Trump e il summit in Alaska con Putin. Rompendo gli indugi e dando il via libera al gasdotto (dopo anni di pressing del Cremlino) Xi sigilla ancora di più il legame con Mosca, spegnendo sul nascere qualsiasi possibilità di un “reverse Nixon”, ovvero un tentativo della Casa Bianca di avvicinare Putin per allontanarlo dalla Cina.
La parata militare
Il summit SCO è stato piazzato non a caso alla vigilia di un altro appuntamento cruciale per la liturgia politica cinese e per il piano globale di Xi: la grande parata militare di piazza Tiananmen per commemorare l'ottantesimo anniversario della resa del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. Xi ha ispezionato le truppe e pronunciato un discorso in cui ha sottolineato che il mondo si trova a una scelta tra “pace o guerra, dialogo o confronto". In una frecciata agli Usa, ha poi affermato che "il popolo cinese è dalla parte giusta della storia e la Cina è una grande nazione che non si lascerà intimidire da nessun bullo". Xi ha poi sottolineato che "il grande rinnovamento della Cina è un trend inarrestabile", obiettivo storico fissato dal Partito comunista in vista del centenario del 2049 della fondazione della Repubblica Popolare. Obiettivo di cui fa parte la "riunificazione di Taiwan", comunque non menzionata esplicitamente dal leader cinese.
La parata è servita per chiarire l'enorme potenza militare della Cina. Per la prima volta, l'Esercito Popolare di Liberazione ha mostrato pubblicamente la sua triade nucleare completa: missili con capacità nucleare su terra, mare e aria. Tra i nuovi sistemi d'armi che hanno sfilato sul lunghissimo Chiang'an Jie (letteralmente "viale della pace duratura"), il missile balistico intercontinentale DF-61, con raggio stimato di circa 12.000 chilometri e capace di raggiungere qualsiasi obiettivo sul territorio degli Stati Uniti. Ma anche il YJ-17, missile anti-nave ipersonico con testata a planata aerodinamica, che sfida le difese convenzionali, oppure l'AJX-002, drone sottomarino a guida autonoma con potenziale capacità nucleare. Per non parlare dei veicoli con armi laser LY-1, i cosiddetti "lupi robot" e i droni stealth da combattimento. A differenza della parata del 2015, per il settantesimo anniversario della resa del Giappone, erano presenti solo truppe cinesi e tutti mezzi di produzione nazionale. Un messaggio di autosufficienza e innovazione tecnologica rivolto ai rivali ma anche ai partner, potenziali acquirenti di dispositivi militari.
Alla parata erano presenti 26 leader stranieri provenienti da tutte le latitudini: Sud-Est asiatico, Africa, America Latina. Presente anche l'Europa, col presidente serbo Aleksandar Vucic che ha parlato di "amicizia di ferro" tra i due Paesi e il premier slovacco Robert Fico, che espresso sostegno all'iniziativa di governance globale di Xi, nonostante Bratislava sia parte di Unione Europea e Nato che hanno molto criticato l'evento di Pechino. Gli ospiti d'onore erano però (ancora una volta) Putin e il leader supremo nordcoreano Kim Jong-un, che per la prima volta hanno incontrato Xi tutti insieme.
La parata non era volta solo a un'esibizione muscolare, ma aveva anche obiettivi politici. "La Cina punta a plasmare la percezione globale del suo ruolo storico nella Seconda guerra mondiale", dice a Valigia Blu Alicja Bachulska, Policy Fellow dello European Council on Foreign Relations (ECFR). "E lo fa promuovendo una sua visione corretta della Seconda guerra mondiale – un eufemismo per dire che Pechino si sta allineando molto di più a Mosca quando si tratta della sua politica della memoria – e spingendo per un maggiore riconoscimento del suo contributo all'ordine mondiale del dopoguerra". Questo avviene esaltando il ruolo del Partito comunista durante la guerra, anche se fino in quel momento era la Repubblica di Cina del Kuomintang di Chiang Kai-shek a governare e la Repubblica Popolare di Mao Zedong è stata fondata solo nel 1949. Una narrativa funzionale non solo a elevare lo status globale di Pechino, ma anche a legittimare le sue rivendicazioni su Taiwan, la cui "restituzione" dopo la colonizzazione giapponese viene descritta come un pilastro "dell'ordine globale del dopoguerra". La richiesta implicita è evidente: non potete opporvi alla "riunificazione".
L'incontro con Kim
L'ultimo atto della settimana di Xi è stato il bilaterale con Kim, durato poco più di due ore. “Sono pieno di emozione nell’incontrarti di nuovo dopo sei anni” – ha esordito Kim, con una dichiarazione che tradisce non solo il cerimoniale diplomatico, ma anche la necessità per il leader nordcoreano di rinsaldare un legame che negli ultimi anni ha conosciuto parecchi momenti di freddezza. Xi ha risposto sottolineando che la “storica amicizia tra Cina e Corea del Nord non cambierà, indipendentemente dall’evoluzione della situazione internazionale”.
Un messaggio che, se letto tra le righe, suona come una garanzia di sostegno politico e diplomatico, nonostante tutto quanto accaduto negli ultimi anni, a partire dalla formalizzazione dell'alleanza militare tra Pyongyang e Mosca. L’accordo di mutua difesa firmato nel 2024 da Kim e Putin ha previsto l’invio di migliaia di soldati nordcoreani a combattere in Ucraina in cambio di tecnologia militare avanzata. Una scelta che ha preoccupato Pechino, tradizionalmente gelosa nel mantenere la Corea del Nord nella propria sfera d’influenza. L’intesa con la Russia, infatti, rischia di spingere Pyongyang in una direzione che non sempre coincide con gli interessi cinesi. Inoltre, ha favorito il rafforzamento della cooperazione militare tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, che hanno intensificato esercitazioni congiunte e coordinamento strategico, in chiave di deterrenza contro le mosse di Mosca e Pyongyang.
Per Xi, quindi, l’incontro con Kim non è stato solo un gesto di amicizia, ma anche un atto pragmatico: ricucire i rapporti per evitare che la Corea del Nord scivoli troppo vicino all’orbita russa. Ma il bilaterale ha anche un’altra chiave di lettura. Attenzione alle date. Xi è stato il primo presidente cinese a visitare prima la Corea del Sud della Corea del Nord, in cui si è recato solo nel 2018, quasi sei anni dopo la sua ascesa al potere. Ma nel giro di un anno, Xi e Kim si sono incontrati per ben cinque volte. L'ultima volta il 21 giugno 2019, pochi giorni prima dell'ultimo incontro tra Kim e Donald Trump, nella zona demilitarizzata al confine tra le due Coree.
Ebbene, pochi giorni fa Trump ha ricevuto alla Casa Bianca il neo presidente della Corea del Sud, Lee Jae-myung, a cui ha manifestato l’intenzione di riaprire il dialogo con Kim. Non sembra allora un caso che Xi abbia accolto il leader nordcoreano proprio in questo momento: Pechino ha spesso svolto il ruolo di “padrino” nelle aperture diplomatiche di Pyongyang verso Washington, e il fatto che i due leader si siano rivisti subito dopo le dichiarazioni di Trump è interpretabile come un segnale di possibile disponibilità al dialogo. Rispetto al 2018 c'è però una base di partenza diversa: la nuclearizzazione della Corea del Nord è un dato di fatto. E per Kim si tratta di una garanzia di sopravvivenza del regime. Convinzione aumentata dopo i raid contro i siti nucleari in Iran.
A Seul, diversi analisti ritengono che la mossa di Kim sia un test per verificare le reali intenzioni di Pechino e misurare fino a che punto la Cina sia disposta a sostenere una nuova fase negoziale con gli Stati Uniti. Anche per questo la Cina, che non ha mai supportato il riarmo nucleare di Pyongyang (a differenza di Mosca che ha dato di recente un supporto esplicito) ignorare o isolare Kim non è più un’opzione. Il segnale è dunque evidente, sia ai partner sia alla Casa Bianca: la Cina resta il perno delle dinamiche asiatiche, e qualsiasi sviluppo sul dossier nordcoreano dovrà passare da Pechino. Un assioma che Xi vuole sempre più applicare anche a livello globale.