“La zona grigia non è un’anomalia: è il prodotto normale di un sistema disumano”
-Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986-
“Un sistema non si difende perché è giusto, ma perché esiste”
-Michel Foucault –
Ho sempre avuto certezze abbastanza ferme su cosa fosse la vivisezione e la sperimentazione animale. Fin da piccolo, ascoltando le parole della grande astrofisica Margherita Hack, non ho mai avuto dubbi su questa pratica che, oltre ad essere disumana (pur essendo commessa da umani su animali non-umani), è violenta, antropocentrica (si usano animali, quindi terzi, per finalità esclusivamente umane) e dunque assurda. I miei pochissimi dubbi sono stati colmati quando ad esprimersi contro questa pratica furono personalità della scienza medica che non ho mai troppo considerato esempi da seguire, come l’oncologo e fondatore dell’Istituto Europeo di Oncologia Umberto Veronesi. Nonostante moltissime sue posizioni controverse, Veronesi era vegetariano, grande sostenitore dei diritti animali e avversario degli allevamenti intensivi e della sperimentazione animale. Nel libro Una carezza per guarire Umberto Veronesi dedica un denso capitolo, l’ultimo, al tema della sperimentazione animale, auspicando, come il filosofo australiano Peter Singer, l’evolversi di un atteggiamento etico antispecista. Pensando che negli ultimi anni sono stati messi a punto via via diversi metodi sostitutivi di ricerca animal-free e human-based, risultava per lui ingiustificata la ancora ampia utilizzazione di cavie da laboratorio, specialmente per esperimenti che darebbero scarso contributo al progresso scientifico. Partendo da ciò Veronesi richiamava all’urgenza di una legislazione in merito alla sperimentazione animale, al fine di limitare sempre più al minimo, grazie all’utilizzo di tecniche alternative, l’uso di animali da laboratorio e affinchè gli animali di grossa taglia come primati, cani e gatti siano esclusi del tutto da queste pratiche sperimentali.
Le interviste che feci per Pressenza alla biologa Susanna Penco sulla vergogna della vivisezione e della sperimentazione animale, giustificata spesso mediaticamente con la ipocrita e pietistica spettacolarizzazione del dolore umano, mi hanno aiutato a prendere ancor più consapevolezza del grande business che circonda la sperimentazione animale, oltre a chiarificare una volta per tutte che ad oggi rimane una pratica scientifica non convalidata, con grande margine di errore e molto controversa proprio a causa dell’utilizzo di animali molto diversi dall’essere umano.
Però forse più di tutti, ad aiutarmi a fare il punto della situazione su questo grande tema – dal punto di vista filosofico, etico, bioetico ed epistemologico – è stato il recente libro della filosofa e psicologa Federica Nin dal titolo “La zona grigia. Illuminare l’invisibile, riscrivere la responsabilità”, Edizioni Oltre.

Federica Nin, studia da anni il rapporto tra scienza, epistemologia, etica e sperimentazione animale e questo libro è molto di più di una presa di consapevolezza su questa pratica: è un’inchiesta dettagliata su un sistema tecno-scientifico ed economico che normalizza la violenza in nome del sapere, cercando di portare alla luce la “zona grigia” della sperimentazione animale, facendola finalmente uscire dalla cortina delle false informazioni, dei cliché istituzionalizzati della ricerca biomedica, delle false convinzioni, dei silenzi, dei tabù e dell’ignoranza epistemologica – come la definì il bioeticista Franco Manti – di medici, ricercatori e scienziati su questo tema, per svelarne l’orrore, l’inutilità e la nocività, anche per gli umani.
Nelle prime due parti del libro, Nin affronta con chiarezza le tante ipocrisie giuridiche, scientifiche e etiche che consentono ancor oggi il perdurare dell’utilizzo degli animali in laboratorio, a partire dalle famose “3R”: introdotte nel 1959 da Russel e Burch: Replacement (sostituzione), Reduction (riduzione), Refiniment (raffinamento). Esse si presentavano all’inizio come una proposta evolutiva, ma, nel tempo, sono invece divenuti “pilastri di stabilizzazione”, “strumenti retorici” utilizzati per difendere lo status quo (pag. 31).
Oggi sappiamo che questa è la base istituzionale della sperimentazione animale, oltre ad un modo per gli umani di partecipare a pratiche violente senza sentirsi responsabili, rincorrendo falsi miti: giustificazione morale (“per il bene dell’umanità”), il linguaggio eufemistico (“modello animale”), lo spostamento dell’agente morale (“seguivo il protocollo”) e la reificazione della vittima.
Nella sperimentazione animale – scrive Nin – “il dolore si dissolve nella burocrazia scientifica e nelle formule normative: è la violenza che si traveste da cura, è il vivente che scompare sotto il lessico della protezione” (p.27).
L’industria della sperimentazione animale nasconde “una violenza ordinaria, legalizzata, razionalizzata” (p.47) ed istituzionale in nome della “necessità scientifica” attraverso la retorica sacrificale: la pratica sperimentale diventa un rito simbolico in cui ogni animale è il capro espiatorio, mentre la sua sofferenza diventa promessa di salvezza per l’umanità. È la stessa retorica sacrificale alla base del carnismo e alla giustificazione dell’ecatombe di animali tra caccia, macelli e allevamenti intensivi.
“Cambiare paradigma – scrive Nin – significherebbe disinvestire, dismettere, riconvertire” (pag. 82), ovvero porre fine all’economia nociva che sta dietro la sperimentazione animale: i centri di stabulazione, allevamenti intensivi di animali geneticamente modificati, i centri di forniture di gabbie e le aziende produttrici di anestetici, reagenti, calmanti etc. C’è un intero comparto produttivo che trae profitto dall’uso di animali nella ricerca e nella sperimentazione scientifica per un fatturato annuo di 7 miliardi di dollari.
La ciliegina sulla torta è sicuramente il mondo accademico basato che – essendo basato sul principio “publish or perish” – premia la quantità di pubblicazioni più che la qualità della ricerca. In molti settori biomedici, i protocolli standardizzati basati su modelli animali sono ancora la via più rapida per produrre dati pubblicabili. Un problema strutturale in quanto gli stessi indicatori di eccellenza scientifica premiano l’adesione al paradigma, non la sua messa in discussione.
Si tratta di un’economia che trae profitto garantendo la continuità del sistema.
Nelle due ultime parti del libro, Nin offre gli strumenti cognitivi, culturali, scientifici e etici per “disinnescare la zona grigia”: a partire dalla nostra responsabilità interspecifica, che dovrebbe farci aggiungere una quarta R alla formula delle 3R, quale “responsabilità”, passando per un cambio di sguardo e di prospettiva, per arrivare ad affermare con chiarezza e certezza che oggi è non solo possibile, ma doverosa, una sperimentazione non basata sugli animali.
I metodi human-based non solo esistono, ma stanno producendo risultati – chi più chi meno – più accurati, affidabili e rilevanti per l’essere umano. Scrive Nin: “Resta da compiere l’ultimo gesto: pensare l’impensabile: pensare che si possa fare ricerca senza sacrificare, in modo coatto, corpi non consenzienti. Pensare che la scienza possa fiorire senza vittime. Pensare che la cura possa nascere dal rispetto, non dal dominio. Pensare che l’essere umano non sia il centro, ma un nodo tra i molti. Pensare che un’altra scienza sia non solo possibile, ma urgente”. (pag. 67)
“Questi metodi si basano su un principio semplice: studiare l’essere umano nel rispetto della sua complessità, non cercando il suo riflesso semplificato in altre specie. I vantaggi sono molteplici: maggiore predittività clinica, risultati riproducibili e trasparenti, rispetto del vivente come valore strutturale della ricerca” (pag. 91).
Il libro di Federica Nin è una lettura utile e necessaria per essere più consapevoli, oltre ad essere uno strumento indispensabile per chi già sente l’angoscia morale della sperimentazione animale, ma teme che non vi siano alternative: le alternative valide e efficaci già esistono; i ricercatori obiettori di coscienza sulla sperimentazione animale già esistono, sebbene continuino ad essere marginalizzati , sottovalutati e sottofinanziati. Secondo Nin, l’antidoto è diffondere una cultura diversa, contro le lobbies di potere economico-finanziario, contro l’autoreferenzialità accademica e contro le pigrizie mentali di sistema.