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Dai manicomi ai centri di detenzione: la lunga marcia di Marco Cavallo contro la detenzione

A Brindisi, il doppio “cavallo blu” di Basaglia sfida il confine adriatico

Simbolo della liberazione dei manicomi psichiatrici nell’Italia degli anni Settanta, Marco Cavallo, il celebre “cavallo blu” di Trieste, è tornato in cammino il 6 settembre scorso, a cinquant’anni dalla sua creazione. Il suo viaggio lo ha condotto fino alla punta meridionale dell’est della penisola, a Brindisi, di fronte all’Adriatico guardando idealmente verso la costa di arrivo delle persone deportate in Albania, a ridosso del centro di detenzione extraterritoriale costruito dal governo italiano a Gjadër. Tra memoria e resistenza, il suo passaggio in Puglia ha riacceso la lezione di Basaglia: finché esiste un lager, non può esserci cura.

È proprio in questi termini che Franco Basaglia descrive i manicomi, a partire da quello di Gorizia, nel quale entrò per dirigerlo il 16 novembre 1961, affermando: «Questo qui è un lager e finché c’è un lager nessuna terapia è possibile». Da quel momento in poi, il suo operato rappresentò una cesura netta con quanti speravano che si trattasse di istituzioni migliorabili o normalizzabili, come lui stesso aveva provato a credere e persino iniziato a fare agli inizi del suo percorso, per poi rendersi conto che qualsiasi tentativo di rendere quei luoghi tollerabili o ‘vivibili’ equivaleva in realtà a mantenerne la funzione repressiva, una negazione della vita e della possibilità di trovare pace nell’arco dell’esistenza delle persone sottoposte alla reclusione.

Per loro, e insieme a loro, Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro si sono battuti per tutta la vita contro l’istituzione totale (riprendendo il concetto sviluppato nelle teorie esposte dal sociologo canado-statunitense Erving Goffman, in particolare nel testo “Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates”, pubblicato a New York nel 1961 e tradotto per la prima volta in lingua italiana nel 1968 da Franca Ongaro, con la collaborazione e il testo introduttivo del marito), lasciando un’eredità avanguardista che ora galoppa spedita attraverso la penisola, nella pancia e sulle zampe di Marco Cavallo. È stato un viaggio lungo e faticoso, il suo, attraversando i principali luoghi di reclusione italiani, da Gorizia fino a Brindisi e Bari, dove il suo percorso iniziato oltre un mese prima si conclude in concomitanza con la Giornata mondiale della salute mentale, celebrata in tutto il mondo il 10 ottobre di ogni anno.

Le ultime tappe dell’itinerario di Marco Cavallo lo portano oggi a Brindisi per proseguire alla volta di Bari dove è atteso per la conclusione in “grand finale”. Due porti strategici dell’Europa meridionale affacciati sull’Adriatico e, in particolare sull’Albania: è proprio lì, sull’altra sponda del mare, che l’attuale governo italiano sfrutta la lunga coda della propria posizione dominante, o meglio di una proiezione nutrita di ideologia neocoloniale come accuratamente descritta dall’antropologo internazionalista di origine albanese Fabio Bego, spingendo al limite più estremo, sia dal punto di vista geografico che politico-amministrativo, la sperimentazione legata all’esternalizzazione delle frontiere in regime di detenzione, alimentando i continui decreti-legge con la paura propagandistica e preparando il terreno alla replica del modello verso i paesi terzi su scala europea.

Il porto di Shëngjin, nel nord dell’Albania, dove è stato costruito un primo centro sul modello degli «hotspot» presenti sul territorio italiano. Foto: Nicolas Lesenfants Ramos.

A Gjadër e Shëngjin, nel nord dell’Albania, i nuovi centri ispirati ai CPR italiani (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), avamposti di una politica unionale europea che sostituisce in maniera crescente la reclusione all’accoglienza, che esternalizza la propria coscienza insieme ai sistemi di controllo e ai respingimenti, mentre prepara la riforma del regime previsto dalla “direttiva rimpatri” (direttiva 2008/115) stanno per compiere un anno dai primi trasferimenti coatti, la maggior parte dei quali hanno avuto origine proprio dal porto di Brindisi.

Arrivare qui non può mai essere una casualità, né un mero passaggio, bensì un incontro/scontro tra la promessa di libertà e la macchina implacabile dell’internamento, nel cuore della geografia dell’esclusione. Raggiungendo la sponda più stretta dell’Adriatico, Marco Cavallo trasporta nella sua carcassa blu tutte le voci incontrate lungo il cammino: quelle delle persone trattenute nei centri, degli individui in movimento, delle voci artistiche, delle mani artigiane e della cittadinanza, insieme a tutti coloro pronti a credere ancora che l’immaginazione possa abbattere i muri là dove la politica li erige.

Manifestazione con Marco Cavallo davanti al centro di detenzione amministrativa (CPR) di Restinco, Brindisi, l’8 ottobre 2025. Foto: Anna Lodeserto.

Un simbolo nato in un manicomio, ma pronto a chiuderlo

Marco Cavallo è nato nell’ospedale psichiatrico del Parco di San Giovanni di Trieste, non come un essere vivente, ma come un atto d’immaginazione collettiva. Pazienti e artisti lo crearono sotto la guida dello psichiatra Franco Basaglia, figura chiave della riforma psichiatrica italiana. Il suo nome è associato a quello di un vero cavallo che all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso trasportava biancheria e viveri all’interno del manicomio, visto dalle persone in stato di reclusione come l’unico essere vivente libero e autorizzato a entrarvi. Quando il cavallo rischiava di essere abbattuto, pazienti e operatori si mobilitarono per salvarlo e per ottenere che restasse a riposo nelle vicinanze. Si trattò di un gesto di resistenza in un luogo pensato per negare l’umanità e proprio da quella rivolta nacque un cavallo gigantesco in cartapesta, abbastanza grande, come spiegavano i pazienti che avevano contribuito a crearlo, per poter “contenere tutti i nostri sogni”.

Il 25 febbraio 1973, quando il cavallo varcò per la prima volta le porte del manicomio e avanzò per le strade di Trieste, più di cinquecento persone lo accompagnarono in giubilo e ricerca di libertà. Fu “l’inizio della fine” dei manicomi italiani, un momento storico di gioiosa esplosione, un grido collettivo di libertà e dignità a cielo aperto. Cinque anni più tardi, la legge 180, detta legge Basaglia, avrebbe contribuito ad avviare il lungo processo per l’abolizione dei manicomi in Italia. Più che una riforma della salute mentale, tale legge rappresentò un autentico manifesto di umanità e progresso e sancì un impegno collettivo concreto per la libertà e la responsabilità sociale.

L’eredità di Franco Basaglia oggi

Durante la sua vita, e anche dopo la morte, Franco Basaglia (1924–1980) sconvolse la visione dominante della follia. Per lui, quello che ancora oggi viene definito “malattia mentale” non era una devianza di carattere individuale, ma il sintomo di una società in stato di profonda sofferenza segnata dalle dinamiche di esclusione, dalla povertà, dalla discriminazione e dall’ingiustizia sociale. Sulla scia del quadro teorico sviluppato da Goffman e sull’esperienza diretta avviata inizialmente nel nord-est dell’Italia per poi essere esposta in tutto il mondo (in particolare in Brasile), Franco Basaglia ha denunciato per tutta la vita un sistema in cui manicomi, carceri e, oggi, centri di detenzione obbediscono alla stessa logica: rinchiudere chi disturba la società.
Decenni dopo, questa visione illumina ancora l’azione di psicologi, attivisti e organizzazioni della società civile che sostengono il viaggio di Marco Cavallo nei CPR. Tali centri, creati per trattenere le persone migranti ‘colpevoli’ di non possedere un pezzo di carta, incarnano oggi l’espressione più attuale di quella cultura della paura, della repressione e della punizione ereditata dall’epoca pre-Basaglia. Si tratta di luoghi che prolungano un sistema di controllo e violenza mai del tutto scomparso tanto da essere ora persino esportabile, come sta accadendo in via sperimentale nella provincia di Lezhë, nel nord dell’Albania.

 

 

 

 

Il centro di detenzione di Gjadër, nella provincia di Lezhë, nel nord dell’Albania, visto dall’alto. Foto: Nicolas Lesenfants Ramos.

Dalla rivoluzione della psichiatria al superamento definitivo della detenzione amministrativa

Cinquanta anni dopo, Marco Cavallo è tornato in cammino, più deciso e rapido che mai. Nell’ambito della campagna promossa, tra gli altri, dal Forum Salute Mentale, dalla rete Mai più lager – No ai CPR, dalla SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, dalla Brigata Basaglia e dall’Associazione 180amici Puglia, l’iniziativa Il viaggio di Marco Cavallo nei CPR s’inserisce in un impegno collettivo per denunciare l’internamento e rivendicare la chiusura dei centri di detenzione amministrativa. Dopo aver aperto la strada e denunciato l’umanità negata negli ospedali psichiatrici giudiziari, oggi attraversa una nuova generazione di istituzioni invisibili, permeate di violenza strutturale e razzismo istituzionale.

Da Trieste a Brindisi, passando per Milano, Roma e Potenza, ogni tappa del viaggio di Marco Cavallo ha dato vita ad assemblee pubbliche, performance artistiche e letture di lettere indirizzate alle persone detenute. A Brindisi, due cavalli blu — uno giunto da Trieste e l’altro, chiamato ‘Cavallina terrona’ per sottolineare il suo radicamento nel Sud d’Italia e del mondo, proveniente dal Centro Sperimentale Pubblico per lo Studio e la Ricerca sulla Salute Mentale Comunitaria “Marco Cavallo” di Latiano (BR) — hanno guidato una manifestazione che ha riunito artisti e associazioni, tra cui l’Associazione 180amici Puglia APS e la rete NO CPR Brindisi. Inserita nella campagna nazionale per la salute mentale e la giustizia sociale “180 Bene Comune”, l’iniziativa ha denunciato condizioni di vita allarmanti: isolamento prolungato, sofferenza psichica, uso sistematico di psicofarmaci per soffocare il disagio. Artisti, operatori e attivisti, seguendo Marco Cavallo nelle sue uscite pubbliche e nelle traversate da un territorio all’altro, hanno lanciato a gran voce un appello collettivo per la chiusura definitiva di tutti i CPR e la difesa incondizionata dei diritti delle persone migranti.

 

I due cavalli blu davanti al centro di detenzione di Restinco durante la manifestazione dell’8 ottobre 2025. Foto: Stefano Penta.

La tappa di Brindisi assume un significato particolare nel quadro generale della campagna, poiché il CPR locale è il più vicino al centro di Gjadër, in Albania, situato a meno di duecento chilometri in linea d’aria. Numerose persone migranti espulse da Brindisi sono state trasferite via mare sotto scorta militare, illustrando la dimensione transnazionale del sistema di detenzione italiano. È infatti dal porto di Brindisi che, nel mese di aprile scorso, sono partiti i primi convogli militari dei trasferimenti coatti diretti verso le nuove strutture albanesi istituite in applicazione del decreto-legge 37/2025. Le persone sono in stato di reclusione in maniera indeterminata e per durata indefinita con il pretesto di essere in possesso di un documento scaduto o di aver smarrito anche quello mostrando, nel frattempo, il vero volto di una feroce politica europea di esternalizzazione delle frontiere e di rafforzamento istituzionale della detenzione amministrativa. Tale sistema riproduce sotto nuove forme e con mezzi rafforzati la logica dei vecchi manicomi psichiatrici, pretendendo di proteggere la società dalle proprie paure propagandistiche in nome di una supposta legalità nell’accezione già denunciata da Luca Rastello nel suo libro ancora attuale “La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani” e nel testo altrettanto significativo “I feticci della legalità e della memoria”.

Un viaggio di resistenza e memoria accompagnato da arte e teatro

Nel piccolo spazio di fronte a uno degli ingressi del centro di detenzione di Restinco, i partecipanti hanno letto ed esposto attraverso i propri corpi i nomi delle cinquanta persone morte nei CPR dal 1998 a oggi, osservando poi cinque minuti di silenzio in loro memoria. Le ‘bandiere di stracci’ cucite con tessuti di recupero sventolavano al vento come in tutte le altre tappe precedenti, riproducendo ancora una volta la metafora poetica di una dignità ricucita che sopravvive nelle condizioni più ostili e oppressive.
Dopo la visita, le persone partecipanti sono rimaste all’esterno, davanti all’ingresso principale del centro, in attesa della conclusione della missione di monitoraggio del deputato Claudio Stefanazzi, vicepresidente della commissione bicamerale del Parlamento italiano per le questioni regionali, che ha dichiarato: «Ho avuto l’onore di guidare nuovamente la delegazione incaricata di ispezionare il CPR di Restinco. I CPR, nati come strutture di transito, sono ormai diventati luoghi di detenzione dove le persone trattenute restano in balia di un sistema di burocrazia insensata, vittime di una repressione che fa della criminalizzazione della migrazione uno strumento di potere, fino a esportarlo oggi in Albania».

All’esterno, anche i due cavalli blu attendevano, incarnando il grido collettivo contro i luoghi di disumanizzazione e criminalizzazione dei migranti. Sono poi rientrati a Latiano, prima che nel pomeriggio un corteo animato e variegato in quanto a partecipazione si dispiegasse per le strade del centro di Brindisi, mescolando impegno civico, memoria storica ed espressione artistica.
Attorno al cavallo blu, diverse iniziative hanno poi continuato ad animare il centro di Brindisi, intrecciando mostre fotografiche, spettacoli teatrali e dibattiti pubblici, tessendo legami tra salute mentale, migrazione e diritti umani con un messaggio molto chiaro: l’internamento è la sconfitta morale dell’Europa, ma è ancora possibile invertire la rotta.

Un momento della messa in scena dello spettacolo teatrale «Reietti. Come creammo i CPR». Foto: Helga Bernardini.

Nell’auditorium dello Spazio Culturale Yeahjasi Brindisi, lo spettacolo teatrale “Reietti. Come creammo i CPR”, scritto e diretto da Oscar Agostoni in collaborazione con Disturbi Teatro, ha arricchito la programmazione della prima tappa pugliese attraverso un monologo ben documentato e intenso dal punto di vista dei dettagli e dell’esplorazione narrativa che ha guidato il pubblico nell’ulteriore comprensione delle condizioni all’interno dei CPR italiani, ricordando tutti i decessi avvenuti dal 1998 al loro interno e sostenendo la richiesta delle numerose organizzazioni della società civile presenti in sala che si battono per la loro immediata abolizione.

Negli stessi spazi di via di Santa Chiara, nel centro storico di Brindisi, è stata presentata la mostra fotografica “The Adriatic Guantánamo ~ La Guantanamo Adriatica”, con gli scatti di Nicolas Lesenfants Ramos che hanno guidato il pubblico nell’esplorazione diretta dei centri di detenzione di Gjadër e Shëngjin costruiti dal governo italiano in Albania. Inizialmente esposta alla House of Compassion di Bruxelles, la mostra e il lavoro giornalistico che la accompagna collegano la mobilitazione italiana a quella della rete transnazionale contro la detenzione amministrativa “Network Against Migrant Detention” e l’inquietante prossimità tra il CPR di Restinco, situato alla periferia di Brindisi, e quello di Gjadër, sull’altra sponda dell’Adriatico.

Riprendere l’eredità di Franco Basaglia difendendo la dignità senza frontiere

Difendere e proseguire nel solco dell’eredità di Basaglia oggi equivale a riconoscere il fatto concreto che la dignità non possa essere limitata da frontiere e che nessun individuo debba essere nascosto o rinchiuso per la propria singolarità, fragilità o provenienza geografica.
Come ricordava Basaglia, la libertà è terapeutica. Nella sua galoppata decisa, il cavallo blu rinnova questa lezione: la libertà non è un luogo da raggiungere, ma un modo di abitare il mondo, un atto vivente, rinnovato a ogni incontro, a ogni gesto di coraggio, a ogni fragile alleanza. Prosegue così il percorso di Marco Cavallo, creatura apparentemente fragile ma a suo modo invincibile, lungo il cammino della dignità individuale e collettiva.

Anna Lodeserto

Fonte
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