È passato un anno da quando, il 5 agosto del 2024, la prima ministra del Bangladesh, Sheikh Hasina, si è dimessa ed è fuggita in India al culmine di una rivolta studentesca che ha visto la più ampia partecipazione femminile della storia del paese.
Gli studenti protestavano da più di un mese per porre fine al sistema di quote che riservava un terzo dei posti di lavoro governativi a specifiche fasce della società, tra cui i parenti dei veterani della guerra d'indipendenza del 1971 dal Pakistan. Secondo i manifestanti, si trattava di un favore che la prima ministra faceva a chi la sosteneva, sottraendo di fatto posti di lavoro a tanti studenti laureati che invece rimanevano disoccupati. Le proteste erano arrivate in un contesto di corruzione e capitalismo clientelare che avevano devastato il sistema finanziario del Bangladesh.
Un cambio di potere in Bangladesh “era una questione di quando, non di se”, spiegava Lutfey Siddiqi, visiting professor-in-practice alla London School of Economics, all’indomani della fuga di Hasina. I giovani che hanno guidato le proteste sono la “risorsa naturale principale del paese che possono facilmente trasformarsi in una passività senza lavoro, speranza o rappresentanza”, aveva osservato Siddiqi. Oltre il 40% degli abitanti del Bangladesh di età compresa tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro né un'istruzione. Questo, unito alla persistente inflazione e ad altri problemi economici, aveva creato “una polveriera economica che stava semplicemente aspettando una scintilla”.
La mobilitazione studentesca ha portato alla formazione di un governo provvisorio guidato dal premio Nobel per la Pace, Muhammad Yunus, che in un contesto caratterizzato da equilibri politici e di potere molto precari, ha provato a stabilire una tabella di marcia per una maggiore stabilità del paese.
Il 5 agosto, durante le celebrazioni per le proteste dello scorso anno, Yunus ha parlato di questa tabella di marcia per le riforme democratiche e ha annunciato nuove elezioni per febbraio 2026, prima del Ramadan. “Insieme costruiremo un Bangladesh dove la tirannia non potrà mai più sorgere”, ha detto Yunus in un messaggio alla nazione.
Durante le celebrazioni, Yunus ha anche letto formalmente la Dichiarazione di luglio, un documento di 28 punti che punta a dare riconoscimento costituzionale alla rivolta studentesca del 2024. Il presidente ad interim ha anche detto che i processi contro i responsabili delle uccisioni del luglio 2024 stanno procedendo rapidamente e che il suo governo provvisorio ha avviato riforme radicali.
Le parole di Yunus sono state accolte con favore dai partecipanti alle celebrazioni, che vedono la carta come una base per una riforma istituzionale, anche se non tutti sono soddisfatti di come ha lavorato il governo provvisorio in questo anno. “Anche dopo tutto lo spargimento di sangue e i sacrifici, una democrazia veramente liberale in Bangladesh sembra ancora un sogno lontano”, ha detto Sabbir Ahmed, uno studente universitario che ha partecipato alle proteste dello scorso anno. L’impatto della Dichiarazione di Luglio potrebbe essere in gran parte simbolico, in assenza di un quadro giuridico o di un consenso parlamentare.
Timori condivisi anche da buona parte delle tante donne e ragazze che hanno partecipato alle manifestazioni dello scorso anno e hanno resistito alla repressione delle forze dell’ordine che aveva portato alla morte di centinaia e centinaia di persone. La loro presenza è diventata l’immagine simbolo di una protesta senza precedenti nella storia recente del Bangladesh.
Tuttavia, come raccontano al Guardian alcune protagoniste delle proteste dell’anno scorso, molte donne continuano a sentirsi inascoltate. “Durante la rivolta, abbiamo visto le donne bangladesi svolgere un ruolo estremamente attivo e potente. Da allora, però, sono state sistematicamente emarginate”, spiega Samanta Shermeen, recentemente eletta coordinatrice senior del National Citizen Party. “Se non riusciamo a dare alle donne il rispetto e il riconoscimento che meritano, la rivoluzione sarà stata inutile”.
Le proteste avevano generato una speranza di cambiamento rispetto alle tante disuguaglianze e ingiustizie presenti nella società bangladese. Ma a un anno di distanza, il movimento studentesco bangladese si è frammentato e l'ottimismo sta svanendo.
“È grazie alle donne che il movimento è diventato una rivoluzione popolare. Senza le donne, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile”, racconta Umama Fatema, studentessa dell'Università di Dhaka e fino a poco tempo fa portavoce di Students Against Discrimination, l'organizzazione che ha guidato la rivoluzione studentesca. Ma invece di affrontare “le questioni importanti sulla governance, la responsabilità e i diritti delle donne, sollevate dal movimento studentesco”, prosegue Fatema, “buona parte degli attivisti ha preferito concentrarsi sulla costruzione dei propri percorsi politici”. L'atmosfera all’interno del movimento è diventata così tossica che la partecipazione delle donne ha cominciato rapidamente a diminuire.
E quanto sta accadendo nel movimento è solo un riflesso dell’inazione del governo provvisorio in generale. “Questioni come lo stupro e le molestie sessuali non ricevono la dovuta attenzione da parte dello Stato perché, all'interno dell'attuale struttura di potere del Bangladesh, le donne sono ancora considerate secondarie”.
Quando nel 2024 sono scoppiate le proteste studentesche, Triaana Hafiz, modella transgender, aveva sperato in un paese con meno discriminazioni. “Il motto principale della rivoluzione era che non ci sarebbe stata più discriminazione”, spiega Hafiz. “Non sono così ingenua da pensare che questo valesse automaticamente anche per me. Ma speravo che questa generazione più giovane di leader sarebbe stata più tollerante e inclusiva”, spiega. E invece “nell'ultimo anno la discriminazione è peggiorata, con i politici che diffondono apertamente l'odio transfobico”. Il nuovo governo provvisorio dovrebbe inserire i diritti delle persone con identità di genere diverse nelle nuove leggi e nelle riforme.
Non va meglio per i diritti delle comunità indigene. “C'è ancora molto lavoro da fare, ma come priorità dobbiamo garantire che in Bangladesh prevalga lo Stato di diritto, con un governo aperto e democratico che sia responsabile nei confronti di tutti i cittadini”, afferma la difensora dei diritti degli indigeni Rani Yan Yan proviene dalle Chittagong Hill Tracts (CHT) nel sud-est del Bangladesh, da decenni teatro di conflitti etnici, violenze da parte dell'esercito e dei coloni bengalesi, sfollamenti e tensioni.
La regione ha da tempo una significativa presenza militare, collegata alla soppressione dei diritti degli indigeni e a violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni, sparizioni forzate, confisca di terre e violenze sessuali nei confronti di donne e ragazze indigene. Nel 2018, Yan Yan è stata picchiata violentemente da membri delle forze di sicurezza mentre aiutava due ragazze della sua comunità che avevano subito violenze sessuali. “Il governo provvisorio deve porre immediatamente fine alla cultura dell'impunità che persiste da tempo nelle Hill Tracts”, spiega Yan Yan.
“La gente si aspettava una giustizia rapida, ma il processo è troppo lento”, afferma. “Tutto questo parlare di riforme e giustizia per i morti nelle manifestazioni ora sembra solo una promessa vuota”, spiega ancora Umama Fatema. Tutto questo ha portato a una crescente frustrazione dell'opinione pubblica.
A maggio, migliaia di persone hanno partecipato alla Marcia delle donne per la solidarietà, chiedendo al governo di adottare misure per garantire i diritti e la sicurezza delle donne.
“Essere donna in Bangladesh significa ancora lottare per il proprio posto, che sia a casa, sul posto di lavoro o nella comunità”, osserva Shompa Akhter, da 20 anni impiegata nell'industria tessile del Bangladesh. Akhter lavora per tante ore e guadagna circa 15.000 taka (poco più di 100 euro) al mese, una cifra che non basta per mantenere la sua famiglia.
“Il costo di tutto è aumentato - riso, lenticchie, verdure, petrolio e gas - ma i nostri salari non hanno tenuto il passo”, dice Akhter. “Le tasse scolastiche dei miei figli sono una preoccupazione costante. Saltiamo i pasti nutrienti per poterci permettere di pagarle. Spesso devo chiedere soldi in prestito alla famiglia o agli usurai solo per arrivare a fine mese”.
Akhter ha recentemente partecipato a una manifestazione per chiedere salari più alti e migliori condizioni di lavoro per i 4,4 milioni di lavoratori dell'industria dell'abbigliamento del Bangladesh, nella maggior parte donne. Il settore dell'abbigliamento contribuisce all’economia nazionale con circa l'82% delle entrate totali da esportazione.
“Noi lavoratori dell'industria dell'abbigliamento manteniamo in funzione le fabbriche eppure veniamo trattati come merce usa e getta. Ma la nostra voce conta e chiediamo salari che riflettano il nostro lavoro e ci permettano di vivere con dignità”, afferma Akhter. “Il governo deve portarci al tavolo delle trattative. Le donne devono essere coinvolte a tutti i livelli del processo decisionale se vogliamo un cambiamento reale e duraturo in Bangladesh”, conclude. "Il mio sogno è che le mie figlie crescano in un paese dove non debbano lottare solo per essere ascoltate.