Al tempo della “drammatica dismisura della guerra globale” e alla luce degli ultimi fatti accaduti ieri con lo sgombero del Leoncavallo – in quel di Milano, proponiamo questa breve riflessione di Giso Amendola, con la quale si pone una domanda fondamentale che, ora più che mai nell’epoca dello Stato-crisi, i movimenti di lotta dovranno affrontare nella loro pratica conflittuale:”cosa significa far politica efficacemente dopo la fine di tutte le mediazioni?”[accì]
Ragionare in termini di regime di guerra significa riuscire a connettere il caos sistemico degli spazi globali con le condizioni in cui si fa politica negli spazi metropolitani, l’orizzonte macro con l’azione micro, in una situazione in cui non vige più nessuna logica ordinatamente “scalare”.
In questo senso, non è affatto un’esagerazione connettere al regime di guerra attacchi significativi delle destre come quello concretizzatosi nello sfratto del Leoncavallo (del resto, le reti antiautoritarie hanno da subito connesso regime di guerra e logica autoritaria interna).
In questo senso, mi pare piuttosto dispersiva l’indagine sulle responsabilità nella circostanza dell’amministrazione milanese (quelle storiche sul contesto sono del resto evidenti), il gioco sul sapeva/non sapeva.
Va invece posta – anche a partire da questa contingenza – la domanda essenziale che ha molto a che fare con il salto d’epoca costituito da regime di guerra/nazionalismo/avanzata delle nuove destre, domanda che si può sintetizzare così: cosa significa far politica efficacemente dopo la fine di tutte le mediazioni?
La fine delle mediazioni evidentemente non è un nuovo gioco teorico: lo stato-crisi lo vedi anche nel micro, nell’inesistenza di rapporto tra amministrazioni e pezzo di amministrazione, nel costituirsi e rompersi “senza logica” dei tavoli di contrattazione, nella contingenza che appare quasi-caotica del comando.
Dalle geografie globali alle geometrie metropolitane, la fine della mediazione segna il tempo “post/egemonico”.
Ma per chi lotta, cosa significa passare dal tempo in cui lottare poteva significare criticare e rompere le mediazioni irrancidite, al tempo in cui sembra essere finito solo e proprio sulle spalle di chi cerca di riaprire processi di emancipazione l’onere di immaginare nuove, “impossibili”, inedite capacità di mediazione, di durata, di “nuova misura”, al tempo della drammatica dismisura della guerra globale.