Salta al contenuto principale

Due morti, una sola sconfitta

Il 6 agosto, nel carcere di Gazzi a Messina, Stefano Argentino si è tolto la vita. Era detenuto con l’accusa di aver ucciso, il 31 marzo scorso, Sara Campanella, aggredita e accoltellata all’uscita dell’università. Un delitto avvenuto in pieno giorno, nel cuore della città, nei pressi di un luogo di formazione e pertanto simbolo di conoscenza, libertà, futuro. Messina ne è rimasta sconvolta, colpita nella sua identità di città universitaria, di luogo che avrebbe dovuto essere sicuro, accogliente, vitale.

Sara è stata uccisa a 22 anni da un suo coetaneo che conosceva e che aveva mostrato segnali di ossessione e controllo: era suo compagno di studi, non era uno “sconosciuto”. E Sara era una ragazza dentro una rete fitta, silenziosa e sistemica: quella della violenza di genere. Non l’abbiamo protetta. Come accade troppo spesso, non abbiamo letto i segnali, non abbiamo costruito una rete di prevenzione e sostegno sufficiente. Non è stato solo Stefano a fallire: è stato anche il contesto che lo ha lasciato agire.

La morte di Stefano ha suscitato un’ondata emotiva di reazioni sui social e molte sono state di esultanza. Ma dietro l’apparente liberazione collettiva, dietro la fine prematura del “carnefice”, non c’è giustizia. C’è solo una nuova ferita. C’è solo una seconda sconfitta.

Come ricorda Stefania Prandi, nel libro “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta”, ‘Quando una donna muore per mano di un uomo non viene distrutta soltanto una vita…’, sottolineando quanto il trauma del femminicidio si estenda ben oltre la donna uccisa, penetrando nella quotidianità di chi resta — figli, genitori e fratelli. Quando si parla di chi resta si pensa anche a figli, genitori e fratelli del femminicida. La morte di Stefano, avvenuta poco prima dell’inizio del processo, ha interrotto il percorso giudiziario, ha cancellato la possibilità per i familiari di Sara di guardare in faccia la verità e ha impedito allo Stato di rendere giustizia attraverso il diritto, non attraverso l’abbandono.

Il carcere non è solo un luogo di detenzione. È o dovrebbe essere un presidio di responsabilità collettiva, anche per chi ha commesso reati gravissimi. Quando un detenuto si suicida, lo Stato fallisce. Quando la società esulta, falliamo tutti. Chi applaude alla morte del colpevole dimentica che la giustizia non serve ai morti, ma ai vivi. Serve a stabilire verità, responsabilità, riparazione. Serve a insegnare, anche ai colpevoli, che la violenza non è accettabile. Quando ci limitiamo ad augurare la morte a chi uccide, riproduciamo la stessa logica che vorremmo condannare: una logica binaria, spietata, incapace di vedere l’essere umano.

Non esiste una giustizia fatta di vendetta. Esiste solo la giustizia come atto di civiltà, come processo condiviso, come limite alla barbarie. Quando muore l’autore di un femminicidio, non è il cerchio che si chiude. È il sistema che si spezza. Il femminicidio non è un raptus. Non è un caso isolato. È l’espressione finale di una cultura che tollera, giustifica, banalizza la violenza maschile contro le donne. Una cultura che cresce in famiglia, nella scuola, nei tribunali, nei media.

Se rispondiamo con la stessa violenza, esultando per il suicidio di un uomo, non stiamo combattendo quella cultura. Stiamo solo cambiando bersaglio. Ma l’odio resta. Il femminicidio è un crimine sistemico e come tale, coinvolge tutti: uomini e donne, genitori e figli, insegnanti e operatori, giudici e giornalisti. Non possiamo pensare di uscirne col pugno di ferro, con la morte in carcere, con la gogna pubblica. Dobbiamo entrarci, sporcarci le mani, chiederci dove e quando avremmo potuto fare qualcosa di diverso. E poi iniziare a farlo.

La morte di Sara Campanella è una tragedia che non doveva accadere. Il suicidio di Stefano Argentino è un’altra tragedia che si poteva evitare. La prima è colpa della violenza maschile e della mancanza di prevenzione. La seconda è colpa di un sistema penale che punisce ma non cura, che isola ma non ascolta.

Entrambe le morti sono anche una responsabilità collettiva. Di una comunità che non ha ancora compreso che la violenza di genere non si estirpa con l’odio, né con la sola logica punitiva.

Si contrasta con l’educazione, con la consapevolezza di sé e degli altri, con la prevenzione e la trasformazione culturale.

Venera Leto

Fonte
https://www.pressenza.com/it/feed/