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Trump e il partito repubblicano hanno dichiarato guerra alla democrazia americana

“Gli Stati Uniti oggi sono diventati un sistema autoritario competitivo, con un’enfasi sempre più marcata sulla componente autoritaria”. Lo ha scritto Don Moynihan, professore di scienze politiche all’Università del Michigan, analizzando le mosse con cui il presidente Donald Trump ha rafforzato il potere esecutivo nei mesi seguiti all’insediamento. Controllo diretto sulla burocrazia, licenziamento di funzionari pubblici, cause legali contro università, a cui sono stati cancellati milioni di dollari in fondi per la ricerca, e media, come già abbiamo raccontato su Valigia Blu.

A tutto questo nell’ultimo mese si è aggiunto un utilizzo massiccio della Guardia Nazionale, prima inviata a Los Angeles per porre fine alle proteste contro l’ICE, la polizia alle dirette dipendenze del Ministero per la Sicurezza Nazionale che si occupa di incarcerare i migranti irregolari, e poi a Washington, con la scusa del crimine fuori controllo: inoltre, Trump minaccia di inviare reparti texani della Guardia Nazionale anche a Chicago, sempre per via di presunti tassi elevati di criminalità. Sono tutte città governate da un’amministrazione democratica. Inoltre, ha deciso con un ordine esecutivo di cambiare il nome del dipartimento della Difesa in dipartimento della Guerra: una nomenclatura non più in auge dalla fine della seconda guerra mondiale che ha come unico obiettivo quello di proiettare un’immagine di potenza. Non potrebbe farlo, dato che solo il Congresso ne ha facoltà: per ora, infatti, rimarrà un nome secondario in attesa che il cambio venga approvato in Campidoglio. 

Il modo in cui Trump è riuscito così velocemente a ottenere un controllo così capillare è l’utilizzo di poteri da lui stesso definiti “emergenziali”. Oltre all’invio della Guardia Nazionale per contrastare l’emergenza criminalità, che non è evidenziata dai dati, ha definito l’arrivo di migranti senza documenti sul suolo statunitense un’“invasione”, avocando a sé poteri emergenziali per combatterla, e ha giustificato l’imposizione di nuovi dazi su molti paesi del mondo, sopravanzando il Congresso, l’unico organismo che si dovrebbe occupare del tema, per via di non precisati “straordinari fattori”. È chiaro che se tutto diventa emergenza, i poteri che il Presidente ottiene sono sempre maggiori, rompendo ogni convenzione costituzionale su ciò che può o non può fare: non solo un tentativo di interpretare aggressivamente i poteri presidenziali, ma l’accumulo nella sua figura di prerogative che apparterrebbero al Congresso. Trump ritiene che l’Articolo II della Costituzione, che pone il potere esecutivo nella figura del Presidente, gli dà la possibilità di agire senza contrappesi, e inoltre si appella spesso al fatto di essere “un presidente eletto democraticamente”, come se la legittimità democratica lo investisse di un potere assoluto.

Dopo mesi di difficoltà nel comprendere il fenomeno Trump, e un secondo mandato dai toni molto più oscuri rispetto al primo, sta nascendo un’opposizione concreta alla presidenza, sia dal punto di vista legale che prettamente politico. L’apporto di avvocati e attivisti, ancor prima dei politici di opposizione, è stato fondamentale fin dall’inizio della presidenza: hanno infatti combattuto la politica trumpiana del cosiddetto “flood the zone”, cioè firmare una quantità massiccia di ordini esecutivi, anche palesemente incostituzionali, per disorientare gli avversari e non dare loro una linea di risposta chiara, citando in giudizio l’amministrazione costantemente.

Una tattica che sta iniziando a dare ragione agli attivisti, dato che nelle corti d’appello federale il Presidente ha negli ultimi giorni ottenuto due sonore sconfitte: la sua politica sui dazi è stata dichiarata illegale, perché non è stata riconosciuta l’emergenza sbandierata dalla Casa Bianca, e per lo stesso motivo è stato definito illegale anche l’invio di truppe federali, senza coordinarsi col Governatore Newsom, a Los Angeles. Trump ha rapidamente fatto ricorso alla Corte Suprema, che valuterà i casi, e nell’attesa di un verdetto le politiche attuate rimangono in vigore. L’organo giudiziario più importante degli Stati Uniti, ormai schiacciato sulle posizioni del Presidente, molto probabilmente, però, si esprimerà a favore di Trump. Nonostante tutto, queste cause hanno costretto la Casa Bianca ad agire difensivamente, e hanno ottenuto un forte risalto mediatico, utile a controbilanciare la narrazione che arriva dal governo.

Anche la politica, poi, ha iniziato ad attuare attacchi più duri: nell’ultimo mese, infatti, alcune figure del Partito Democratico hanno dato vita a una battaglia aperta con Trump, in special modo il Governatore della California, Gavin Newsom, e quello dell’Illinois, JB Pritzker. A guidare l’opposizione sono, dunque, due figure apicali nel governo locale: se il Congresso, controllato dai repubblicani, non si ribella nonostante Trump ne limiti le prerogative, a farlo sono i rappresentanti dei poteri locali, che non vogliono cedere a Washington i propri diritti stabiliti per legge. 

La miccia che ha fatto esplodere lo scontro aperto tra i governatori e Trump è stata la volontà del Presidente di ridisegnare i collegi elettorali del Texas in vista delle elezioni di metà mandato del 2026, che rinnoveranno tutta la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato. Negli Stati Uniti i collegi elettorali vengono modificati ogni dieci anni, a seguito del censimento, dal Congresso statale o da una Commissione indipendente, se istituita. Fin dalla nascita della Repubblica questo momento è stato spesso utilizzato per favorire un partito sull’altro, in base ai rapporti di forza esistenti nello Stato al momento del censimento: la pratica di ridisegnare con un chiaro vantaggio politico i collegi è definita gerrymandering, per via di un collegio ridisegnato dal governatore del Massachusetts Elbridge Gerry nel 1812 con il chiaro scopo di favorire il Partito Democratico-Repubblicano, fazione fondata da Thomas Jefferson poi in gran parte confluita nel Partito Democratico ancora oggi esistente. Nonostante il prossimo censimento debba avvenire nel 2030, Trump ha richiesto al Texas, controllato dai repubblicani, di modificare i collegi elettorali già a partire dalle prossime elezioni, chiedendo espressamente di ottenere dopo questa mossa cinque deputati in più. Il presidente teme che, con le mappe odierne, possa perdere la Camera alle elezioni di medio termine, come già era avvenuto nel 2018, e quindi vorrebbe che tutti gli Stati repubblicani che possono modificare i collegi con una semplice legge statale lo facciano, in modo da garantire un vantaggio al Partito.

Una mossa che ha generato la replica diretta del governatore della California Gavin Newsom, che ha deciso di ridisegnare le mappe per dare un vantaggio ai democratici, in modo da controbilanciare i nuovi collegi texani. La modifica, però, per la California è più complessa: a disegnare i collegi non sono i parlamentari statali, ma una commissione indipendente, fortemente voluta da Arnold Schwarzenegger, da sempre contrario al gerrymandering, nel periodo in cui era governatore. Newsom ha quindi istituito un referendum per novembre, in cui si chiede ai cittadini se acconsentono ad accantonare la commissione indipendente fino al 2030, votando invece per la legittimità delle nuove mappe disegnate politicamente. 

Per il Partito democratico è un cambio di rotta evidente, e non facile da digerire: se nel 2016 l’allora first lady Michelle Obama diceva che “quando loro colpiscono basso, noi dobbiamo volare alto”, oggi la resistenza agli attacchi di Trump arriva replicando con la sua stessa moneta. Il disegno politico dei collegi, da mossa fatta in silenzio e nascosta, è ora alla luce del sole. Inoltre, Newsom ha cambiato nell’ultimo mese il suo stile comunicativo: sui social propone contenuti che ricopiano i post sconclusionati di Trump su Truth, il social media di sua proprietà. Per fare un esempio, Newsom ha generato immagini di sé stesso molto muscoloso con l’intelligenza artificiale e la didascalia “In Gavin We Trust”, risultando irriverente nei confronti della presidenza. L’idea ha galvanizzato i democratici sui social e adirato i repubblicani: Dana Perino, giornalista di Fox News, ha detto che il governatore si starebbe rendendo ridicolo. Newsom, però, fa notare che sta imitando lo stile raffazzonato e sconclusionato di Trump: se lui risulta bambinesco, allora anche Trump lo è.

Nello stesso tempo, il governatore dell’Illinois, JB Pritzker, si è scontrato apertamente con Trump, in una disputa sempre più accesa tra i poteri locali e federali. Per protestare contro i collegi ridisegnati, i democratici del Texas avevano abbandonato l’aula ed erano fuggiti dallo Stato, facendo crollare il numero legale. Una protesta che non poteva essere infinita, in quanto venivano multati per ogni giorno di assenza non giustificata dall’aula, ma che aveva l’obiettivo, come per le cause legali intentate dalle associazioni, di dare un’importante rilevanza mediatica a quello che stava accadendo a Austin. Ad ospitarli fuori dai confini texani è stato proprio Pritzker, che li ha accolti in Illinois, da dove sono diventati un caso mediatico, rilasciando varie interviste e partecipando a programmi televisivi per raccontare ai cittadini la situazione politica in Texas.

Negli ultimi giorni, poi, Trump ha minacciato apertamente Pritzker di inviare a Chicago, la città più importante dello Stato, la Guardia Nazionale, replicando ciò che è già avvenuto prima a Los Angeles e poi a Washington. La risposta del governatore è stata durissima: ha detto che “le truppe non sono benvolute in Illinois se non c’è emergenza” e ha accusato apertamente Trump di voler governare illegalmente in modo autoritario, paventando uno scenario in cui “il Presidente dirà che durante le elezioni ci sono stati dei problemi e prenderà il controllo dei risultati”. Quello che si nota dalle mosse di Newsom e Pritzker è che, nello scontro con Trump, non viene fatta un’opposizione alle politiche repubblicane, ma a Trump stesso, responsabile della deriva autoritaria degli Stati Uniti. Se all’inizio della presidenza in pochi volevano sbilanciarsi sul tema, nonostante le avvisaglie, oggi il pericolo democratico è il tema principale dell’opposizione.

Non è, comunque, così per tutti: in Virginia, dove a novembre si terrà un’importante elezione a governatore, la candidata democratica, Abigail Spanberger, ex deputata che ha lavorato molto in maniera bipartisan al Congresso, ha deciso di non abbandonare i suoi ideali di convergenza al centro. Nella sua campagna, che la vede avanti nei sondaggi rispetto al candidato repubblicano, Trump e l’autoritarismo non sono centrali: i temi principali sono il costo dell’energia e la carenza abitativa, e non ha preso posizione su nessun tema caldo, come la collaborazione coi federali per quanto riguarda i raid contro gli immigrati irregolari. Una campagna, però, che può funzionare in Virginia, e a conti fatti lo sta facendo, ma difficile da replicare su scala nazionale.

D’altronde, la condizione dei democratici che governano con Trump alla Casa Bianca è sempre più complessa. Stephen Miller, il vice capo di gabinetto responsabile delle politiche sull’immigrazione della Casa Bianca, ha definito il Partito democratico “un’organizzazione eversiva interna”: una retorica che va ben oltre lo scontro politico tra opposte visioni del paese. Scrivendo della svolta autoritaria del paese sul Guardian, Jonathan Freedland ha detto che “è più semplice andare avanti, fingendo che questa trasformazione degli Stati Uniti non è poi così grave, e tutto tornerà presto alla normalità. Ma non si possono ignorare le evidenze per sempre. Può succedere anche qui, e sta succedendo ora”.

Immagine in anteprima: frame video TIME via YouTube

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