All’avvio del pontificato di R.F. Prevost, è necessario effettuare alcune considerazioni su questa prima esperienza di governo della Chiesa cattolica da parte di un esponente del clero nordamericano. Una premessa fondamentale: l’elezione di un cardinale statunitense è un riconoscimento dell’importanza della chiesa made in America e riflette il peso specifico che gli U.S.A. hanno all’interno del mondo cattolico e dell’apparato ecclesiastico, considerato che gli Stati Uniti rappresentano il cuore finanziario della cattolicità, occupano il quarto posto per numero di cattolici al mondo con circa 62 milioni di fedeli, ed il secondo, dopo l’Italia, per numero di cardinali elettori nel conclave. Tentiamo dunque di descrivere le caratteristiche del clero nordamericano da cui Prevost proviene. Allo stato attuale, poco è emerso sull’orientamento dell’attuale pontefice riguardo a questioni dottrinali o politiche, per cui ci limiteremo a ripercorrere alcune linee del suo percorso biografico e pastorale.
Prevost nasce a Chicago, figlio di immigrati europei, con qualche discendenza creola. Uomo di famiglia europea, nato e cresciuto negli Stati Uniti, ha diviso il suo percorso di vita tra le due Americhe e il Vaticano, dove ha abitato come generale dell’ordine degli Agostiniani per 12 anni. Una parte significativa dell’esperienza ecclesiastica, oltre un ventennio, la trascorre da missionario in Perù. Ha ricoperto la carica di prefetto del dicastero per i Vescovi, uno dei dicasteri più importanti nella Curia romana, snodo chiave per la scelta della classe dirigente, quindi una pedina apicale della Curia romana in grado di rappresentare un punto di equilibrio tra il “centro romano” della Chiesa e il “decentramento” fortemente accentuato dalle nomine cardinalizie extraitaliane ed extraeuropee di Bergoglio. Tradotto in un linguaggio più affine ai meccanismi politici, un doroteo del Vaticano. La scelta del conclave pare quindi essersi orientata non esclusivamente verso gli U.S.A. ma verso entrambe le Americhe. Apparentemente una nuova sconfitta per l’eurocentrismo ed in particolare per l’italocentrismo cardinalizio; ma in realtà Prevost ristabilisce quell’equilibrio di alternanza al soglio di Pietro, attivo a partire dagli anni Sessanta del secolo XX, tra un pontefice che proviene dalla curia e chi ne è al di fuori. Un’alternanza che si verifica da decenni e che è stata rispettata anche in questo caso.
Non c’è dubbio che, politicamente, l’elezione in conclave di un papa nato a Chicago ma la cui esperienza si è formata come missionario agostiniano in Perù è anche una risposta indiretta alla politica contemporanea statunitense contrassegnata dal messianismo politico che vede in Trump il salvatore dell’America. Negli ultimi decenni il cattolicesimo statunitense è sempre stato politicamente e teologicamente più che conservatore. Infatti, per Steve Bannon, ex stratega di Trump, l’esito del conclave è risultato più truccato dell’elezione del 2020 contro Trump. Secondo Bannon, Prevost è la figura che serviva per contrapporsi al movimento Maga (Make America Great Again): un americano poco americano, che aveva fatto il missionario in Perù, un avversario del tradizionalismo cattolico. Ancora più esplicita, l’influencer trumpiana Laura Loomer, che addirittura ha definito Leone XIV «una marionetta marxista».
Il rapporto tra politica e cattolicesimo negli ultimi decenni negli U.S.A. è profondamente cambiato. Nel 1960 Kennedy proclamava che non avrebbe permesso alla sua fede di dettargli la linea politica. il concetto ora si è ribaltato: la nuova destra recluta cattolici in quanto tali, meglio se appena convertiti (è il caso di Vance), per combattere radicali e liberali di sinistra. Le guerre culturali hanno ormai arruolato un cattolicesimo che si è adeguato alla moda da anni imperante dei tele predicatori, che hanno la funzione di creare serbatoi elettorali e di mobilitazioni di campagne d’opinione. In questo rilancio a tutto campo della fede in chiave di crociata politica Vance, ad esempio, si propone come nuovo apostolo, a tal punto che si è cimentato in una formulazione di un nuovo ordo amoris, stabilendo una nuova gerarchia dell’amore cristiano. Afferma il Vicepresidente: “un concetto che ritengo molto cristiano, per cui tu ami la tua famiglia e poi ami il tuo vicino e poi ami la tua comunità e poi ami i tuoi connazionali, dopodiché puoi pensare e dare la priorità al resto del mondo: molta dell’estrema sinistra lo ha completamente invertito. (…) Non è un modo per mandare avanti una società». E prosegue: «America First non significa odiare tutti gli altri, significa avere una leadership che mette gli interessi dei cittadini americani al primo posto, esattamente come il primo ministro britannico dovrebbe preoccuparsi dei britannici e il francese dei francesi».
A questo proposito il Vaticano ha preso posizione e lo scorso 10 febbraio ha indirizzato una lettera ai vescovi statunitensi richiamandosi al catechismo: “L’amore cristiano non è un’espressione concentrica di interessi che a poco a poco si estendono ad altre persone e gruppi. Il vero ordo amoris è quello che costruisce una fratellanza aperta a tutti senza eccezioni”. Un esempio fra i tanti; ma le dispute tra amministrazione Trump e Vaticano non si esauriscono qui.
La scelta di Prevost è un chiaro segnale anche sul tema dell’immigrazione. Già in precedenza vi era stato un messaggio preciso al Campidoglio, quando da prefetto del dicastero per i Vescovi Prevost aveva concorso, d’intesa con Bergoglio, a insediare a Washington, in coincidenza con l’arrivo di Trump, il cardinale Robert Walter McElroy, fautore delle politiche di accoglienza, inequivocabile segnale politico.
Questo è il clima nella terra di provenienza di Leone XIV, in una significativa parte del mondo cattolico d’oltreoceano. Quello che è da evitare è di partecipare al gioco che tanto appassiona i media, ovvero di misurare il grado di conservatorismo o progressismo degli esponenti ecclesiastici, spesso valutato solo ed unicamente sulle contrapposizioni politiche che si vengono a determinare. Tale gioco è stato deleterio sulla figura di Bergoglio, poiché la contrapposizione con la destra, specie sul tema dei migranti, ha determinato buona parte dell’incondizionato positivo giudizio che la sinistra ha espresso su Bergoglio. Non vorremmo che tale meccanismo si ripetesse nei confronti di Prevost, considerato, sulla scorta dei primi segnali, dal modo in cui il mondo Maga statunitense ha accolto la sua nomina a papa.
Ricordiamo infine che Bergoglio già sin dai primi giorni del suo pontificato fece una sorta di dichiarazione di guerra, amplificata a dismisura dai media, contro la curia romana, che definiva la “lebbra” del papato. Questo fu il biglietto da visita con il quale papa Francesco fece il suo debutto e che probabilmente gli fece guadagnare un enorme credito di popolarità. Ma se tanto grande fu la grancassa mediatica riservata a queste dichiarazioni roboanti, altrettanto grande è stato il nulla in termini concreti, poiché niente durante il pontificato di Bergoglio è cambiato nella curia, anzi si sono negli anni registrate promozioni di soggetti coinvolti in vicende non edificanti o in scandali. Così come le encicliche Laudato si’ e Amoris Laetitia di Bergoglio, propagandate dal mondo non solo cattolico, ma anche laico come universali messaggi di concordia e pace, sono risultate volutamente ambigue e non hanno prodotto nessun cambiamento concreto. Lo scopo era perseguire la strategia comunicativa che poi è risultata vincente, annunciare un cambiamento che poi non si avvera. Sappiamo che il potere non può riformarsi, non può rinunciare ai suoi privilegi, ma solo illudere che abbia intenzione di farlo.
Daniele Ratti
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